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MONITOR


mar 9 gennaio 2018

USA-PAKISTAN, TRUMP MINA L’ALLEANZA

Dopo mesi di minacce poco velate nei confronti di Islamabad, accusata di «aiutare e proteggere le stesse organizzazioni terroristiche cui stiamo dando la caccia in Afghanistan», il primo gennaio, attraverso il suo canale diplomatico preferito – Twitter – Donald Trump ha sganciato l’ultimatum sui rapporti con il Pakistan: l’alleanza-chiave è in crisi. Possibile rottura di cui, strategicamente, ne può approfittare la Cina.

«Da tempo dico molto chiaramente che la chiave del nostro successo nella regione dipende dal rapporto con il Pakistan, che si era rotto alla fine degli anni Ottanta e su cui abbiamo molto lavorato per ricostruirlo. Che ci siano degli elementi dell’intelligence pachistana legati agli estremisti è cosa nota, e dovrà cambiare».
Così dichiarava, nell’agosto del 2010, l’ammiraglio Michael Mullen, all’epoca presidente del Joint Chiefs of Staff, l’organo formato dai rappresentanti delle forze armate americane col compito di consigliare il presidente degli Stati Uniti in campo militare.

Gli Stati Uniti combattevano in Afghanistan da quasi dieci anni e, sotto l’amministrazione Obama, proprio in quell’anno le truppe dispiegate nel paese toccarono quota 20mila unità.
Un dispiegamento di forze altamente dipendente, per logistica e intelligence, dal vicino alleato pachistano: dal Pakistan partivano i droni armati americani, passavano i convogli di rifornimenti, arrivava l’intelligence necessaria a svelare obiettivi sensibili oltreconfine.
Otto anni dopo, poco è cambiato nella sostanza: le truppe statunitensi in Afghanistan sono scese a 14mila unità, il Pakistan continua a fornire supporto logistico e militare a Washington, intrattenendo relazioni più o meno segrete con alcune delle principali sigle terroristiche dell’area – in particolare Lashkar-e-Taiba, Haqqani Network e quel che rimane di Al-Qaeda – mentre è impegnato in operazioni antiterrorismo nel Waziristan del Nord.

Il Pakistan, francamente, è il miglior peggior alleato su cui Washington abbia potuto contare in questi anni di conflitto, facendo buon viso a cattivo gioco sulla collaborazione intermittente con i servizi segreti locali (Inter-Services Intelligences, Isi) e sulla parte “deviata” dell’esercito pachistano, doppiogiochisti nel dna.
Un’alleanza sporca ma necessaria che mai come negli ultimi giorni rischia di saltare definitivamente, grazie ai metodi poco ortodossi, e ancor meno diplomatici, impiegati dall’amministrazione Trump.
Dopo mesi di minacce poco velate nei confronti di Islamabad, accusata di «aiutare e proteggere le stesse organizzazioni terroristiche cui stiamo dando la caccia in Afghanistan», il primo gennaio, attraverso il suo canale diplomatico preferito – Twitter – Donald Trump ha sganciato l’ultimatum.

«Gli Stati Uniti hanno stupidamente dato al Pakistan oltre 33 miliardi di dollari in aiuti negli ultimi 15 anni, ricevendo in cambio nient’altro che menzogne e inganni: pensano che i nostri leader siano degli sciocchi. Proteggono gli stessi terroristi cui noi diamo la caccia in Afghanistan. Ora basta!» ha twittato Trump poco prima che la Casa Bianca annunciasse la sospensione – a tempo indeterminato – dell’ultima tranche di fondi per la sicurezza garantita da Washington a Islamabad perché la guerra al terrore continuasse sotto l’egida americana.

La cifra reale dovrebbe ammontare a 1,3 miliardi di dollari, tra rimborsi per le attività antiterrorismo che impiega l’esercito pachistano in Waziristan e i “buoni acquisto” elargiti per fare rifornimenti bellici da compagnie statunitensi.
Con una posa paternalistica tutt’altro che diplomatica, gli Stati Uniti hanno chiarito che la linea di credito sarà riaperta quando il Pakistan dimostrerà di prendere la propria missione antiterrorismo seriamente.
Presa in contropiede, la caotica leadership pachistana ha reagito rispedendo le accuse al mittente, col ministro degli esteri Khawaja Asif a guidare la carica di dichiarazioni contro il tradimento di Washington. «Non abbiamo più alcuna alleanza [con gli Usa]. Non è così che si comportano gli alleati» ha spiegato Asif al «Wall Street Journal», descrivendo come un “terribile errore” la decisione presa nel 2001 dall’amministrazione Musharraf di partecipare alla campagna militare statunitense in Afghanistan.

«Ora godiamo di un periodo relativamente tranquillo in Pakistan, ma se ci mettiamo contro quella gente [i terroristi afghani, ndr], ci portiamo la guerra a casa nostra, cosa che non dispiacerebbe agli Stati Uniti», ha indicato Asif, chiarendo che “il Pakistan non è solo” e potrebbe decidere di scaricare gli Usa in favore di altri alleati.
Una perifrasi per indicare al mondo l’elefante nella stanza cinese, che con Islamabad intrattiene da anni rapporti economici estremamente proficui e, per gli assetti geopolitici locali, altamente destabilizzanti.
Dal 2007, ad esempio, è attivo nel sud del paese lo snodo portuale di Gwadar, realizzato interamente da fondi e manodopera cinese e dal 2013 dato in gestione alla statale China Overseas Port Holding. È, a tutti gli effetti, lo sbocco cinese nel Mar Arabico e il punto d’arrivo del China-Pakistan Economic Corridor, un progetto da 57 miliardi di dollari sovvenzionato dalla Repubblica popolare cinese all’interno della rete infrastrutturale transcontinentale nota come la Nuova Via della Seta. Senza contare l’impennata dei rapporti commerciali nel settore militare negli ultimi cinque anni, elencati nel dettaglio in questo articolo del «South China Morning Post».

Il 4 gennaio, durante una conferenza stampa, dopo aver elogiato l’apporto “inestimabile” fornito dal Pakistan nella lotta al terrorismo, il portavoce degli esteri cinese Geng Shuang ha dichiarato: «Cina e Pakistan sono partner per tutte le stagioni. Siamo pronti a promuovere e approfondire a tutto tondo la nostra cooperazione, così che ne possano giovare entrambe le parti».
Con ogni probabilità il Pakistan annuncerà una presa di posizione ufficiale circa lo sfilacciamento dei rapporti con Washington la prossima settimana, quando si riunirà il Comitato per la Sicurezza Nazionale. Una decisione che non potrà prescindere dalle delicate contingenze sia nazionali sia regionali.
Nel 2018 si terranno in Pakistan le elezioni nazionali, a seguito dell’interdizione dai pubblici uffici piombata sul premier Nawaz Sharif, invischiato nello scandalo dei Panama Papers. Sharif, che conta di ribaltare il verdetto in tempo per candidarsi, presenterà comunque un candidato di peso nelle fila del suo partito personale Pakistan Muslim League – Nawaz (PML-N): favoriti, in questo senso, la figlia Myriam o il fratello Shehbaz, già primo ministro del governo locale del Punjab pachistano, roccaforte dei Sharif.

L’attuale governo è retto dall’ininfluente Shahid Abbasi, sempre del PML-N, che ragionevolmente non dovrebbe avere alcuna intenzione di compromettere la corsa del proprio partito, piegando il capo ai diktat di Trump e facendo la figura del vassallo americano.
I canali diplomatici veri è lecito pensare siano tenuti in vita dai vertici militari di Washington e Islamabad: dietro il circo della politica nazionale, sono sempre stati gli uomini in uniforme a decidere le sorti del Pakistan.
Tutto intorno, la situazione è, se possibile, ancora peggiore. Tenendo fuori dall’equazione l’Afghanistan martoriato da quasi vent’anni di bombardamenti, l’Iran è al momento una polveriera pronta a esplodere in direzioni difficilmente prevedibili, mentre l’India – con cui il Pakistan è formalmente in guerra da mezzo secolo – sta per concludere il primo mandato del governo più reazionario e intollerante che la storia recente ricordi; il premier Narendra Modi, esponente dell’estremismo induista a capo di un esecutivo spiccatamente anti-pachistano, cercherà la rielezione nel 2019, soffiando sul sacro fuoco del nazionalismo induista.

Il «New York Times», in un editoriale, ha scritto che il presidente Trump «non si può permettere di voltare le spalle al Pakistan». Non è il solo.

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