Decodificare il presente, raccontare il futuro

TREDICESIMO-PIANO


mer 25 febbraio 2015

UTOPIE DEI DEBOLI E PAURE DEI FORTI

Ogni tattica è valida, se la strategia è chiara

Mercoledì 25 febbraio 2015, London City

Finita la lezione, percorro i corridoi del “Birkbeck College” con la giacca di tweed intorno al braccio. Ogni volta che attraverso questi spazi non posso fare a meno di pensare che qui ha insegnato Eric Hobsbawm, il grande studioso di ribelli e rivoluzionari. E qui, oggi, insegno io. I tempi cambiano, e il “secolo breve” è finito da un pezzo, anche se in questo luogo ancora ne interroghiamo la memoria.
Sorrido per un attimo mentre lascio vagare lo sguardo sulle grandi vetrate. Oltre la trasparenza, ragazzi che chiacchierano, seduti sulle panchine sotto gli alberi. Ho ragionato con i miei studenti sul concetto di crisi, sia nell’accezione di congiuntura negativa sia in quella di “occasione”. Ho parlato del ’29, del New Deal, dell’inversione di alcune politiche. Sono stanco, e non vedo l’ora di allungare le gambe nel mio ufficio.
Appena spingo la porta con la targa “PHILIP WADE”, i libri ammucchiati mi ricordano che dovrei fare un po’ d’ordine. Me lo ricordano ogni volta. Perché ogni volta, nella mia vita, ho avuto una stanza piena zeppa di libri. Quando studiavo letteratura a Oxford. Quando lavoravo con Federico Caffè, a Roma. Quando facevo lo strategist, nella grande banca.
Oltre la catasta che vien su da uno scaffale, seduto sulla poltroncina, c’è un uomo di spalle. Capelli neri pettinati con una riga perfetta, spalle squadrate. So bene chi è. Per dieci anni, in un’altra vita, è stato il capo della divisione fixed income “Europa” nella sede londinese della grande banca, dove lavoravo.
«Accomodati pure, Derek.» Piego la voce, a fargli sentire che non sono sorpreso.
Lui fa ruotare la sedia. Eccolo, Derek Morgan. Il grande manipolatore, l’Illusionista.
Si guarda intorno, scuote la testa: «Non cambi mai, Phil.»
«Nemmeno tu.»
Si alza. La giacca è sulla spalliera della sedia. Raggiunge la finestra e guarda fuori. «Invece altre cose cambiano» dice a mezza bocca. Come al solito è vestito in modo impeccabile, ma senza ostentazione. La camicia bianca, la cravatta perfettamente annodata, il pantalone del vestito senza una piega. Un paio di John Lobb ai piedi. Il mio maglione un po’ abbondante mi darà vantaggio, sul ring, sarò più agile. Mi sfilo gli occhiali, lui indugia a guardare la montatura rossa. Ne approfitto, porto il colpo per primo: «Perché sei venuto?»
«Per il solito motivo. Capire cosa sta succedendo.»
«Oppure cosa succederà?»
«È la stessa cosa, no?» schiva lui.
E allora provo un gancio: «Per quelli come te, il presente serve solo a creare il futuro».
«Forse.» Derek si volta. Mette le mani in tasca. «Ti racconto una storia.»
«Oh, le storie mi piacciono.» Vado a sedermi sulla poltrona, accavallo le gambe. «Non tutte però. Le storie non sono tutte uguali…»
«Questo lo lascio decidere a te» dice Derek. «Quando ho cominciato, credevo che non esistessero limiti. Viaggiavamo a velocità folle. Il contesto, intorno, era frenetico. Un Presidente che abroga il GlassSteagall Act… Pensaci: un governo che smantella il sistema di controllo sull’economia. Per noi era come fare kayak su fiumi di liquidità. Tassi bassi con cui abbiamo finanziato tutto. Per avere la protezione garantita dal welfare, bisognava passare da noi. Casa, sanità, istruzione… Avevamo un finanziamento per tutto. Venivano a prendere i soldi per comprare beni e sicurezza. Diritti, direbbero alcuni. I democratici sono stati i migliori alleati… alleati inattesi.» Prende una penna dalla scrivania, la capovolge e fa per scrivere dal verso sbagliato. «Con tutta quella cartamoneta abbiamo pure messo il mondo in connessione, e…»
«Ti ho detto che dipende dalle storie, Derek» lo interrompo. «E questa è una storia velenosa. Un gioco di prestigio, una delle tue illusioni. Le cose non sono andate così.»
Lui molla la penna ma il viso è sereno.
Tento di spostarlo verso le corde, o almeno di innervosirlo: «Nella West Coast degli anni Settanta, era una rete di geni sballati che metteva in circolazione codici, know-how, primi linguaggi informatici. Tutto era proprietà di tutti, e tutto si condivideva in una libera comunità, prima che qualcuno ci mettesse sopra un copyright.» Non reagisce, mi scompiglio le ciocche sulla fronte e qualche capello bianco resta fra le dita. «E anche la Rete nasce da investimenti pubblici» continuo. «La tua liquidità è servita solo a montare la speculazione dell’high-tech. Non avete inventato niente. Avete solo aggiunto sapone nell’acqua e soffiato per gonfiare le bolle. E l’abolizione del GlassSteagall Act ha causato la deregolamentazione che ha fatto ballare il capitalismo sulla crisi del 2008… Avanti, ammettilo. Stavate per sprofondare nel burrone.»
«Dici sempre quello che pensi» risponde con una voce asciutta. I volumi uno sull’altro potrebbero scegliere questo momento per perdere l’equilibrio, crollare su di lui, e Derek manterrebbe comunque la calma. «Ma la trasparenza non paga sempre, e non ti preserva dagli errori. Come quello che hai fatto tu, Philip, dopo che abbiamo salvato le banche americane: quindici trilioni di dollari immessi nel sistema del credito, e pompati nelle vene dell’Occidente. L’unico modo per pilotare la crisi e uscirne nella direzione che volevamo.»
Non paro il colpo, meglio scartare: «Quel salvataggio, quella roba del 2008, è stato un’operazione da Unione Sovietica. Il più grande intervento pubblico nel sistema del credito. Non credevo fossi socialista, Derek…»
Lui sorride. «Ogni tattica è valida, se la strategia è chiara.»
«Roba da guerrieri» dico. «Ma ogni guerra ha i suoi morti. Un aspetto che tu non hai mai voluto considerare.»
«È una guerra a cui quelli come noi non possono sottrarsi.» Ha usato il noi, mi tira dentro. «E comunque, quando stampammo moneta, hai pensato che non avremmo tenuto. Che da qualche parte, sul debito o sul dollaro, saremmo caduti. Invece sbagliavi.»
Resto in silenzio. Per un attimo ricordo i tempi in cui dicevo che il debito USA era sicuro com’era sicura Pearl Harbour prima dell’attacco giapponese.
«E sono passati altri otto anni» dice Derek.
Allora contrattacco: «Stai diventando superstizioso? Dovresti saperlo che i numeri non hanno un significato. Oppure cominci a coltivare una filosofia della Storia? Quelli come te non dovrebbero farlo. Quelli come te hanno la presunzione di farla, la Storia, senza conservarne mai alcuna memoria».
«Il 2015 apre un ciclo nuovo, Phil. Le banche per come le abbiamo conosciute stanno morendo. E tutt’intorno cresce un blob ingovernabile. Sai di cosa parlo… hedge fund, gestori di fondi sovrani, book di trading, private equity… E si muovono senza un piano. Non hanno idea di cosa sia un piano.» Si ferma per un attimo, e poi scarta anche lui: «Ma c’è un altro problema, ilproblema. Una variabile non considerata: nuove masse che spingono dal basso. La Grecia, la Spagna, e perfino qui, in Inghilterra. L’Europa rischia di bruciare. Spinte diverse, certo, ma sommate possono distruggere tutto…» Socchiude gli occhi. «Tu hai sbagliato una volta, ma quello che avevi intuito allora potrebbe tornare utile oggi.»
Rimango in silenzio. Da quando abbiamo iniziato la conversazione ho saputo muovermi, leggere la danza sul ring. Ora non so se dirgli di andarsene. Ma forse potrei azzardare, portare un attacco inatteso, e tentare di condizionare il manipolatore. Vale la pena provarci. «Tocca a me raccontarti una storia, Derek.» Indico la finestra, il buio che fuori è sceso. Urtando fra i libri col braccio riesco ad accendere la lampada sul tavolo: «Le crisi illuminano la notte. Le crisi sono un incendio nel buio, fanno vedere ciò che le tenebre confondono. Sono utili, le crisi». Proseguo svelto, senza dargli il tempo di alzare la guardia. «Oggi, le fiamme che incendiano Atene, e che domani potrebbero incendiare Madrid, ci fanno vedere i limiti delle politiche di Berlino e Francoforte. E anche del tuo disegno. Quella che chiami “variabile non considerata”, “spinta dal basso”, è solo la risposta di milioni di donne e uomini che non ce la fanno più. Ma questa variabile può salvarvi da voi stessi. Hai detto che, quando hai cominciato, non avevi coscienza del limite. Oggi l’esistenza di questo limite vi viene ricordata. Non riguarda solo Atene, riguarda il senso e la funzione dell’Europa stessa, e anche del tuo… piano… Riguarda te e quelli come te. Io ti dico: ascolta, e fatti aiutare, prova a salvarti da te stesso. Siamo davanti a un salto di paradigma. Niente sarà più come prima. Parli del blob. Io ti dico: se vuoi fermarlo, e fermare questa corsa folle, puoi trovare alleati dove credi di vedere nemici. E ti consiglio di pensarci. Credi di governare il tempo. E allora ascolta questo suggerimento: ci sono momenti in cui devi cedere spazio, per guadagnare tempo. Sei un maestro del differimento, continua a fare quello che sai fare. Nel modo giusto, però».
Non appena smetto di parlare, cerco una bottiglietta d’acqua nel disordine della scrivania. Derek fa un passo verso di me. Che accetti di chiuderla qui, senza replicare, mi sbalordisce. E lui deve accorgersene, perché dice: «Quello che so fare è lasciare le persone a bocca aperta. Grazie, Phil». E sorride, porgendomi la mano. Una stretta decisa accompagnata da uno sguardo pieno di rispetto. Come si ringrazia il pugile avversario nonostante ti abbia battuto. Eppure lui, Derek Morgan, non è tipo da ammettere una sconfitta.
Quando sento la porta chiudersi e i passi allontanarsi lungo il corridoio, mi alzo in piedi. E rifletto.
Poi con un mezzo scatto mi allungo a cercare un libro, rovesciandone altri sulla scrivania. Sono certo di averlo tenuto a portata di mano. Lo trovo quasi subito, in effetti. Mi sbrigo ad aprire la prima pagina: “Nulla ci rende umani quanto l’aporia: quello stato di intenso disorientamento in cui ci troviamo quando le nostre certezza vanno a pezzi”. Chiudo il volume, lo appoggio in cima agli altri. Resto lì a guardare il nome dell’autore e il titolo, sul dorso: Yanis Varoufakis, Il minotauro globale.
Mi chiedo se il dubbio di Derek non sia solo una tattica per ottenere una conferma. La conferma d’una certezza già maturata. Come in un gioco di magia, in cui il momento cruciale è il “prestigio”, quando devi far riapparire ciò che hai fatto sparire. E mi sento come quello spettatore chiamato sul palco dall’illusionista, quello che deve inverare la grande magia per lasciare le persone a bocca aperta.

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