Decodificare il presente, raccontare il futuro

TREDICESIMO-PIANO


lun 20 giugno 2016

BREXIT: BATTAGLIA NAVALE

To be or not to be? Leave or remain? Dentro o fuori? Restare o lasciare? Essere europei o non esserlo più?

Londra, 15 giugno 2016
Le urla percorrono l’acqua, nello sciabordare sui legni dei battelli. Gli uomini si danno disposizioni per le manovre, nei modi bruschi cui costringe la navigazione, nell’eccitazione impulsiva di vedere le imbarcazioni nemiche così vicine. Ci si contrasta, disordinatamente, sotto il cielo basso. Mezzi, d’ogni forma e dimensione, scuotono il fiume, la loro varietà si riduce a due fronti. Come due sono le sponde del Tamigi, affollate di pubblico, qui a ridosso del Tower Bridge e fin dove il mio sguardo può allungarsi. Per andare oltre, devo usare il binocolo. A vedermi da fuori, sono un professore appesantito dagli anni, che ha bisogno di aiutare la propria vista. Gli occhi stanchi del professor Philip Wade… Ho portato il binocolo per cogliere i dettagli più che per comprendere l’estensione di questo carosello sul fiume. Questa parodia di battaglia navale, che mette di fronte i sostenitori del “Sì” e del “No” al prossimo referendum sull’Europa. Vorrebbe essere un momento ironico di mobilitazione, invece è soltanto una parodia. La rappresentazione grottesca e vacua di un Paese che sui mari ha costruito la propria gloria e il proprio Impero. Una delle grandi forme di dominio globale prima della globalizzazione, l’Impero Britannico. Una storia annegata in questa commedia, nel buffo e nel patetico.
To be, or not to be, that is the question. Il soliloquio del Principe. L’Amleto, scena prima, atto III. L’attacco del grande monologo risuona nell’aria, più alto delle voci intorno. Question: problema, dilemma. Interrogativo irrisolvibile. I ricordi scorrono con più forza del fiume. Mi riportano a Oxford. Ai miei studi su Shakespeare e sul teatro elisabettiano. Il giovane Phil al College prestigioso, lontano dalla working class di suo padre, lontano quasi duecento miglia da Liverpool. Lontano da casa, se quel ragazzo ancora la poteva considerare casa. Dopo Oxford, ho attraversato un’altra distanza, come i curiosi che passano da una sponda all’altra del Tamigi per vedere le imbarcazioni. Dopo Oxford, non ero più il giovane Philip, ma lo strategist Philip Wade al fixed income della grande banca, presso la City. Ero finito nel regno del grande Manovratore, il Maestro d’inganni: Derek Morgan. L’Eminenza di una connessione di potere globale che alcuni chiamano il Tredicesimo piano. In or out, that is the question. Per me i dilemmi hanno sempre avuto la forza perturbante di una vertigine. To be or not to be? Leave or remain? Dentro o fuori? Restare o lasciare? Essere europei o non esserlo più? Quando si hanno le vertigini, bisogna aggrapparsi a qualcosa di solido. Il mio europeismo, la fiducia che riponevo in un processo costituente, la mia disponibilità a rinunciare all’identità nazionale per un sogno universalista, la tensione verso gli Stati Uniti d’Europa, verso un’unità politica che rendesse il continente capace di competere con le potenze planetarie… Ci credo ancora? Voterò Remain, ma dubbi incrinano certezze.
Semplici gommoni, barche di legno, navi imponenti. Una parte del Tamigi è costellata di cartelli che ripetono come un mantra: “IN”, “IN”, “IN”. Tra questi, uno ha la scritta disegnata all’interno di un pesce rudimentale. Ho iniziato a capire le ragioni di chi vuole lasciare. Anche di molti compagni del Labour, i sostenitori di un’uscita “a sinistra”. Tra di loro non c’è Jeremy Corbyn. Lui ha cambiato idea, si è piegato al gioco delle parti che oggi domina il teatro inglese. Lui che nel ’75 aveva votato per l’uscita britannica dalla CEE, e che nel ’93 aveva tuonato contro Maastricht. Non è facile cambiare idea. Devi combattere con la paura di tradire le idee insieme a chi ti è stato accanto nelle battaglie. Ma soprattutto devi combattere col terrore di tradire te stesso. Certo, anche i vecchi compagni del Labour, quelli che adesso votano per il Leave nonostante Corbyn, anche loro inorridiscono al pensiero di Boris Johnson e del suo atteggiamento tronfio. Lo ritengono un male minore, però, in confronto alla continuità di David Cameron. Su una piccola barca, un cartello scritto a mano dice che l’Unione Europea porta il Regno Unito al disastro economico e sociale. Poco lontano, una parata di bandiere chiede: “Save Britain’s Fish”. Un gioco delle parti, il teatro inglese. Roba da buffoni. La politica ridotta a parodia, come questa “battaglia navale” sul Tamigi, che è farsa e tragedia insieme. La caricatura della storia britannica, delle scorrerie di Francis Drake intorno al globo e del trionfo sull’Armada Invencible. Uno scontro che ha cambiato il verso alla storia dell’Europa, e del mondo. Adesso resta solo questa caricatura di naumachia. Un gioco delle parti, sì. Europeisti e anti-europeisti, avversari di ieri diventati alleati di oggi, convertiti e apostati, qualche traditore, molti buffoni. Sulla scena della politica britannica i ruoli vengono assegnati dalle dinamiche di una geometria variabile, che muta di continuo assecondando polarizzazioni nuove.
Le lenti del binocolo mi permettono di vedere l’altra sponda. Anche lì, bandiere del Regno Unito, palloncini, gente che scatta foto. Le barche hanno libertà di passare sotto il Tower Bridge, dove le due piattaforme che formano la campata centrale sono sollevate. Il referendum inglese trasforma il campo e le forze in gioco. Come le primarie americane, come molte tornate elettorali sul Continente. Il Remain è il voto dell’establishment, mentre il Leaveunisce anime eterogenee: la posizione identitaria dello Ukip e l’ultraliberismo di Boris Johnson convergono con una parte della sinistra radicale, convinta che l’orizzonte si sia inesorabilmente ridotto. Perché qualsiasi sfida costituente nell’Unione è destinata a fallire, sconfitta dai tecnocrati in un perpetuo déjà vu che elide ogni possibilità e cancella i futuri diversi. Oggi, le rovine greche sono il monito che ricorda il sogno infranto. Anche allora un referendum: notte d’estate, notte di festa. Poi, il triste risveglio. Le speranze e la volontà di un popolo cancellate dall’atroce ricatto, da un puro gesto di bio-finanza: una crisi di liquidità come cappio al collo. “Accettate le nostre condizioni o chiuderemo le vostre banche” recitava il salmo tedesco. Così cadde la Grecia, e si spense il sogno. E così, oggi, alcuni orfani di quel sogno hanno adottato la parola sbagliata: “Out”. Ma sbagliano davvero?
I mezzi scuri della polizia sorvegliano il confronto sulla superficie del Tamigi. Una coppia su un gommone con la bandiera “IN!” passa accanto a una barca più grande, dove un gruppo di uomini e donne scandisce: “Leave!” Perfino in questa farsa, sulle acque del fiume, lo spazio e il tempo collassano in una singolarità. Nel referendum inglese risuonano echi del mondo, la nuova politica al tempo della morte della politica. Qualcosa di simile ai contesti europei, dove si vota contro il presente per tuffarsi in un futuro incerto, ma almeno diverso. Qualcosa di simile alle primarie degli Stati Uniti, dove Hillary Clinton è l’establishment, Trump rappresenta il voto identitario e Sanders incarna la sinistra più intransigente, capace – però – di parlare a tanti. Se le elezioni si risolvessero nello schema di un plebiscito su Hillary, convergenze anomale ne decreterebbero la sconfitta. Leave or Remain? Dentro o fuori?
Voterò Remain, ma il quadro è fluido e l’esito incerto. Le forze centrifughe si moltiplicano, e neppure la paura dell’ignoto funziona più come garanzia di stabilità. Con il binocolo mi accorgo che una grossa imbarcazione ha srotolato uno striscione in rima. Dice: “Cameron & Osborne / Bought & Sold / For EU Gold”. Paul Mason ha paragonato l’Europa dei tecnocrati alla repubblica di Weimar. La culla del nazismo, nella stessa Germania dove probabilmente si preparano a festeggiare il Brexit, l’uscita degli inglesi che non si lasciano coinvolgere. Avranno le mani libere, a Berlino, per completare finalmente l’Europa che vogliono. Quella che hanno cominciato a disegnare negli anni Novanta con la socialdemocrazia a rendere flessibile il mercato del lavoro. Adesso tocca ai socialisti francesi, mentre Parigi insorge contro la Loi Travail. Incapaci di rovesciare l’uso politico della crisi per ridisegnare l’Europa, ci arrocchiamo negli ultimi baluardi di Novecento. E intanto serpeggiano odio e rabbia. Passioni tristi dettano pericolose convergenze, unendo nuovi sovranisti a vecchie sinistre.
Voterò Remain, mi dico. E intanto sotto i miei occhi, lungo le acque del fiume, tra le pieghe della farsa, le due flotte continuano a opporsi. Da una parte Nigel Farage e i pescatori terrorizzati dalle leggi europee, compatti sotto i vessilli dello Ukip. Insieme a loro un pezzo troppo grande di working class che si lascia sedurre dalle sirene del nazionalismo e dell’intolleranza. Dall’altra parte, la flotta di Bob Geldof, il cantante millionaire, l’irlandese che organizzò il Live Aid nel secolo scorso, consulente dei Tories sulla povertà, interlocutore dalla voce flebile e dal ruolo già scritto per i potenti della Terra. Il gioco delle parti si ripete senza fine. Voterò Remain, ma non ho partecipato a questa campagna sostenuta dal Fondo monetario e da Bank of England, dai più importanti soggetti della Confederation of British Industry e dalle grandi banche. C’è anche quella di Derek Morgan. Non perderà nemmeno questa volta, comunque vada. Lui non ama le cesure, ma quando intuisce che la rottura è inevitabile, allora riesce a ricomprenderla nel suo disegno, tracciando nuove linee della continuità e del perpetuo. In Italia, lo chiamano “gattopardismo”. Derek Morgan è l’ultimo “gattopardo”.
Un brusio improvviso. C’è una barca che attira l’attenzione degli spettatori. Vedo Bob Geldof, sul ponte, sollevare le dita nel segno della “V”. Scostando il binocolo, però, non potrei distinguere se stia rivolgendo in fuori il palmo, come per indicare “Victory”, o se invece mostri il dorso della mano, come per dire “Fuck”. Sul Tamigi, così, va a picco la storia del Paese di Horatio Nelson, il vincitore di Trafalgar. Il Paese da dov’è partita la liberazione del continente, lo sbarco in Normandia. Il Paese che ha tinto di rosso le acque della Manica, con il sangue dei propri figli, per liberare l’Europa. Chi sono i sostenitori del Remain? Chi rappresentiamo? Sono diventato la caricatura di me stesso? Cameron parla di debiti, noi blateriamo di processi costituenti, gli altri evocano la lotta di classe. È un triangolo scaleno. Leave or remain? In or out? Dentro o fuori? To be or not to be? Questo è il problema, ma io non ho più risposte. E se Amleto fissava il teschio di Yorick, il buffone di corte, a noi non resta che fissare le orbite, vuote e nere, di un altro teschio: quello dell’Europa.

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