Soltanto il suono del motore. Duecentocinquanta all’ora. Soltanto le immagini distorte dell’autostrada, fuori nella notte. Bruno Livraghi spinge la Lamborghini sull’asfalto, con la concentrazione e il gusto che si dedicano a una passione.
A7, Serravalle. Il segmento che da Milano porta a Genova, dal caos urbano verso il mare. L’auto si lascia dietro la Barriera Ovest. Tutta questa velocità, non capisco che senso abbia. Ma non glielo dico, sarebbe come insultare una fede: Bruno ha una vera devozione, nei confronti del profitto e della velocità. È più di un raider: è un fanatico. Non dico niente, continuo a guardare la strada al ritmo che impone lui.
È stato Bruno a propormi questo viaggio, con la scusa di dovermi parlare. Invece sta in silenzio. Ha lasciato intendere che gli faceva piacere condividere questa esperienza con me. Derek Morgan, un uomo potente che conosce da anni. Duecentotrentacinque all’ora. Quello che gli fa davvero piacere, probabilmente, è avere il controllo di un mezzo con me sopra. Derek Morgan, il grande manipolatore, un diavolo che nell’ombra muove i fili dell’Occidente…
Uscita: Binasco. Se pensava di mettermi a disagio, Bruno si sbagliava. Non la conosce davvero, la velocità. Non lo sa cos’è vedere le dune che scorrono sotto un elicottero Apache. C’ero io, nella prima guerra del Golfo. Ero io quel trentenne che sorvolava il deserto, nel 1991. Non ne parlo mai. E a lui, a Livraghi, lascio credere di essere il rappresentante della velocità: colui che ne officia il culto come un sacerdote. Attraverso di essa, pensa di dominare il tempo. Duecentoquaranta all’ora. Questa folle corsa solitaria, per lui, è una tradizione. Prende l’aereo al City Airport di Londra, arriva a Linate dove lo aspetta la sua Lamborghini, guida fino a Genova, inverte il senso di marcia, torna a Milano, riprende l’aereo per Londra, sfrutta il fuso e va a lavorare. Vediamo le cose in modo diverso.
Nella finanza l’accesso alla velocità ti rende ubiquo. La velocità mette in relazione lo spazio al tempo: V uguale a S/T. Bruno Livraghi prova a fare la corsa sul tempo, la variabile per eccellenza. La corsa all’attimo giusto, l’ossessione del carpe diem. Uscita: Bereguardo. A me interessa governare il futuro: creandolo.
È lui a parlare, di colpo: «Dicono che tuo padre ha combattuto qui».
«Era ad Anzio» rispondo, «quando sbarcammo nel ’44».
«Allora la guerra è un vizio di famiglia.» Con gli occhi inchiodati alla strada, Bruno non può leggere il linguaggio del mio corpo. È una tecnica che gli ha risolto diversi problemi. Gli ha fatto guadagnare soldi.
Sfreccia ai nostri lati il Ticino. «Ho spostato il mio volo per parlare di guerra?» gli chiedo con un tono calmo.
Non tradisco un interesse, un’attesa. Guardo il cruscotto dell’auto, percorro le linee del design, so che la scelta di questa situazione è perfetta. So che Bruno Livraghi ha stile. So che il problema riguarda qualcosa che è nel motore di questa Lamborghini, una produzione del gruppo Audi-Volkswagen.
Duecentoventi all’ora. Col mento, indica la strada: «La settimana scorsa, sai cosa mi ha salvato?»
Non dico niente, guardo il nastro dell’asfalto puntinato di luci. Bruno per un istante, un singolo istante, stacca gli occhi e li porta su di me: «La velocità, Derek». Ricomincia a seguire la strada, gli ostacoli e le gradazioni angolari della corsia. E continua a parlare: «Al primo leakage su Volkswagen ho scaricato tutto. Se avessi perso l’attimo, mi sarei schiantato contro un muro». Sorrido alla battuta. Alberi neri, lampioni improvvisi, campi coltivati che sembrano terra asciutta. «Un brutto scherzo, Derek. Un atto di guerra in grande stile, contro la Germania e l’industria europea. Poteva costarmi caro.» La voce si è indurita, ha cambiato tono.
«Vedi guerre anche dove non ci sono.»
«No. Vedo le guerre invisibili: quelle che si combattono ma non si dichiarano.»
Non commento. C’ero, nell’Iraq del ’91. Ha ragione: le guerre migliori sono quelle che non si dichiarano. Uscita: Casei Gerola. Ma senza le armi tradizionali si combattono le guerre perfette.
Bruno accelera in modo continuo. Guardo l’orologio al polso, quasi senza accorgermi lascio andare uno sbadiglio. Fuori dal lavoro, questi non sono orari che frequento. Sposto il peso del corpo, mi accomodo meglio: «Puoi scoprire le carte, Bruno. Di cosa ti lamenti?»
Lui fa una smorfia, nervosamente dice: «Non mi lamento affatto. In guerra vale tutto, no? Anche i danni collaterali. Solo, non mi piace andarci di mezzo. Non mi piace rimetterci la pelle, nella vostra guerra a Berlino e all’industria europea».
Mantengo il silenzio. Fuori c’è un’area di servizio, figure spettrali, pompe di benzina già lontane. Bruno continua ad aumentare la velocità, mentre di nuovo distoglie lo sguardo dalla strada per spostarlo su di me. Duecentoquaranta all’ora. Se vuole impressionarmi, non ci riesce.
Riprende la questione da lontano: «A volte pensiamo di aver costruito un edificio solido, inattaccabile. Un mondo in cui le regole vengono scritte dai più forti e quindi conviene rispettarle, perché esprimono un rapporto di forza. Ma basta che qualche stronzo controlli un chip, o un pezzo di motore, e si scopre che le platform companies non poggiano da nessuna parte. Che i padroni del mondo rischiano di finire in un incubo, un tunnel kafkiano di avvocati e class action». Uscita: Tortona. «La consapevolezza di essere deboli può fare paura. Avete risposto così perché l’Europa ha attaccato le platform companies tecnologiche degli Stati Uniti?» Una curva. Bruno la prende fortissimo sfruttando tutta l’aderenza della Lamborghini.
Non serve che mi schiarisca la voce, ho gestito la respirazione in modo da non accumulare saliva. «Non lamentarti. Piuttosto, ringrazia i tuoi riflessi: sono perfetti». E con la testa accenno dietro di noi, alla curva che abbiamo superato.
«Contro i vostri muscoli, i miei riflessi potrebbero non bastare. Mi è venuto il dubbio che le notizie sulla Volskwagen per voi non fossero notizie. Vuoi dirmi perché l’avete cominciata, questa guerra?»
Ancora, questa parola. Faccio di no con un dito. «Il sospetto può trasformarsi in ossessione, Bruno.»
«Diciamo che è meglio un sospetto in più, di uno in meno. Per quello che ho capito, vi siete stancati di svalutarvi le monete in faccia tra dollaro, euro e yuan. E a Manhattan avete avuto un’idea: una bella trade war contro le companies europee, mentre i cinesi iniziavano a consumare… Non so cosa sperate di ricavarci, da una guerra commerciale di questo tipo. Con la currency war e i QE, ti ricordo che guadagnavamo tanto in pochi. Adesso, col trade war, possiamo perdere tutti.»
Soltanto il suono del motore. Duecentoventicinque all’ora. La strada corre veloce, ma in modo costante. Come le grandi politiche monetarie degli ultimi anni.
Mi piace il suo istinto da killer. Nel complesso è una manifestazione di forza vitale, ma in questo caso l’Italiano sta sbagliando: «Le cose, Bruno, cambiano a seconda della prospettiva da cui vengono guardate. E tu hai guardato tutto dal floor del tuo hedge. Che è una prospettiva rispettabile, come tutte, ma insufficiente. Se l’inferno della Volkswagen brucia negli States, il vero problema è a Wolfsburg. Il limite è in una corporate governance troppo disinvolta». Uscita: Serravalle Scrivia. Vado avanti: «Le parole sono importanti quanto i numeri. E il mito dell’efficienza tedesca è appunto un mito, cioè una buona storia. Diciamo pura una grande narrazione. In questi anni, l’alleanza con Berlino è stata cruciale, anche per quello che accadeva in Grecia e nella periferia europea. Ma in guerra la forza degli alleati non va sopravvalutata, come non va sottovalutata quella dei nemici».
Mi sporgo in avanti, con l’indice sinistro tocco la parte sinistra del cruscotto: «La crisi del 2008 viene da una certa disinvoltura americana degli anni Zero». Evito la parola deregulation. E nello stesso punto aggiungo l’indice destro, e poi lo faccio proseguire verso la parte destra del cruscotto: «Allo stesso modo Corporate Germania è il prodotto del neomercantilismo della Germania». Duecentoquindici all’ora… Torno a poggiarmi allo schienale mentre continuo: «Questa ossessione tedesca per la concorrenza e le esportazioni, mi ricorda uno spot della Volkswagen: un dirigente si lamenta che l’auto è troppo sicura, mentre i clienti vogliono l’avventura. Ecco: pur di esportare e produrre a prezzi scontati, i tedeschi sono capaci di tutto. Anche d’infrangere il trattato di Maastricht, come fanno da dieci anni con quella bilancia commerciale…»
Bruno continua a tacere, come se fosse concentrato sulla guida. Non accelera, non varia il ritmo. Allora sono io a spingere, perché adesso tocca a me: «Il modello tedesco sta uccidendo l’Europa. Spinge i giri al massimo quando si tratta di vendor financing e gestione delle eccedenze produttive. Una politica estera tagliata interamente su un linguaggio commerciale, analfabeta quando si tratta di grandi equilibri geopolitici. Una potenza che non ha esercito e si esprime solo con l’export». Con le mani disegno un cerchio intorno a noi, lanciati a duecento all’ora nell’umida notte italiana: «Guarda il contesto, Bruno. La Volkswagen è controllata dalla Bassa Sassonia, dal Qatar, dalla Porsche. Questo scandalo non può essere una risposta statunitense agli attacchi europei: questa al massimo è una battaglia ecologica, mentre quella contro le grandi platform companies tecnologiche è una battaglia fiscale». Un’altra area di servizio, grandi parcheggi vuoti. «Sono i tedeschi che hanno soffocato il mercato del lavoro in Europa, vent’anni fa. E non si sono risparmiati niente, credimi. La costruzione di un’egemonia presuppone spregiudicatezza, e anche ipocrisia. Inflessibili, da una parte, e svelti di mano, dall’altra: a far girare i soldi se c’era da eludere qualche regola. Noi Americani facciamo prima.» Mi fermo un istante e sondo il buio della notte spezzato dai fari della Lamborghini. «Ci scriviamo le regole su misura. Oggi crolla il mito dell’efficienza tedesca, crolla una narrazione, ma non c’è nessuna guerra commerciale in atto. Solo una storia che si rivela inverosimile».
Silenzio, ancora. Uscita: Isola del Cantone. La Lamborghini accelera.
Bruno scuote la testa, vedo il suo profilo contrarsi: «Spesso ti ho ascoltato, Derek. Questa volta mi pare che ti sfugga un elemento». Fa una pausa, poi scandisce: «TTIP». Quattro lettere. Transatlantic Trade and Investment Partnership. «Forse adesso riuscirete a strappare condizioni ancora più vantaggiose, sul più grande accordo commerciale di sempre: la quadratura del cerchio.»
Mi volto di tre quarti nella sua direzione. Duecentoquaranta all’ora. Continua a guardare dritto, sicuro. «Il tuo ragionamento» dico, «porta a due conseguenze. L’inasprimento dei controlli sulle emissioni, su scala globale e per tutti i tipi di motore… il che peserà sui produttori con minori economie di scala. Secondo: maggiori investimenti in modelli elettrici o ibridi, e anche questo darà problemi soprattutto a chi faticherà a trasformarsi in fretta e assorbire i costi». Uscita: Ronco Scrivia. Aggiungo: «Sui modelli elettrici, Volkswagen è indietro».
Lui sorride, un taglio sul viso. «Infatti sto comprando Tesla. E sto shortando tutta l’auto industry tradizionale.»
Perché è una tigre, Bruno. È un cacciatore, ascolta l’istinto, fiuta il sangue e parte. Mi rimetto dritto sullo schienale. Quello che non capisce è che un crollo dell’auto intaccherebbe anche Corporate America e il suo indotto. La tensione potrebbe trasferirsi davvero in una guerra commerciale più ampia. Allora toccherebbe alle banche centrali risolvere il problema. Come sempre la press machine per tappare l’ennesima falla. E allora dovrebbero intervenire quelli come me. Quelli che chiamano i diavoli.
Il cartello annuncia “Busalla”. Genova è vicina, la strada è finita. Centosessanta all’ora. Ora Bruno invertirà il senso di marcia e torneremo a Milano. Poi in volo, di nuovo verso Londra.
«Perché hai accettato di venire?» domanda.
Mi sporgo in avanti: «Perché, alla faccia della tua nuova passione ecologica» batto la mano sul cruscotto, guardo Bruno di sbieco, «volevo sentire un buon motore».
E rido, e ride anche lui.