Decodificare il presente, raccontare il futuro

TREDICESIMO-PIANO


dom 22 maggio 2016

DISUGUAGLIANZE

La finanza sta sfasciando tutto, divorando l’economia reale. Come fai a non vederlo?

22 maggio 2015

Mancano pochi minuti a mezzanotte. Il floor è deserto. Le luci accese della sala riunioni illuminano debolmente un lato dello stanzone. Oltre i vetri divisori, due donne asiatiche sulla quarantina. Hanno i capelli neri legati e indossano le divise d’una ditta di pulizie. La prima passa un panno sul grande tavolo al centro dell’ambiente. La seconda ha la testa china ed è protesa in avanti. In sottofondo il ronzio di un aspirapolvere. Si muovono in modo meccanico, sembrano automi, persi in una vacua routine.
Lui rimane a guardarle per qualche istante, prima di attraversare il floor a passo lento diretto alla sua postazione. La moquette attutisce il rumore dei passi. Il monitor del computer è acceso e proietta un chiarore biancastro su una figura seduta. Il viso è in ombra. «Lo sai cosa hai fatto?» sibila una voce.
Massimo si ferma a un paio di metri dal desk, con le mani in tasca. «L’unica cosa che era giusto fare.» Sorride. Un sorriso sfumato, nascosto dal cappuccio della felpa. Derek tiene le gambe accavallate. Il piede sospeso in aria si muove ritmicamente.
È in maniche di camicia, senza cravatta, il colletto sbottonato. La giacca è buttata accanto alla tastiera e alla sfera di vetro in cui si agita il pesce rosso di Mario. «Stai dicendo che era giusto distruggersi la vita e mandare tutto a farsi fottere?
Cos’è successo, Massimo? Eh? Prova a convincermi che c’è una cazzo di ragione per tutto questo.» La voce freme di rabbia, e quella vibrazione è la sottile linea che separa l’imperturbabile distacco di un uomo troppo potente, abituato a determinare il corso degli eventi, e la delusione che accompagna l’unica variabile che non aveva messo in conto. Che non aveva neppure pensato di considerare.
«Succede che è finita. Succede che stanotte riprendi il tuo aereo e torni a New York. E quando vedrai i tuoi figli, chiederai scusa. Dirai loro che tu e quelli come te hanno sbagliato tutto e che per colpa nostra il mondo è diventato un incubo in cui non distingueranno più tra bene e male, in cui avranno paura di camminare in mezzo alla gente.» S’interrompe. Abbassa il cappuccio senza cambiare espressione. «Avranno perfino paura di ridere.»
«Non sai quello che dici.» Derek si alza di scatto. Ha il viso arrossato, la piega dei capelli è scomposta, un ciuffo ricade sulla fronte. Una luce minacciosa negli occhi. Parla con voce nasale, accorciando le parole in una cadenza newyorkese fuori controllo. «Stai vaneggiando. Ero a Manhattan, mi hanno svegliato nel cuoredella notte per dirmi che un uomo che ho assunto io, che ho cresciuto io e che io ho nominato responsabile dell’“Europa” ha azzerato tutti i book ed è scomparso.
Francesi e Danesi vogliono la tua testa. Al Board stanno pensando di rovinarti. Hai una vaga idea di quanti utili abbiamo perso? Sai quanto ci potevamo guadagnare?» Massimo annuisce lentamente. «Conosco la cifra fino all’ultimo centesimo. È l’ultimo numero che calcolerò in vita mia.» «Allora sai che erano soldi facili, facilissimi. Hai lavorato sei mesi alla grande, potevi chiudere anche quest’anno con un trionfo. Italia, Spagna, Irlanda in ginocchio. Bastava dare il colpo di grazia. E invece siamo stati gli unici stronzi a comprare da un giorno all’altro. Tu sei impazzito.» Si ferma per rifiatare.
Massimo non l’ha mai visto così. È stravolto. Ora lo conosce davvero. La sua collera. Il senso di rivalsa. Ora conosce Derek Morgan.
«Sei impazzito, non c’è altra spiegazione» ripete l’americano.
«Quand’è che ci siamo visti l’ultima volta, Derek?» domanda scandendo ogni sillaba.
«Lo sai perfettamente quando ci siamo visti.»
Massimo scuote la testa. «No, non quando mangiavi bianco d’uovo, generale. Dico dell’ultima volta in cui eravamo tutti insieme: io, te, Hillary, Michela e i ragazzi.»
«Di cosa parli?»
«Non te lo ricordi. Io, sì. È stata l’estate di tre anni fa, l’ultima che hai passato nel Mediterraneo. Eravamo sulla tua barca. L’ho sempre amata, quella barca. Non te l’ho mai detto, ma lo scafo l’aveva fatto un mio amico. Era un ingegnere navale. Suo padre aveva lavorato per anni nei bacini di carenaggio. Una maestranza di qualità. Stringeva a mano ogni singola vite, lucidava i legni, li piallava, li rendeva vivi. Non c’è niente di più affidabile se vuoi andare per mare. E tu non lo sapevi nemmeno.» Lancia un’occhiata al desk. Il liquido nella boccia è inondato dalla luce opalescente del monitor. Il pesce è il testimone muto e imperturbabile di quel duello. «Aveva fatto carriera, il mio amico, perché era bravo. Era diventato ingegnere capo d’un cantiere in Liguria. Aveva aggregato il meglio della nautica italiana, cent’anni di storia. Poi succede che la proprietà passa di mano. Una, due, tre volte. I nuovi padroni cominciano a chiedere tempi di produzioni più stretti perché bisogna fare in fretta. Dicono che serve risparmiare sui materiali. E lui li accontenta. Soffre, ma li accontenta. Si sbatte, va avanti e indietro da Milano a La Spezia. Non esistono più sabati e domeniche. Un giorno smettono di pagarlo.
L’ultimo padrone è fallito. E sai perché?»
«Perché facevano delle barche di merda!» urla Derek. Ha il collo gonfio, mentre sulla tempia inizia a pulsare una vena. «Si chiama libero mercato, cazzo!» Massimo si volta. Intercetta lo sguardo delle due donne oltre il vetro. Forse si accorgono di loro solo in quel momento. Solo per quelle grida.
«Il libero mercato…» ripete Massimo continuando a guardare le donne. «Qualche mese fa non davi molta importanza al libero mercato.» Torna a fissarlo. «Ti sbagli.
Quelle barche rimangono le migliori, le più sicure. Ma poi succede che i nuovi proprietari, gente che non sa la differenza tra una vela e un motore, hanno riempito la società di passivi. Sai quanti fondi di private equity hanno comprato il cantiere prima che fallisse? Ci sono passati in cinque o in sei. Proprio come una puttana, uno dietro l’altro. Alla fine, il mio amico…» Le parole si spengono in bocca, strozzate da un nodo alla gola. Respira profondamente e riprende a parlare, sforzandosi di controllare la voce: «Il mio amico c’è morto. Ecco, gli effetti del tuo stracazzo di mercato, Derek, e delle banche centrali che stampano soldi a fottere. Tutti comprano tutto sulla base di utili futuri, e intanto ci scaricano dentro tonnellate di debiti. Quell’attività era sana, ma sono bastati due anni di rallentamento. Due anni, capisci? A quel punto l’ultimo fondo ha azzerato la partecipazione, il giocattolo si è rotto e il cantiere è fallito: sigilli alle fabbriche, undicimila operai a casa.» Fa un passo in avanti. «La finanza sta sfasciando tutto, divorando l’economia reale. Come fai a non vederlo?». Derek sgrana gli occhi e si guarda intorno come se non credesse a quello che ha appena sentito. C’è qualcosa d’ipnotico nell’espressione del viso alterato da stupore autentico. Perché quell’uomo non finge. Perché quell’uomo ha la forza inflessibile di chi crede in qualcosa oltre ogni dubbio. Non agisce per avidità o bramosia, ma solo in nome di un imperativo: Novus Ordo Seclorum, Nuovo ordine delle epoche. Un epitaffio, stampato sul biglietto da un dollaro.
Un conio, una fede.
«E cosa vorresti fare?» domanda l’Americano. «Sono danni collaterali, Massimo. Ci sono sempre stati, vanno messi in conto.»
«Parli della finanza come d’una guerra. Ma non esistono danni collaterali. Esistono danni e basta, e i morti sono tutti uguali.»
«È una maledetta guerra, ma con meno morti di quelle che hanno combattutomio padre e mio nonno, caro italiano.» L’ultima parola suona come un insulto. «Il prezzo da pagare, sì. Una guerra invisibile. Una guerra per il progresso. Abbiamo fatto girare soldi, creato benessere, edificato la civiltà, colmato divari culturali in tutto il pianeta. Strade, sistemi di comunicazione, ferrovie, energia elettrica… Non ci sarebbe stato niente senza quelli come noi. Quando piazzavo la merda hightech, lo sapevo che più dell’ottanta per cento di quelle aziende sarebbero fallite. Eppure internet è ovunque. I subprime servivano per dare una casa a tutti.
L’hanno avuta, e poi l’hanno persa. Danni collaterali. È con le bolle che abbiamo diffuso libertà e democrazia. E la chiamano speculazione.» Sorride mentre parla con un’euforia ingiustificabile. Non è più dialogo, ora è un credo recitato con foga. La rabbia sembra svanita nelle pieghe d’una professione di fanatismo.
«Abbiamo diffuso perfino le rivoluzioni, i mezzi per violare confini e rovesciare governi. Un ordine talmente grandioso da divulgare strumenti per ogni sovversione. Fortune sono state dissipate. Alcuni si sono venduti l’anima e molti sono caduti. Ma ne è valsa la pena. Siamo gli esattori di tasse occulte che tutti hanno scelto di pagare per progredire. Siamo la luce, e non è più il tempo per i profeti di apocalissi. Apri gli occhi.»
Massimo batte le mani in silenzio. Per alcuni secondi nel floor risuona il rumore ritmico. «Siamo esattori costosi: da sessanta milioni di dollari l’anno in due» dice sorridendo. «No, Derek, siamo soltanto dei dealer che drogano un sistema. Non creiamo democrazia. Apriamo una voragine tra ricchi e poveri che faremo crescere fin quando non precipiteremo tutti nel baratro. E non parlarmi più di rivoluzioni. Stai distruggendo chi, le rivoluzioni, le ha fatte davvero, chi ha creato l’economia moderna. Stai cancellando la middle class, insieme a duecento anni di Storia. Sparisce qui, in Europa, ma avete cominciato voi, dall’altra parte dell’oceano.»
Si ferma quando percepisce un fruscio.
Si volta.
Le due donne sono a pochi metri. Una spinge un carrello con un contenitore per i rifiuti e alcune scope infilate su una rastrelliera laterale. L’altra ha degli auricolari che pendono ai lati del collo. Tengono gli occhi bassi. Devono avere sentito buona parte della conversazione. Massimo si chiede quanto possano aver capito.
«Scusate» mormora quella dietro al carrello. Derek fa un cenno stizzito col capo.
Massimo le osserva mentre attraversano il floor. Hanno fretta, vogliono andare via, perché sono in imbarazzo. No, hanno paura. Perché gli uomini come noi fanno paura.
Per qualche istante rimangono in silenzio. Quando torna a fissare l’americano, Massimo incrocia uno sguardo di sarcastico compatimento. Ma lo ignora e riprende a parlare: «Tu non vedrai rivoluzioni, vedrai solo rivolte, barbarie e il social unrest. L’Occidente si sta suicidando. Anzi, lo state uccidendo mentre passeggiate tranquilli sul ponte del Titanic. Quel denaro che continuate a stampare è falso anche se esce da una zecca, non vale un cazzo. Tra vent’anni un cinese o un indiano comprerà anche te.»
«Quel denaro è solo un mezzo per prendere tempo.»
«Non c’è più tempo!» scandisce Massimo. L’intonazione si fa aspra. «Presto qualcuno vorrà vedere i volti dietro le mani che stampano. Vorrà guardarvi negli occhi. E allora sarà l’inferno, perché scopriranno che i debiti pubblici non sono ripagabili, che gli Stati sono tecnicamente falliti e la crescita di cui parlate è indotta. Scopriranno enclave di ricchi, piccole isole in un oceano di povertà. E sarà la faglia che rompe la terra, al principio d’uno tsunami che vi travolgerà.»
Fa un passo in avanti. Ora sono vicinissimi. Derek ha ritrovato la sicurezza di sempre. Tiene le mani in tasca e guarda
Massimo come se fosse trasparente. «E tu dici che è un mezzo per prendere tempo?» domanda l’italiano in tono provocatorio. «Dovresti dire piuttosto che è la mossa della disperazione. Avete trasformato una manica di banchieri centrali in eroi, pronti a salvare il mondo. Ma nemmeno tu ci credi che quella liquidità creerà lavoro e benessere, che verrà investita in qualcosa di reale. I prezzi li avete stabiliti voi, e sono un inganno.
Buoni per me, che premendo un tasto compro venti milioni di barili di petrolio. Una trappola per chi col petrolio fa girare un’azienda e sarà costretto a chiudere.
Mentre vi riempite di asset, di oro e materie prime.» Ora è Derek a protendersi in avanti. «È giusto così» soffia a pochi centimetri dal volto di Massimo. Tiene l’indice puntato verso l’altro. «Dove tu vedi il grande disordine, io vedo l’unico ordine che valga la pena difendere. Quella che per te è rovina, per me è la sola forma di conservazione possibile. Siamo noi che dobbiamo durare, per difendere tutto questo.»
«E invece non durerai. Sei già morto. Sei morto quando hai scelto di dimenticare quello che saremmo dovuti essere. Avremmo dovuto dare soldi a chi aveva idee e progetti, finanziare aziende, supportare una crescita dio un qualunque tipo. E invece no, abbiamo preferito far soldi coi soldi. Oggi, un numero su questi monitor conta più d’un bene prodotto.» Si ferma, sorride scuotendo la testa. «La General Motors perdeva producendo macchine e guadagnava prestando soldi a chi, quelle macchine, le comprava. Un hedge fund con l’hobby dell’attività industriale. Vedo aziende che tagliano costi, ottimizzano posizioni, lavorano sul debito. Questo vedo. La finanza doveva essere una cinghia di trasmissione, invece è diventata il centro di tutto. Ma c’è un mondo nuovo che preme. Un mondo senza debiti, dove ognuno compra quello che può comprare, in cui ci sono ancora dei sogni, si lotta per qualcosa, e chi è giovane non paga i debiti dei propri padri. Ora ti devi fermare, prima di distruggerlo. Tanto per noi è già finita.
Siamo un treno che corre su un binario morto. Questa è la locomotiva della Storia, e hai anche la presunzione di governarla. Abbiamo venerato il denaro come un feticcio. Abbiamo comprato giudici, politici, agenzie di rating e sindacati. Abbiamo cambiato leggi e commissariato Paesi, ma non siamo riusciti a creare ricchezza vera per tutti. Abbiamo fallito, e verranno a cercarci.» Derek si stringe nelle spalle. «Sei l’unica scommessa che ho perso. Ti ricorderò per questo» mormora con distacco, come se la conversazione non lo riguardasse più. «Sei un ologramma in cerca di un’anima. Ma non siamo stati programmati per averne una. Mi fai pena.»
Massimo si guarda intorno. Lascia scivolare lo sguardo sulla superficie del desk. Vede la boccia colma di liquido. Il pesce che boccheggia a pelo d’acqua. Il rettangolo della tastiera. E accanto un oggetto di forma cilindrica. Si protende in avanti e lo afferra.
«Che cazzo fai?» mormora Derek, incredulo. L’altro non risponde. «Che cazzo fai?» ripete con gli occhi sgranati mentre la mano di Massimo sta tirando una riga nera con un pennarello sulla camicia dell’americano. Una linea che sale. Una diagonale perfetta a 45° che, dalla base del fianco destro, monta – lenta e inesorabile – verso il cuore, terminando alla base dell’omero sinistro. «È l’indice di Gini, te l’ho disegnato così non lo dimentichi. Più sale e più aumenta la differenza tra ricchi e poveri e ti dice che tutto quello che avete combinato non è servito proprio a un cazzo!». L’americano lo guarda, sa che è lì, ma non ci può credere. «Sugli ologrammi si può sovrascrivere, giusto, Derek?»
Derek tira fuori le mani dalle tasche, stringe i pugni, serra la mascella. Un fremito gli scuote una palpebra. Il respiro pesante assomiglia al suono di un mantice. È incerto se reagire o no.
Quindi si volta di scatto dando le spalle a Massimo. Il movimento brusco, scoordinato, di un braccio. E il rumore del cristallo infranto rimbomba nel silenzio dello stanzone. Rimangono fermi con lo sguardo rivolto verso il basso. Pezzi di vetro.
«Sì, Massimo, agli ologrammi puoi fare tutto, tranne levargli la luce. Se lo fai, muoiono. Senza poter neppure gridare al mondo il loro dolore.» Ma Massimo non risponde. Non ha neppure sentito le ultime parole di Derek.
Fissa il pesce dibattersi sul pavimento tra schegge e rivoli d’acqua. L’animale si contorce con spasmi ritmici. È un battere sordo.
Una danza scomposta, una muta, istintiva, inutile richiesta d’aiuto. Il rosso delle squame sembra più scuro, come il colore del sangue. L’occhio del pesce è vitreo, ha qualcosa di vagamente umano. Assistono immobili a quella buffa agonia. Entrambi vorrebbero chinarsi, fare qualcosa. Ma nessuno dei due intende cedere per primo a un moto di pietà. E così restano in silenzio. Sono stanchi. Perfino parlare costa fatica.
La boccia in frantumi è la cancellazione di un habitat, la grottesca parodia della fine d’un mondo. L’uomo che indossa la felpe nera sente il respiro mancargli davanti a quella patetica miniatura di apocalisse.
L’acqua assorbita dalla moquette ha formato delle macchie scure su cui risalta la forma scarlatta del pesce. Si dibatte ancora alla ricerca di vita. Poi i fremiti perdono regolarità e si fanno più rari.
L’americano si allontana. Ha la giacca su una spalla, e una linea diagonale tirata sulla camicia. Mentre raggiunge l’uscita del floor, sul pavimento il pesce si dimena un’ultima volta.
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