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MONITOR


mar 11 aprile 2017

USA, LO SCERIFFO È TORNATO

Che fine ha fatto la "nostra" America First? Bombe sulla Siria, che non essendo America non doveva essere “first”; la Russia dell’amico Putin su tutte le furie: «con l’attacco in Siria siamo andati a tanto così da uno scontro militare con gli Stati Uniti»; strette di mano e sorrisi col nuovo “amico” Xi Jinping, incarnazione di quella “CHINA” che Donald Trump, in campagna elettorale, aveva accusato letteralmente di “stuprare” gli Stati Uniti attraverso le proprie politiche economiche; nessun annuncio di dazi al 35 per cento per l’import proveniente dalla Cina, nessuna denuncia di Pechino come «manipolatrice valutaria».

In principio fu «America First». Due parole per contenere l’orizzonte ideologico di quella alt-right populista e conservatrice che per la prima volta, attraverso il miliardario del popolo Donald Trump, è riuscita ad accedere alle stanze dei bottoni della Casa Bianca. Loro, soli dentro una stanza, e tutto il mondo fuori a farsi una ragione di una nuova stagione politica a Washington, di un’America pronta a ripiegarsi su se stessa e a badare prima di tutto agli affari propri, appendendo al chiodo il cinturone dello sceriffo internazionale.
Una rivoluzione copernicana che, galvanizzando le destre estreme di mezzo mondo e i sovranisti del nuovo millennio, delineava l’orizzonte di una nuova aritmetica a stelle e strisce: meno esportazioni di democrazia, meno «boots on the ground», meno trattative ai tavoli della diplomazia internazionale; più controllo, più dazi doganali, più «safety first» nel perimetro statunitense.
Poi, a un mese mezzo dall’inizio dell’era Trump, durante il vertice bilaterale col presidente cinese Xi Jinping al resort di lusso di Mar-a-Lago sono arrivati i missili Tomahawk sulla base militare siriana di Sharyat, linee rosse che non andavano oltrepassate, lo sceriffo che torna a sparare per combattere l’orrore della strage di bambini di Khan Sheikhoun.
Allora noi, qui fuori, osserviamo che qualcosa è cambiato. E si fa davvero fatica a resistere alla tentazione di trovare una ragione, una motivazione strategica che giustifichi un’inversione di marcia così netta. Rispetto ai fallimenti dell’ordinanza anti-musulmana e della riforma dell’Obamacare, il repentino cambio di fronte stavolta sembra partorito più dal cervello che dalla pancia di Trump. Anzi, ed è il dilemma centrale di questo passaggio storico, partorito probabilmente da un cervello in prossimità di The Donald. Ma di chi?
Impossibile non notare una curiosa sovrapposizione di eventi.
Il 5 aprile, un giorno prima dell’inizio del meeting di Mar-a-Lago con Xi Jinping, il chief of staff di Trump e padre dell’alt-right statunitense Steve Bannon viene allontanato dal Principals Committee del National Security Council (Nsc), l’organo interforze che – assieme alla Casa Bianca – si occupa delle questioni di sicurezza nazionale. Washington all’inizio minimizza, si tratta solo di una riorganizzazione del gabinetto fatta dal generale McMaster, che lo stesso Bannon aveva aiutato a fare eleggere come advisor dell’Nsc.
Due giorni dopo, il bombardamento della base aerea di Sharyat, un’operazione “dimostrativa” che segna il primo intervento dell’aereonautica statunitense sotto il vessillo di Trump, che in campagna elettorale aveva promesso l’esatto contrario.
L’elettorato popolare di The Donald fomentato dall’alt-right di Bannon, contrario all’interventismo statunitense e preso in contropiede, scopre cosa significa sentirsi in imbarazzo. Protesta, sui social network, faticando a riconoscersi in questa manifestazione inaspettata dell’«America First», mentre in serie osserva attonito una catena di eventi serrati che in tre giorni scardinano tutto il vocabolario elettorale del loro beniamino.
In sequenza: bombe sulla Siria, che non essendo America non doveva essere “first”; la Russia dell’amico Putin su tutte le furie: «con l’attacco in Siria siamo andati a tanto così da uno scontro militare con gli Stati Uniti»; strette di mano e sorrisi col nuovo “amico” Xi Jinping, incarnazione di quella “CHINA” che Donald Trump, in campagna elettorale, aveva accusato letteralmente di “stuprare” gli Stati Uniti attraverso le proprie politiche economiche, alimentando un deficit nella bilancia commerciale stimato oggi intorno agli 1,4 trilioni di dollari; nessun annuncio di dazi al 35 per cento per l’import proveniente dalla Cina, nessuna denuncia di Pechino come «manipolatrice valutaria», misure che Trump, sempre in campagna elettorale, aveva promesso di adottare dal “first day in office”.
E ora, frutto del messaggio trasversale mandato via missile Tomahawk in Siria a Pechino e Pyongyang, un’escalation della tensione in Asia Orientale fatta di portaerei dirette verso la penisola coreana e una gara di nervi con l’altro cavallo pazzo della comunità internazionale, Kim Jong Un (che – si rileva – gode di ampi consensi presso il bacino del sovranismo internazionale, come Trump).
Che fine ha fatto la nostra America First?
Le malelingue, ovvero la stampa statunitense, ipotizzano un cambio di equilibri tutto interno alla Casa Bianca: fuori gli ultranazionalisti di Bannon, dentro i globalisti melliflui dell’amministrazione Trump – a partire da Jared Kushner, marito di Ivanka, descritto come l’“uomo cinese” della Casa Bianca – insieme a un’iniezione del tradizionale atlantismo dell’establishment militare.
E mentre in questi giorni Xi Jinping si è visto costretto ad assecondare la ricetta statunitense per la Corea del Nord, dicendosi pronto a nuove e più dure sanzioni contro Pyongyang, a braccetto con Seul se Kim Jong Un continuerà con le sue provocazioni missilistiche, noi qui fuori abbiamo un senso di déjà-vu.
Bombe americane in Medioriente, portaerei americane in Asia Orientale, venti di sanzioni economiche, tutto per “make the world a better place”. È vero, con l’indecifrabile Donald Trump non si può mai sapere, ma i segnali ci sono tutti. Lo sceriffo è tornato.
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