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TREDICESIMO-PIANO


ven 30 ottobre 2015

DB, TROPPO GRANDE PER FALLIRE

Una sovraesposizione di miliardi e operazioni spericolate. Ma la Germania la salverà

10 FEBBRAIO 2016 – A 230 chilometri orari è molto difficile prendere appunti. Ma vale la pena tentare se a guidare – e a parlare – è Bruno Livraghi, il più importante trader italiano della City londinese. Famoso tanto per le discutibili operazioni in Borsa quanto per le corse spericolate a bordo di un’ormai leggendaria Lamborghini giallo canarino, Livraghi è l’uomo giusto al quale domandare che ne sarà della più importante banca d’affari tedesca, in questi giorni alle prese con una una tempesta che non accenna a placarsi. 
  • E’ opinione ormai diffusa che la crisi bancaria italiana faccia parte di una crisi sistemica del credito a livello planetario, ci può spiegare cosa sta succedendo, in particolare in relazione al tracollo registrato nelle ultime settimane dalla Deutsche Bank?
«E’ vero che l’Italia è l’anello debole dell’eurozona e che alcune banche italiane erano nell’occhio del ciclone da tempo, ma il problema – dice bene – è sistemico. Si tratta di una tempesta perfetta: combinazione di GDP che scendono a livello globale e conseguenti aumenti attesi nelle sofferenze del sistema bancario in generale. A questo si aggiunge il problema Europa, dove prima ancora di fare un’unione bancaria si vogliono separare i destini dei Paesi da quelli delle banche».
  • Qualcuno inizia ad azzardare un paragone tra la Deutsche e Lehman Brothers, lei cosa pensa della bufera che si è abbattuta sull’istituto di credito tedesco?
«Per capire cosa sta capitando occorre fare un salto nel tempo e tornare per un attimo alla metà degli anni Novanta, a Londra. Le banche d’investimento americane dominavano la scena incontrastate mentre le banche tedesche erano totalmente marginali, molto meno presenti perfino delle francesi e giapponesi, per non parlare di quelle svizzere. Il 1995 segna l’anno della svolta: la Deutsche decide di conquistare fette di mercato e lo fa in grande stile. Inizia ad assumere decine di bankers dalle banche concorrenti a suon di milioni, sembrava il Manchester City nel calcio odierno. Una volta assunti i migliori talenti – o presunti tali – inizia a comprare spazi sul mercato, il mantra è «dobbiamo entrare in tutte le transazioni finanziarie rilevanti». E DB, forte di un rating AAA, forniva i migliori prezzi della street: come dire?, non c’era competizione, se c’era DB l’operazione era loro. Come se non bastasse, quando sul finire del 1900 il gruppo approda con le stesse modalità a New York, DB entra ufficialmente nell’Olimpo dell’alta finanza».
  • Bene il preambolo, ma veniamo al presente….
«Se non storicizza non capirà mai il presente. Le dicevo, il mantra era la conquista di fette di mercato sopratutto nel settore dei prodotti derivati. La convinzione dominante si basava sull’assunto che il mercato dei derivati fosse il bacino d’estrazione più prolifico per le banche – e badi bene, senz’altro lo era – quindi più che mai era valida l’equazione maggiore quota di mercato uguale maggiore profitto. Ma c’è un rovescio della medaglia: la DB non disdegnava nessun tipo di operazione e iniziò ad essere molto aggressiva in un contesto in cui il sistema dei controlli e il risk management erano dominati da uomini di mercato, mentre il dipartimento legale faceva buon viso a cattivo gioco. Così, nell’arco di dieci anni, Deutsche Bank ha messo le mani anche su quasi tutte le operazioni più chiacchierate in Italia».
  • Qualche esempio?
«Dai principali aumenti di capitale delle banche fino a operazioni più delicate come Parmalat,  Monte dei Paschi, passando per Lodi ed Italease fino allo scandalo dei derivati delle pubbliche amministrazioni. Nella stragrande maggioranza uscendone indenne dal punto di vista strettamente legale».
  • E quindi?
«Il loro reale problema fu di strategia, non di compliance. Pensarono che la copertura dei clienti potesse avvenire con l’innovazione finanziaria e non con la conoscenza del contesto. Insomma guardarono solo al loro bel prodotto e meno al mercato sottostante. Il deus ex machina capace di trasformare DB in una grande banca d’affari fu Anshu Jain, un indiano molto intelligente, che scalò i vertici del gruppo fino a diventarne il CEO, carica lasciata nel 2015. Mentre continua a far carriera, Jain supera indenne anche il 2008 perché se DB si presenta all’appuntamento con la più grande crisi del secolo con un’esposizione lorda sui derivati mostruosa, d’altra parte ha un’esposizione netta limitata».
  • Mi spieghi meglio…
«In “The big short”, Ryan Gosling interpreta Vennet, uno specialista di derivati della DB che nel film è l’unica banca che struttura prodotti per andare corti del mercato dei subprime. DB, come le spiegavo prima, era disinteressata alla direzionalità del mercato ma voleva sempre entrare in partita quando si trattava di operazioni di rilievo. Non è semplice ma il concetto che sta alla base della mia analisi è questa: DB non perse miliardi di dollari nel crollo ma rimane il fatto che la sua esposizione al sistema era altissima».
  • Invece oggi?
«Per tornare al presente, ad un certo punto DB inizia ad avere enormi problemi legali, paga multe miliardarie per la sua condotta vicino al limite e ogni anno deve, ancora oggi, accantonare considerevoli somme per pagare i conti di quel periodo. La grande esposizione lorda sui derivati, insomma, le si ritorce contro e diventa un bacino di estrazione per i tribunali».
  • Bene, ma perché in questi giorni il titolo crolla e default swap sale? Mi pare siamo al livello del Messico, se non erro….
«La risposta a questa domanda è semplice: DB è a leva sul sistema bancario. Ma il suo vero tallone d’Achille non è la liquidità bensì il capitale. Un peccato originale che risale al 2008 quando i suoi competitor americani vennero ricapitalizzati de jure mentre DB rifiutò di ricevere – a differenza di altre banche tedesche – qualsiasi tipo di iniezione di capitali pubblici. Ora i nodi vengono al pettine».
  • Rischia di fallire?
«Ma scherza, se DB fallisse l’onda d’urto investirebbe anche Marte e Plutone. «DB is too big to fail», è troppo grande per fallire, salterebbe l’intero sistema finanziario del pianeta. Vede, se la Deutsche non fosse stata tedesca, si sarebbe già trasformata in un oggetto narrativo, protagonista di film, libri e documentari. Ma la Germania la salverà e finalmente finirà la stupida retorica sul divieto agli aiuti di Stato».
  • Perché parla di retorica?
«Il sistema bancario è lo Stato, non c’è distinzione. E chi dice il contrario mente sapendo di mentire. Oppure è un folle».
  • Ha altro da aggiungere? 
«Si. Se fossi in Lei scriverei solo un dato. Secondo la normativa le banche americane devono avere un rapporto tra capitale ed attivi fra il 5 e il 6 per cento. Devono, le ripeto. DBank sta al 3.5. Per colmare questo gap ci vorrebbero più di 20 miliardi di euro di capitale. Più o meno la stessa somma che servirebbe all’intero sistema bancario italiano per sanare definitivamente il problema delle sofferenze! Guardi, DB e Volkswagen sono due casi molto simili, entrambi frutto del neomercantilismo tedesco. La VW voleva acquisire fette di mercato in America così come DB ha fatto per vent’anni sui mercati finanziari. I tedeschi sono ossessionati dal mercato, non hanno eserciti ma vogliono conquistare il mondo con il commercio. Se permette ora le faccio io una domanda: sa qual è il parametro europeo meno rispettato?»
  • Certo, lo hanno riportato molti quotidiani in questi giorni. Il surplus commerciale tedesco verso gli altri paesi europei.
«Amen»

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