Decodificare il presente, raccontare il futuro

TREDICESIMO-PIANO


ven 6 novembre 2015

LA MARATONA DI NEW YORK

«Da quassù, guardo arrancare le patetiche formiche in pettorina. L'1% sa di essere ricco, ci è abituato.»

New York City, 1 novembre 2015
Un sentiero nudo, nella folta macchia di colori autunnali. A loro volta, tutte le sfumature del giallo e del marrone separano nettamente Central Park dagli edifici che l’assediano. Palazzi come questo sulla 75esima dove vivo e da dove assisto alla maratona quando sono a New York.

In piedi davanti alla grande vetrata del mio appartamento, sorseggio un caffè. Posso seguire chiaramente l’arrivo della corsa, da qui. Ho già visto sfilare i primi che hanno tagliato il traguardo. Ora arriva il grosso dei partecipanti, il fiume di gente che sfocia all’arrivo. Un fiume compatto, ben staccato dai migliori tempi dei primi. Un insieme che lo sforzo fa oscillare come uno sciame.

Un branco di corpi sudati e boccheggianti. Una mandria esausta. Una moltitudine.

Intorno a me, i pezzi minimal del mio mobilio. Il gioco di simmetrie fra le lampade da terra e l’orizzontalità del lungo divano. E i quadri che ho acquistato negli anni. L’arte concettuale di Fontana, il paesaggio di Fragonard. La neve dell’acquerello di Kabakov. La serigrafia numerata della prima serie del Mulino di Escher. Mi dà un certo piacere, essere circondato da queste opere e osservare gli sforzi degli uomini in scarpe da ginnastica laggiù, fra due ali di pubblico.

Hanno qualcosa di classico nella loro insensatezza. Quegli uomini non vinceranno mai, lo sanno, eppure ciascuno di loro continua a correre. Quarantadue chilometri. Come Sisifo sul monte spinge una pietra che rotola sempre indietro, così questa massa spinge i piedi in un percorso che non li fa avanzare davvero. Uno sforzo assurdo, un’inutile tensione verso qualcosa di irraggiungibile. Ed è proprio così che io, dieci piani sopra il livello stradale, vedo il mondo.

Io, l’uomo più potente del board, nella grande banca. L’uomo che tutto osserva dall’alto e che dal basso non si può distinguere. Io, che muovo truppe inconsapevoli in guerre invisibili, motore immobile dell’oggi.

Io, Derek Morgan.

Da quassù, guardo arrancare le patetiche formiche in pettorina. Come se fossero personaggi di un romanzo, come se io fossi l’autore che dall’ultima pagina guarda le loro peripezie. Dalla privilegiata posizione al termine ultimo del tempo della storia, e della Storia. Con i polpastrelli della mano colpisco leggermente la tazza, quasi facessi una scala al pianoforte.

Le distanze giù in basso, incolmabili, mi ricordano altre distanze, altre cifre, altri abissi. Come quello slogan che oppone l’1% dell’élite proprietaria del pianeta al 99% del genere umano. Il 99% di “chi sta sotto”, come dice un tribuno spagnolo coi capelli troppo lunghi. Quest’asimmetria, questo rapporto fra la minoranza e il resto, fra l’alto e il basso, ha alimentato immagini di ribellione, versato fiumi d’inchiostro, ispirato la giaculatoria contro le diseguaglianze sociali, animato le voci dei fieri oppositori dello stato di cose presente. Laggiù al traguardo della maratona, qualcuno solleva le braccia al cielo,

qualcun altro non ne ha la forza.

Contro quell’1% si sono mossi quelli che hanno occupato Zuccotti Park e quanti in Europa hanno combattuto le politiche di austerità. Contro quell’1%, per denunciare l’iniquità, un intellettuale francese ha scritto centinaia di pagine. Con disprezzo, chiamano quell’1% il “partito di Wall Street”. Mi riempio la tazza di caffè.

Questi che parlano del 99% sono come i personaggi di Beckett: giocano con il possibile, senza attuarlo. Anche il Papa adesso parla di sovversione delle moltitudini. Neanche si rendono conto di cos’ha significato trovare la rotta nella tempesta perfetta, alcuni anni fa. A tu per tu con l’abisso del Great Crash, nel 2007, quando tremarono le piazze finanziarie dell’Occidente.

Certo che abbiamo pilotato risorse pubbliche per salvare le banche. Certo che abbiamo contribuito a destabilizzare i bilanci degli Stati in Europa. Certo che abbiamo aumentato la ricchezza di chi era già ricco, per evitare la definitiva implosione sociale.

Abbiamo evitato la “barbarie”, come avrebbe detto qualcuno. E l’abbiamo fatto perché non c’era altra scelta.

È stata la cura brutale per una malattia acuta. Era l’unico modo di uscirne. Normale che ci siano stati danni collaterali, lividi da assorbire. Osservo come si danno da fare gli uomini dell’organizzazione  per far defluire i maratoneti. Osservo il pubblico che lascia Central Park.

Le politiche monetarie, i QE, sono stati farmaci potenti. Ma in greco “farmaco” significa anche “veleno”. E il veleno dev’essere metabolizzato, altrimenti uccide. Per questo la liquidità immessa doveva depositarsi da qualche parte, nell’organismo. E noi abbiamo scelto i ricchi, quell’1%. Perché lì non avrebbe fatto danni. L’accumulazione di ricchezza è “innocua”: non produce inflazione, non sposta equilibri, stimola una crescita “sana”. E questo è l’unico, vero sviluppo possibile:

quello che tiene in scacco le masse, conservando un equilibrio miracoloso.

Non esiste possibile, l’unico che può aversi è il reale. Non esistono altri mondi possibili, l’unico è quello garantito dall’1%. Oltre i confini della realtà, c’è solo catastrofe e rovina.

Ecco perché nel qui e ora che modelliamo non c’è futuro, non c’è movimento, non c’è entropia. Solo un eterno inverno che conserva la civiltà sotto una coltre di gelo. L’unica esistenza ancora concessa all’Occidente.

Dalla folla, dal parco, dalla strada, alzo lo sguardo sullo skyline di New York. Riconquisto l’altezza. Percorro le cime dei grattacieli nella luce del pomeriggio. Mi sembra commovente l’ingenuità degli architetti nel differenziare le proprie soluzioni, per disegnare ciò con cui osano guardare il cielo. Inclino la tazza e sorseggio. Guardo davanti a me, con la prospettiva di chi siede su una piramide che non è scalabile. La superficie perfettamente liscia che non consente appiglio.

A metterlo sottosopra, l’american dream ha la forma di un imbuto. L’ascensore sociale non esiste più, al suo posto c’è questo collo di bottiglia in cui tutti sognano di infilarsi. Solo i numeri piccoli ci riescono. Il 3% del tasso d’accettazione alle università della Ivy League, per esempio, dove la futura rete di contatti viene spacciata come dottrina. O quell’1%, quel miraggio.

I grattacieli, nei loro riflessi e nella loro maestosità, costringono ancora alla soggezione. È valsa la pena di sacrificare il mito della mobilità sociale, svuotare di significato la formula land of opportunity. Ne è valsa la pena, perché quell’1%manifesta comunque la propria potenza. E se esiste ancora un impero americano e un’egemonia americana, è grazie a quelli come noi.

Decine di metri sotto le costruzioni dell’Uomo, gli uomini si avvicinano al traguardo della loro corsa, o lo tagliano. Controllano il tempo di gara, il tempo che gli interessa.

Abbiamo riqualificato città. L’edilizia, l’abbiamo resa equalizzatore sociale per definizione. Abbiamo trovato lavoro per milioni di blue collar. Abbiamo fatto di metropoli, fabbriche. Di New York, un cantiere. Se l’edilizia si fermasse, si spalancarebbe il baratro, perché le ristrutturazioni sono finanziate dall’1% che reinveste sulla città. La rat race dell’1% crea lavoro, mentre la rat race del 99% creerebbe inflazione. Il capitale fittizio che creiamo deve rimanere in circuiti controllati. Case, barche, ville, opere d’arte: queste non sono bolle che scoppiano facilmente. E anche se scoppiano, fanno il minor danno calcolabile.
Riempio ancora la tazza di caffè.

I crediti facili. Il sogno bugiardo, clintoniano, della casa per tutti.

Le illusioni dei democratici alla Casa bianca. Era quella, la grande truffa. Se i consumi del 99% non vengono controllati, il pianeta collassa. Tra emissioni e surriscaldamento, sarebbe la fine. Scoppierebbe tutto, stavolta sì.

L’1% sa essere ricco, ci è abituato. Non può danneggiare attraverso la sua ricchezza. Perché la reinveste in modo da garantire la continuità politica.
L’1% è il male minore.

Mi volto, lascio scorrere lo sguardo sulle pareti. Le spalle alla grande vetrata del salotto. Nel mezzo tra il pezzo di Fontana e il paesaggio di Fragonard, indirizzo lo sguardo alla cornice più piccola. Investiamo in arte, noi. Niente di più ecologico, pulito e nobile. Il rapporto privato con un’opera è un’esperienza che in pochi possono capire. Non è tanto il possesso, quanto la contemplazione solitaria e reciproca. In pochi, possono.

Torno a voltarmi alla finestra. Abbasso lo sguardo e mi sembra di vedere qualcuno, in strada, che alza la testa e mostra la fronte al sole. Mi sembra, è solo un’impressione. Ma il significato di quel gesto mi fa pensare.

Un tempo alzare la testa era sinonimo di ribellione, oggi rappresenta solo un desiderio impotente. Ai lati del percorso della maratona, le persone continuano a sfollare. La vera trappola, la sola garanzia dell’esistente è il desiderio di accedere a un livello superiore di consumi. È questo il motore di tutto. Ostentazione del lusso, gentrificazione delle città, mercato dell’arte: è questo a far scaturire il desiderio, a garantire la stabilità. I desideri non hanno più niente di liberatorio. L’ultima magia dei Diavoli è rendere docile la voglia di emulazione.

Mi allontano dalla vetrata e faccio qualche passo verso l’interno della stanza. Osservo i miei quadri: il Fragonard, l’inganno di Escher, e il Fontana, e l’inverno perenne nell’acquarello di Kabakov… Penso a quanti soldi valgono. E penso, allora, ai fiumi di cartamoneta immessa nelle arterie della finanza. La finanza che ha il compito di mantenere la continuità del sistema. Perché le rendite sostengono un’inestricabile matassa di linee di forza e rapporti di potere che non devono sfaldarsi. Ed è proprio quell’1% a garantire il reinvestimento. Se la ricchezza fosse redistribuita, farebbe saltare quel sottile equilibrio, perché il capitale fittizio non corrisponde mai alla ricchezza reale.

Cammino verso la cornice più piccola, quella tra il Fontana e il Fragonard. La più preziosa fra tutte le opere d’arte. Quando sono abbastanza vicino da vederne i dettagli, mi fermo. Racchiuso lì, c’è un rettangolo verde, con il nome del mio Paese scritto per esteso. A sinistra, una piramide sormontata da un occhio supremo. A destra, l’aquila che domina i cieli.

Un biglietto da un dollaro.

Fiat money è un’astrazione, dove il dollaro ha sostituito l’oro come bene di riserva. Senza la centralità del dollaro non esisterebbe che anarchia. Sarebbe il collasso del nostro mondo. Devo piegarmi un poco per leggere la scritta alla base della piramide: Novus Ordo Secolorum. Accenno un sorriso, restando chino sulle ginocchia.

Gloria, Alleluja.

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