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TREDICESIMO-PIANO


mar 6 settembre 2016

GERMANIA-EUROPA: NESSUN GRADO DI SEPARAZIONE

Intervista a Lando Hoffman: "Il futuro muore soffocato da una gelida ragione contabile, dal cieco e ottuso fondamentalismo dei parametri."

AMBURGO – “Non c’è niente a destra della CDU” recitava un vecchio adagio della politica tedesca. Le recenti elezioni in Meclemburgo-Pomerania, e il successo della forza populista AfD (Alternativa per la Germania) hanno certificato inequivocabilmente un trend registrato in altre tornate, dicendo qualcosa in più. A destra dei cristiano-democratici della cancelliera Angela Merkel non c’è solo uno spazio politico: c’è una vera e propria prateria che la destra guidata da Frauke Petry sta incendiando. Il risultato è di quelli che non si dimenticano. La CDU incassa una sconfitta che fa male e viene declassata a terzo partito – alle spalle dei socialdemocratici della SPD e della AfD – nel Länd dove Merkel ha il suo collegio per il Bundestag. «I dati che emergono dalle urne non mi sorprendono» dichiara Lando Hoffman, tra i pochi che non sembrano colpiti dall’avanzata populista e dal significato simbolico delle elezioni di domenica. «Alcuni processi erano in atto da tempo, ma abbiamo preferito non coglierne la portata» aggiunge senza fare sconti. Nato a Dresda quarantatre anni fa, cresciuto nella Repubblica democratica tedesca, dopo la riunificazione svolge attività di ricerca in statistica ed economia attuariale presso l’università di Colonia. Poi, la scelta che gli cambia la vita: l’abbandono del mondo accademico, il passaggio a uno dei più importanti colossi assicurativi tedeschi e la fulminante ascesa ai vertici del Gruppo S***. Oggi Herr Hoffman è considerato un autorevole esponente della comunità finanziaria e una delle voci più originali del mondo intellettuale vicino alla SPD, a cui è solito non lesinare critiche.
Neanche la Germania viene risparmiata dal vento che soffia da destra. Come spiega l’avanzamento dei populisti della AfD e il risultato elettorale in Meclemburgo-Pomerania?
Per prima cosa bisogna accantonare lo stupore. L’idea che una nazione all’apparenza solida e ricca come la Germania potesse tenersi al riparo dalle tendenze complessive che agiscono a livello europeo, e in Occidente, è un pregiudizio ingenuo o – peggio – una convinzione dettata da falsa coscienza. Oggi non esiste alcuna correlazione tra ricchezza di un Paese e quadro politico. Le periferie mondiali, continentali, nazionali e metropolitane sono ovunque. La ricchezza di una nazione, in assenza di processi redistributivi, non solo non è garanzia della governabilità centrista, ma addirittura è la causa del suo disfarsi.
Non è un azzardo paragonare la Germania leader dell’Unione europea ai Paesi che hanno sofferto gli effetti più devastanti della crisi economica?
No, non è un azzardo. Al contrario, è l’unica chiave d’interpretazione possibile. La microfisica del potere – ovvero la rete di relazioni, il proliferare dei discorsi e le molteplici forme in cui si esercita il soggiogamento – agisce in modo uniforme, al di là delle differenze territoriali o di contesto economico. La Germania non è fuori da tutto questo. Sul piano strettamente politico, invece, le connessioni e gli intrecci su cui si fondava la stabilità in area Ue sono saltati, la crisi di legittimità è ormai endemica, la perdita di egemonia da parte dei partiti tradizionali (moderati e socialisti) è sotto gli occhi di tutti. Ovunque, in Europa, si attivano processi, emergono parole d’ordine e si formano linguaggi tendenti a coagulare il rifiuto dello stato di cose presente. La convergenza tra conservatori e socialdemocratici, il modello della grande coalizione, pilastro del cosiddetto estremismo di centro, sta perdendo aderenza. La dialettica tra l’intolleranza del modello economico di Wolfgang Schäuble su scala europea e il paradigma dell’accoglienza per i migranti in Germania, sostenuto da Angela Merkel, sono le tessere di un puzzle irricomponibile che infittisce le schiere di delusi e scontenti, di infelici ed esclusi. Al netto dei richiami di maniera alle origini dell’europeismo e allo spirito del manifesto di Ventotene, il progetto europeo non ha più alcuna presa, ha smarrito la capacità di mobilitare e di creare consenso, rinunciando a delineare uno scenario di progresso collettivo. Il futuro muore soffocato da una gelida ragione contabile, dal cieco e ottuso fondamentalismo dei parametri.
Rileva delle somiglianze tra i partiti populisti europei e la destra tedesca?
Sono declinazioni dello stesso fenomeno. Possono cambiare i linguaggi o le forme di organizzazione in rapporto alle condizioni specifiche e al nemico da combattere. Tuttavia, prescindendo dalle differenze, ci sono almeno due punti fermi. Primo: attraverso la contestazione degli establishment locali o nazionali il vero spauracchio è rappresentato dall’ordine europeo e – molto spesso – dalla globalizzazione. Secondo: moderati e socialisti hanno alimentato un “uso politico della crisi”, servendosi del great crash dei debiti sovrani come leva per approfondire la compressione dei redditi, smantellare il welfare, ridurre i diritti e limitare il versante sociale della cittadinanza. Così facendo hanno evitato un’uscita di sinistra dalla “crisi”, ma rischiano un’implosione a destra degli equilibri continentali. Rischiano… O, forse, l’hanno messo lucidamente in conto, cosa che sarebbe gravissima. Questo processo si è dispiegato plasticamente nei dodici mesi che separano il referendum greco dell’Oxi da quello del Brexit in UK.
Quanto pesa il tema dei migranti nell’emergere di queste forze anti-sistema e nel rischio di un’implosione da destra dell’ordine europeo?
Molto, ma il discorso è più ampio. La questione dell’immigrazione definisce compagini sociali, composte da individui o gruppi con diverse caratteristiche, storie e background che si incontrano su terreni comuni. Ma nel consenso raccolto dalle forze cosiddette populiste c’è di tutto. Dietro la paura – o l’odio – per i migranti, non è difficile scorgere altre passioni tristi: la frustrazione per la precarizzazione del mercato del lavoro – e in questo la Germania è stata all’avanguardia anche se si tende a dimenticarlo –, l’assenza di prospettive, l’insicurezza sociale trasformata in ossessione securitaria e il degrado delle periferie metropolitane. Il migrante funziona da obiettivo verso cui indirizzare contraddizioni semplificate.
Eppure nella percezione condivisa la Germania rappresenta un modello d’integrazione e di tenuta del welfare state.
Lo è – o lo è stato – in termini relativi. Le diseguaglianze sono aumentate anche qui. Il paradigma neo-mercantilista ha acuito le differenze di reddito anche in Germania. Il successo del nostro commercio estero ha precisi costi, e a pagarli non sono solo i partner europei, ma anche diversi soggetti sociali in Germania. Vede, io opero nel settore assicurativo previdenziale privato e posso dire che ormai non ci sono più opportunità d’investimento: in altri termini, i pensionati tedeschi riceveranno meno di quello che hanno versato. Il nostro surplus commerciale spinge la deflazione e obbliga il resto dell’Europa all’austerity. La folle corsa all’aumento di produttività a scapito dei salari, combinata alla distruzione di milioni di posti di lavoro – frutto dell’applicazione dei nuovi strumenti tecnologici –, costituisce la filigrana di una nuova microfisica del potere. Ovviamente è più facile mobilitarsi contro i migranti che acquisire consapevolezza dei dispositivi segreti che assoggettano le vite di milioni di donne e uomini.
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