Decodificare il presente, raccontare il futuro

TREDICESIMO-PIANO


sab 21 marzo 2015

AUSTERITÀ

La chiamano “austerità”. E significa redistribuzione al rovescio, dove i redditi da lavoro e i risparmi delle famiglie vengono drenati verso l'alto

Dal diario di Philip Wade.
Sono figlio di un tempo che non esiste più. Non mi sento vecchio, ma è vecchio lo sguardo con cui vedo le cose cambiare. La luce della primavera ha sfumature diverse. Il sole in estate non è caldo come una volta. Gli autunni e gli inverni sembrano più lunghi, più freddi. Ed è vecchio lo sguardo con cui vedo le parole mutare, questi segni neri che allineo sul bianco della carta.
Oggi ho studiato le fotografie della manifestazione a Francoforte. C’era una scritta su uno striscione. Diceva: “Against Austerity and Troika / See You on the Barricades”. “Troika” era un’altra parola nel tramonto del mio tempo: il Novecento. Veniva da oltrecortina, veniva dall’Est. Si scriveva con la “j”: Trojka. Suonava più slavo. Oggi significa altro. Anche le barricate erano altro, una volta. E significava altro la parola “austerità”. Credo di aver iniziato a scrivere questo diario per fermare il tempo. Per pesare le parole prima di vederle cambiare ancora. O forse perché sono vecchio, e non è vero che l’importante è come ci si sente. Si è vecchi e basta. E quando si è vecchi il futuro si accorcia, e il passato ritorna…
Nella Liverpool in cui sono cresciuto, “austerità” voleva dire misura. Nonostante l’acqua che la bagna, per me Liverpool è sempre stata una città asciutta. Dove la fuliggine ti calava addosso, dove l’estuario della Mersey aveva a che fare con il lavoro e soltanto con quello. Operai, dockers, working class heroes. Camminavi nel vento e nella pioggia, ma solo perché eri diretto verso il cielo dorato. Ancora oggi i tifosi cantano così, ad Anfield.
Molti anni prima di fare lo strategist nella grande banca, e molti, molti anni prima che iniziassi a insegnare qui al Birkbeck, ero un ragazzo che guardava suo padre tornare dai cantieri. Non avevo ancora studiato, ignoravo il potere dei numeri e quello delle parole, ma intuivo l’eleganza di mio padre e della gente come lui. Quell’eleganza che parlava di sobrietà. L’eleganza della classe operaia di Liverpool. Era grigia e uniforme quella gente, come grigia e uniforme è la città. E benché fossi solo un ragazzo, vedevo anche il resto: la semplicità, il decoro, il senso del collettivo.
Sono figlio di un tempo che non esiste più.
Si può mentire con le parole. Ricordo quando “austerità” ha smesso di significare sobria eleganza della working class. Erano gli anni Settanta. Non ci fu bisogno di studiarlo sui libri, o di analizzare i grafici dell’andamento dei prezzi. “Austerità” è il ricordo di città che si spengono, di cinema che chiudono prima, di macchine ferme nei garage. Si tirava la cinghia. Solo più tardi ho capito come nel nuovo significato si nascondesse una bugia. Le parole sono armi.
Gli anni Settanta. La crisi petrolifera, l’esaurimento del ciclo espansivo della Ricostruzione e del Boom, la fine del sistema di Bretton Woods… L’Occidente si dibatteva in una spirale recessiva. La disoccupazione cresceva, i prezzi crescevano. In Italia l’inflazione galoppava sopra il 20%. Un record. “Austerità” significò ridurre i consumi per calmierare i prezzi. In Italia intanto aumentavano le imposte indirette. Qualcuno chiese di tagliare i salari e allungare l’orario di lavoro. Sacrifici. Qualcuno prometteva il rafforzamento dell’apparato produttivo e la lotta alla disoccupazione giovanile in cambio di quei sacrifici. Contro l’inflazione. In nome dell’austerità. Sacrifici, sacrifici, sacrifici. E promesse. Sacrifici, sacrifici, sacrifici. E nulla in cambio. La working class non perse nel decennio nuovo. Perse allora, quando accettò quello scambio. Il passaggio del tempo deforma i visi, e cambia il significato delle parole. Una volta avevo nostalgia di un futuro diverso. Oggi la nostalgia è solo il rimpianto per ciò che è passato, e anche per i significati remoti delle parole. Tutto cambia. Ieri l’inflazione era l’avversario, adesso è l’obiettivo. I nemici, invece… I nemici sono sempre gli stessi. Si può mentire con le parole. Lo sapeva bene Orwell. «La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza» recita il triplice comandamento di 1984.
Ero già in Italia, quell’anno. Lo sciopero dei minatori, l’ultimo grande scontro del Novecento, lo seguii da spettatore lontano, da un bilocale a Trastevere. Trentuno anni fa. Cinquantuno settimane. Risuonava la marcia trionfale del neoliberismo. A Roma, l’uomo austero che mi fu maestro aveva capito che il vento stava girando. «Alcune posizioni neo-liberiste non costituiscono posizioni culturalmente avanzate o comunque valide, ma sono espressione di battaglie di retroguardia» aveva detto Federico Caffè. Cito a memoria, e il tempo può ingannare i ricordi.
Si può mentire con le parole, e la retroguardia si travestì da progresso. Aveva ragione il mio mentore. Negli anni Ottanta, a Liverpool, il tasso di disoccupazione giovanile in alcuni quartieri toccò l’80%. «Quelli di Liverpool non hanno voglia di lavorare» disse Margaret Thatcher. Il quartiere nero di Toxteth si rivoltò in strada contro la polizia. Era il 1981. Fabbriche chiuse, porto paralizzato. Depressione, violenza. Anche le barricate erano diverse da quelle di oggi a Francoforte. Nella mia Liverpool, nel mio tempo, il neoliberismo vinse la sua battaglia storica. Probabilmente il Novecento si chiuse lì. Secolo breve segnato da due guerre mondiali, e da un altro conflitto: quello della working class nei Trent’anni gloriosi. La Storia, invece, è come la guerra. Continua a fare il suo corso.
E sa essere ironica, la Storia. Gioca con le parole. Da qualche anno chiamano “austerità” uno dei più grandi trasferimenti di ricchezza dal basso verso l’alto. Rendite blindate tramite la riduzione della spesa pubblica e l’aumento iniquo della pressione fiscale. Stampano moneta. Intendono stimolare i consumi e invertire la tendenza deflattiva. Per farlo smantellano diritti e precarizzano il lavoro. Dicono che è uno scambio. Dico che è uno scambio ingiusto. Sacrifici, sacrifici, sacrifici. E promesse. Sacrifici, sacrifici, sacrifici. E nulla in cambio.
La chiamano “austerità”. E significa redistribuzione al rovescio, dove i redditi da lavoro e i risparmi delle famiglie vengono drenati verso l’alto. La chiamano “austerità” ed è una lotta di classe ribaltata, fatta dalle élites. Sembra un’opera di Escher, una di quelle illusioni ottiche che inganna l’occhio, conservando stupito – ed eternamente giovane – lo sguardo. Uno di quegli inganni prospettici che manda in estasi Derek Morgan. Ho lavorato per lui in un’altra vita, nella grande banca. Non sono pentito. Volevo vedere certe cose da vicino. E ho visto l’ultimo significato della parola “austerità” sui pixel di schermi ultrapiatti. Le stagioni si alternano. Gli anni passano. I secoli finiscono: alcuni prima di altri. Austerità, oggi, è il meccanismo di una trappola evolutiva, la forzatura d’un cambiamento ambientale indotto. La salamandra si estingue nel clima troppo secco di Israele: l’uomo pianta alberi e aumenta il tasso d’umidità, e le salamandre prolificano; poi arriva un uccello predatore e le salamandre si estinguono comunque.
È questa l’essenza del potere finanziario: una monumentale, permanente eterogenesi dei fini che muta il verso di un gesto, gli effetti di un meccanismo, il significato delle parole. Sono figlio di un tempo che non esiste più. Quello che l’ha sostituito dà un senso nuovo alla parola “austerità” e rimodella l’uomo che subisce il potere: ne fa un individuo indebitato. Ricordo quando gli unici, veri debiti da onorare erano quelli del gioco. Salari compressi al ribasso diffondono il contagio dell’indebitamento. Dal diritto universale al debito universale. Davvero la Storia ha il senso d’una crudele ironia. C’è un mutuo o un finanziamento per tutto. È così che si scelgono l’educazione, la sanità e le garanzie. La cartolarizzazione di questi debiti è come la schiuma. Evapora in bolle, e tutto levita: i profitti del creditore e gli interessi del debitore. La vertigine è guardare in basso, e comprendere – quando ormai è tardi – che si volteggia su un abisso.
Sono figlio di un tempo che non esiste più, quando ancora i conflitti erano chiari e si facevano scelte di campo. E Margaret Thatcher lo sapeva bene da che parte stare. Ma ha vinto due volte, The Iron Lady. Allora, e nel momento in cui Tony Blair ha sospinto il Labour al centro, lungo la strada mediana della “terza via”. Si può mentire con le parole. In medio stat virtus, dicevano i romani. Ma ciò che vale per la morale, è un inganno in politica. E quel punto medio è la rimozione delle contraddizioni, punto di fuga che cattura ogni sguardo al centro della tela, escludendo alternative possibile. Ma ai bordi del quadro emergono variabili impreviste. Accade nel Sudest del continente, ad Atene. E anche a Nordovest, qui in UK, negli antichi distretti operai, nei remoti insediamenti della working class, dove crescono forze pericolose che contestano l’Europa. E accade perfino dove più coerente dovrebbe essere la prospettiva d’insieme: a Francoforte, nelle sue strade occupate dalle barricate.
Gli anni passati, il Novecento, non torneranno. Forse non sono in grado di restarne orfano. E oggi mi sembra di camminare da solo. Oggi che i docks sono riconvertiti alla vita culturale e al loisir. Oggi che quella working class non esiste più, figurarsi gli eroi. I significati possono cambiare attraverso molte strade. L’ironia è una di queste. Sbeffeggiare può voler dire rovesciare il senso. Durante la manifestazione di oggi, sulla carcassa di un’auto bruciata, qualcuno ha scritto: “Stop the Violence”.

NEWSLETTER


Autorizzo trattamento dati (D.Lgs.196/2003). Dichiaro di aver letto l’Informativa sulla privacy.



LEGGI ANCHE: