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MONITOR


gio 10 agosto 2017

TRUMP VS KIM. E LA CINA IN MEZZO

La partita diplomatica intorno alla «minaccia nordcoreana», lo scorso weekend, si è arricchita di un nuovo botta e risposta tra Kim e Trump. Gli sviluppi di sabato restituiscono una serie di spunti per tentare di interpretare le traiettorie geopolitiche tracciate intorno alla questione della Corea del Nord, diventata palesemente un’arma contundente contesa tra Stati Uniti e Cina.

La partita diplomatica intorno alla «minaccia nordcoreana», lo scorso weekend, si è arricchita di un nuovo colpo di scena, decisamente meno appariscente della «invencible armada» trumpiana che avrebbe dovuto spaventare il regime dei Kim e che, invece, come sanno bene i vicini giapponesi e sudcoreani, ha forse intensificato l’attività missilistica di Pyongyang.
Dopo due test di lancio di ICBM (Intercontinental Ballistic Missile) andati a buon fine nel mese di luglio – infischiandosene delle risoluzioni Onu vigenti – il timore che il progetto missilistico nordcoreano possa essere già in grado di colpire obiettivi statunitensi oltreoceano è tornato.
E ha spinto l’amministrazione Trump alla prova dell’Onu, portando al voto del Consiglio di Sicurezza un pacchetto di sanzioni, «mai così duro», destinato a fiaccare l’economia nordcoreana. La risoluzione 2371, contro ogni aspettativa, ha accolto il favore di tutti i membri del Consiglio di Sicurezza: 15-0, ha sottolineato Trump lamentando un presunto disinteresse generale dei «fake news media» Usa nei confronti della «sua» performance diplomatica.
Gli sviluppi del voto di sabato restituiscono una serie di spunti per tentare di interpretare le traiettorie geopolitiche tracciate intorno alla questione nordcoreana, diventata palesemente un’arma contundente contesa tra Stati Uniti e Cina.
Le nuove sanzioni proibiscono alla Corea del Nord l’esportazione di carbone, ferro (lavorato e grezzo), piombo (lavorato e grezzo) e pesce. Beni che, secondo le stime, valgono almeno 1 miliardo di dollari, pari a un terzo dell’export annuali del regime.

In aggiunta, la risoluzione vieta alla comunità internazionale di assumere nuovi lavoratori nordcoreani all’estero, di avviare nuove joint venture o intese commerciali con partner nordcoreani e di aumentare investimenti in attività produttive già basate in Corea del Nord.

Pyongyang insomma subisce sanzioni economiche emanate dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu da più di dieci anni – il primo pacchetto risale al 2006, in risposta al primo test nucleare nordcoreano – e in questo mese di agosto, in linea con una tendenza già consolidata, la Cina di Xi Jinping ha nuovamente rinunciato al proprio diritto di veto, votando a favore di misure decisamente più drastiche di quelle della risoluzione 2270, passata nel marzo del 2016.
Ciò nonostante, l’efficacia di tali risoluzioni «punitive», superando i proclami propagandistici statunitensi, rimane tutta da provare.
Benjamin Katzeff Silberstein, del Foreign Policy Research Institute, scrive sul suo blog North Korean Economy Watch: «Sia la Cina sia la Russia avevano votato a favore della risoluzione 2270, ma ci sono numerosi segnali chiari a indicare che la Cina ha fatto ben poco per implementare pienamente la messa al bando delle importazioni di minerali dalla Corea del Nord. […] Nel frattempo, poche settimane fa, la sudcoreana Bank of Korea ha annunciato che, secondo le proprie stime, l’economia della Corea del Nord sarebbe cresciuta del 4 per cento in un anno. Sono dati da leggere con una buona dose di scetticismo, data la difficoltà di stimare qualsiasi dato relativo all’economia nordcoreana, ma come minimo possiamo concludere che l’economia nordcoreana non sta navigando in acque burrascose».
Secondo il ministro degli esteri cinese Wang Yi, le sanzioni economiche non sono l’obiettivo ultimo della risoluzione, ma vogliono «riportare la questione della nuclearizzazione della penisola coreana al tavolo delle trattative, alla ricerca di una soluzione conclusiva che, attraverso i negoziati, ottenga la denuclearizzazione e la stabilità a lungo termine».
Volontà che ha manifestato anche lo stesso segretario di stato Usa Rex Tillerson, che dal meeting dei paesi Asean di Manila ha dichiarato: «Il miglior segnale che la Corea del Nord può darci, mostrando la propria volontà di dialogare, è fermare i test missilistici». Per Tillerson «altri mezzi di comunicazione» sono aperti a Pyongyang, a patto che finiscano le provocazioni. In un comunicato affidato all’agenzia nazionale Kcna, il governo di Pyongyang aveva descritto le sanzioni come «una violenta violazione della nostra sovranità» e parte di «un odioso piano per isolare e soffocare il paese». Un «crimine» per cui «gli Stati Uniti pagheranno moltiplicato per mille».

Martedì 8 agosto il Washington Post ha rivelato in esclusiva che, secondo studi dell’intelligence statunitense, la Corea del Nord sarebbe già in grado di montare sui propri missili delle piccole testate nucleari, prova che il programma nucleare di Pyongyang potrebbe aver raggiunto uno stadio più avanzato rispetto alle previsioni.

A strettissimo giro, come prevedibile, è arrivata l’ennesima scazzottata a mezzo stampa tra Trump e il governo nordcoreano: The Donald ha dichiarato che alle minacce missilistiche nordcoreane gli Usa risponderanno con «fire and fury»; Pyongyang, in tutta risposta, ha annunciato che sta valutando un attacco missilistico contro l’isola di Guam, situata nell’Oceano Pacifico e che ospita una base militare altamente strategica.
Tensione alle stelle e Pechino, come spesso occorso negli ultimi mesi, costretta a tirare le orecchie dei due leader impertinenti invitando a mantenere la calma, andarci piano con le parole e rimanere concentrati sull’obiettivo della riapertura del dialogo.
Nel gioco di ombre di questo ultimo exploit diplomatico di The Donald, incapace di non bullarsi per «il più grande pacchetto di sanzioni economiche di sempre contro la Corea del Nord», secondo Bloomberg emergerebbe uno scambio di cortesie diplomatiche sull’asse Washington-Pechino relativo a ben altre questioni in sospeso tra le due potenze.

Da settimane l’amministrazione Trump sta lasciando intendere lo scoppio imminente di una «trade war» tra Usa e Cina, con Washington intenzionata ad aprire un’inchiesta circa violazioni della proprietà intellettuale in ambito commerciale commesse da Pechino. Misura temporaneamente sospesa, come ringraziamento per il sostegno alla risoluzione contro la Corea del Nord da parte cinese ed ennesima prova di come la gestione del garbuglio nordcoreano serva a curare interessi che trascendono la denuclearizzazione della penisola.

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