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MONITOR


ven 9 marzo 2018

VIZIO DI RESPONSABILITÀ

Responsabile è un derivato del latino responsum, supino di respondēre, ovvero “rispondere”, ci avverte la Treccani. Il responsabile è quindi uno che risponde delle proprie azioni e dei propri comportamenti. Il suo significato si allarga poi a quello di persona “saggia” e, ai giorni nostri, muta e si cristallizza nell’accezione negativa di “opportunista”, voltagabbana. Ma alle radici la parola è neutra, non ha alcuna accezione positiva. Si può rispondere bene o male. E la politica ha il merito di ricordarcelo, oggi, che nella compravendita di deputati e senatori per la costruzione di una maggioranza governativa, tutti vanno alla ricerca dei cosiddetti “responsabili”. Dagli albori del trasformismo all’incombente III Repubblica: l’Italia è affetta da una sorta di “vizio di responsabilità”.

Responsabile è un derivato del latino responsum, supino di respondēre, ovvero “rispondere”, ci avverte la Treccani.
Il responsabile è quindi uno che risponde, delle proprie azioni e dei propri comportamenti. Nell’evoluzione della lingua, il suo significato si allarga poi a una persona che “si comporta in modo riflessivo ed equilibrato”, tramutandosi quindi in sinonimo di “ragionevole, serio, affidabile, saggio”.
Ma alle radici la parola è neutra, non ha alcuna accezione positiva. Si può rispondere bene o male. E la politica ha il merito di ricordarcelo, oggi, che nella compravendita di deputati e senatori per la costruzione di una maggioranza governativa, nelle trattative del suq parlamentare, tutti vanno alla ricerca dei cosiddetti responsabili.
Agli albori fu il trasformismo. Anche questo termine era declinato in maniera neutra, se non positiva, da una cultura liberale ostile all’idea dell’organizzazione del conflitto come valore politico

Il trasformismo, celebre quello di Agostino Depretis e poi di Francesco Crispi e Giovanni Giolitti, consisteva nel formare maggioranze parlamentari che pescavano indifferentemente a destra o a sinistra, con l’unico scopo di formare governi.
Anche lì, nell’idea di trasformismo, si possono dunque ritrovare quelle gradazioni di “ragionevolezza, serietà, saggezza e affidabilità” che oggi appartengono a un politico responsabile. Anche lì, dietro all’interesse supremo del paese, ricercato attraverso la governabilità a tutti i costi, si nascondeva il mercato delle vacche.
Uno dei più accesi avversari del trasformismo fu l’antifascista liberale Piero Gobetti, che ravvisava nella transumanza parlamentare, sotto lo scudo del governo a tutti i costi, l’annullamento della dialettica tra governo e opposizione, “indispensabile a una vera democrazia”.
Ma fu solo con l’avvento del Fascismo, giudicato il più grandioso dei fenomeni trasformisti, che la parola comincia ad avere per tutti un’accezione negativa. Nella prima Repubblica nessuno si autodefinisce più trasformista, termine relegato alla pungente o meno commedia cinematografica all’italiana.
Nella conventio ad excludendum che si realizza nel dopoguerra tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista, e che porta a mezzo secolo di governi a guida scudocrociata, si registrano l’astensione attiva e la non-sfiducia.
Caso di scuola della prima è l’approvazione alla Camera nel 1970 dello Statuto dei Lavoratori, presentato dall’allora ministro Donat Cattin e su cui il Pci si astiene. La seconda vede invece la luce pochi anni dopo, nel 1976 quando il Pci di Berlinguer, dopo la teorizzazione del “compromesso storico”, raggiunge alle elezioni politiche il suo massimo storico (34,4% alla  Camera e 33,8% al  Senato) e decide astenersi per permettere la nascita di un monocolore Dc, l’Andreotti III.
È il cosiddetto governo della “non sfiducia”, che nasce in un periodo storico complesso – tra inflazione, debito e rivendicazioni sociali – in nome della “solidarietà nazionale”. Non certo il vecchio trasformismo liberale, ma qualcosa di molto simile.
Anche qui si può trovare una certa ostilità all’idea dell’organizzazione del conflitto come valore politico e, in qualche modo, l’annullamento della dialettica tra governo e opposizione che Gobetti riteneva “indispensabile a una vera democrazia”. E infatti, questo gesto di “responsabilità”, sarà da molti a sinistra vissuto come un tradimento, e diverrà una delle molteplici cause del Settantasette.
Nel 1993, un anno prima che la discesa in campo di Berlusconi sconvolgesse la storia politica italiana, un insolitamente lucido Ernesto Galli Della Loggia scrive sul Corriere della Sera un durissimo articolo sullo stato della nazione. Nell’articolo viene tacciato di trasformismo tutto il passaggio che avviene dal crollo del Pci (a seguito del disgregamento sovietico) e della Dc e Psi (come effetto di Tangentopoli) alla formazione di una classe dirigente che non è certo nuova, ma riciclata.
Una rivoluzione passiva, la definisce citando Antonio Gramsci, ovvero “un mutamento politico, non già scaturito dal basso, da grandi trasalimenti etico politici dello spirito pubblico, bensì una rivoluzione mossa dall’alto”, come lo era stato il Fascismo. Un cambiamento che nasce dal trasformismo, o dalla “rigenerazione” di vecchi arnesi, come scrive Galli Della Loggia, non può che portare alla peggiore Seconda Repubblica possibile.
E così sarà. Basti ricordare gli esempi più famosi: l’eroe dei due poli, Lamberto Dini, elemento cardine del PD e del Popolo della Libertà; il prolifico Clemente Mastella, le cui molteplici creature politiche sono sempre pronte ad appoggiare il governo del momento; la recordman Dorina Bianchi, sei partiti in dodici anni, coprendo praticamente tutto l’arco parlamentare dal PD a Forza Italia. Fino al capolavoro di Sergio De Gregorio, passato dall’Italia dei Valori dell’ex magistrato Antonio di Pietro alla Forza Italia dell’acerrimo nemico Silvio Berlusconi. Votando contestualmente, nel 2007, la sfiducia al Prodi II e facendolo cadere. In cambio, ha detto ai magistrati, di tre milioni di euro.
Fu la cosiddetta Operazione Libertà, il trait d’union tra il trasformismo e la responsabilità.
Il 14 dicembre del 2010, infatti, con l’uscita dei finiani dal Governo Berlusconi IV, una pattuglia di volenterosi deputati dell’opposizione – i più famosi furono senza dubbio Domenico Scilipoti e Antonio Razzi, anche loro inizialmente eletti con l’Italia dei Valori di Di Pietro – in nome della stabilità e delle governabilità, corrono in soccorso del governo di Silvio Berlusconi.
Sono loro a creare il gruppo parlamentare Movimento di Responsabilità Nazionale, e a conferire al termine “responsabili”, partendo da quella declinazione neutra che l’etimologia latina impone, un’accezione che si cristallizzerà come prettamente negativa. L’Italia chiamò, loro risposero. Respondēre, responsum, responsabili.
Quattro anni dopo è il forzista Denis Verdini a fare il percorso inverso, e a uscire dalle file del Popolo della Libertà per sostenere il governo di Renzi, ancora in nome della “responsabilità”, termine oramai sdoganato nella politologia corrente.
Responsabili sono oggi quei parlamentari che passano tranquillamente da un gruppo all’altro, si astengono attivamente o passivamente, non-sfiduciano in nome del posto fisso, uno dei pochi rimasti in Italia.
E a leggere i dati di Openpolis, nel quinquennio 2013-2017 si ha il record storico dei cambi di casacca: sono ben 347 i parlamentari coinvolti e 566 i cambi di gruppo. Una “transumanza spicciola”, scrive Michele Anis, senza precedenti, che ci traghetta nella Terza Repubblica all’insegna della responsabilità.
I nostri parlamentari, ora lo sappiamo, sono i più responsabili d’Europa. Sono sempre pronti a respondēre. Se al paese, agli elettori o alla loro carriera politica, non è dato saperlo.

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