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MONITOR


mar 19 dicembre 2017

LA COREA DEL NORD È UNA BOMBA AD OROLOGERIA

L’aspetto informatico della minaccia nordcoreana è l’ultimo tassello del mosaico Pyongyang infilato dall’amministrazione Trump nell’ultima settimana, quando in seguito al rovente dossier mediorientale il «problema coreano» è tornato in cima alla lista dell’agenda di Washington. Intanto l’impressione è che Pechino si stia definitivamente stancando di questo stillicidio diplomatico imposto da Kim Jong Un.

Per l’amministrazione Trump non ci sono più dubbi. Dietro all’attacco telematico WannaCry c’erano gli hacker nordcoreani.

Lo ha detto senza mezzi termini, in un editoriale pubblicato sul Wall Street Journal lo scorso 18 dicembre, il consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Trump, Thomas P. Bossert, specificando che le accuse «non sono fatte con leggerezza. Si basano su prove. E non siamo gli unici ad averle».

Lo scorso 12 maggio oltre 230mila computer dotati di sistema operativo Windows furono attaccati da un malware che paralizzò svariate attività in oltre 150 paesi, compresi ospedali, istituti bancari e compagnie telefoniche. Gli hacker, per far tornare la situazione alla normalità, chiedevano il pagamento di un «riscatto» in Bitcoin.
Da mesi aleggiava nell’aria un coinvolgimento diretto delle autorità di Pyongyang, con accuse mosse già da Nsa e Cia, oltre che da Microsoft e dal governo britannico. Da ieri anche Washington, per la prima volta pubblicamente, imputa alla Corea del Nord la responsabilità di un attacco che, parafrasando Bossert, «va oltre il danno economico», avendo messo a repentaglio, ad esempio, la salute di migliaia di pazienti nel database del sistema sanitario britannico, tra le entità più duramente colpite dal cyberattacco.
Pyongyang, che già nel 2014 aveva attaccato i sistemi di Sony in risposta all’uscita della pellicola satirica «The Interview» – in cui veniva messo in scena un attentato alla vita di Kim Jong Un -, per gli Stati Uniti oltre a rappresentare una minaccia nucleare globale incarna anche un enorme pericolo telematico, cui la comunità internazionale deve rispondere compatta rafforzando le difese dei propri network.
L’aspetto informatico della minaccia nordcoreana è l’ultimo tassello del mosaico Pyongyang infilato dall’amministrazione Trump nell’ultima settimana, quando in seguito al rovente dossier mediorientale il «problema coreano» è tornato in cima alla lista dell’agenda di Washington.
Il 12 dicembre, partecipando a un evento del think tank Atlantic Council di Washington, il segretario di stato Rex Tillerson aveva rilasciato una dichiarazione inusualmente accomodante: «Siamo pronti a parlare con la Corea del Nord in qualsiasi momento voglia. Siamo pronti a tenere la prima riunione senza porre alcuna precondizione. Incontriamoci e basta». Anche se, Tillerson ha aggiunto, una precondizione rimane: «Un periodo di quiete» dai test nucleari.

Un ramoscello d’ulivo ritirato nemmeno 24 ore dopo dalla National Security Agency, che in una dichiarazione rilasciata a Reuters da un portavoce si è premurata di correggere il tiro, specificando che la Corea del Nord deve «profondamente migliorare il proprio comportamento» prima che si creino le condizioni per sedersi attorno a un tavolo. Come solito, l’agenda estera dell’amministrazione Trump è fumosa e contraddittoria, condizione che da mesi dà adito a voci di un sempre più inevitabile allontanamento – volontario o meno, poco cambia – di Tillerson dal gabinetto di Trump. Ma di certo la questione nordcoreana continua a preoccupare Washington e non solo.
«La Corea del Nord è una bomba a orologeria. Possiamo solo ritardarne l’esplosione, sperando che guadagnando tempo si riesca a rimuovere il detonatore». Lo ha dichiarato Shi Yinhong, professore di relazioni internazionali alla Renmin University di Pechino e consigliere del gabinetto di governo di Xi Jinping, durante una conferenza sulla crisi coreana tenutasi sabato scorso a Pechino.
Si tratta di una posizione da interpretare in controluce, assieme ad altri fatti molto significativi occorsi nelle ultime settimane nella provincia nordorientale di Jilin, al confine con la Corea del Nord.

Secondo quanto riportato dal South China Morning Post, la scorsa settimana il Jilin Daily, giornale ufficiale della provincia cinese, «ha pubblicato un’intera pagina di avviso ai residenti circa come rispondere a un attacco nucleare», mentre nella stessa settimana in rete è apparso «un documento si ritiene redatto dall’operatore di telecomunicazioni China Mobile circa la costruzione di cinque campi profughi nella contea di Changbai, nella provincia di Jilin».

L’impressione che Pechino si stia definitivamente stancando di questo stillicidio diplomatico imposto da Kim Jong Un è confermata da un’altra rivelazione «sfuggita» a Tillerson durante il suo discorso all’Atlantic Council.

Il segretario di stato, riporta il New York Times avrebbe dato un assaggio dei dettagli, finora segreti, circa il piano di contenimento militare che gli Usa potrebbero adottare nel caso «siano costretti a intervenire in Corea del Nord».«Abbiamo avuto delle conversazioni coi cinesi su come ciò potrebbe svolgersi», ha spiegato Tillerson, chiarendo che gli Usa non sono interessati né a un «regime collapse» né a «un’accelerazione del processo di riunificazione della penisola coreana»; «se dovesse succedere qualcosa e noi saremo costretti a superare il confine, abbiamo dato rassicurazioni ai cinesi che [terminata l’operazione] ci ritireremo entro il 38esimo parallelo».

La bomba a orologeria nordcoreana continua a ticchettare, e tutti gli altri si stanno preparando a un’esplosione che appare sempre più inevitabile.

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