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MONITOR


ven 13 luglio 2018

TRUMP-KIM: IL MIRAGGIO DELLA BILATERALITÀ

La scorsa settimana il segretario di Stato Mike Pompeo concludeva la sua terza visita a Pyongyang, programmata con l’obiettivo di aggiungere un’ombra di serietà e programmazione ai vaghissimi impegni siglati lo scorso 12 giugno a Singapore da Trump e Kim Jong-un. A conclusione dei colloqui Pompeo ostentava ottimismo, indicando: «In alcuni punti, grandi progressi, in altri c’è ancora molto da lavorare». Sul piatto, andando al nocciolo della questione, c’è l’obiettivo di raggiungere una «denuclearizzazione della Corea», concetto che le diplomazie di Washington e Pyongyang – ora è sotto gli occhi di tutti – interpretano in maniera inconciliabile. Insomma la bilateralità è ancora un miraggio in un contesto internazionale reso sempre più caotico dalla stessa amministrazione Trump.

Da fallimento a fallimento in un mese, senza passare dal via: la bilateralità è ancora un miraggio. Per Washington i colloqui con la Corea del Nord, nella concretezza che trascende l’estetica della vittoria promossa dalla Casa Bianca all’indomani del meeting di Singapore, si stanno rivelando materia ben più ostica di quanto preventivato dal presidente Donald Trump, nonostante le solite esternazioni completamente slegate dalla realtà che puntualmente affida a Twitter.
La scorsa settimana il segretario di Stato Mike Pompeo concludeva infatti la sua terza visita a Pyongyang, programmata con l’obiettivo di aggiungere un’ombra di serietà e programmazione ai vaghissimi impegni siglati lo scorso 12 giugno a Singapore da Trump e Kim Jong-un.
A conclusione dei colloqui, Pompeo ostentava ottimismo, indicando «progressi compiuti in quasi tutte le questioni centrali. In alcuni punti, grandi progressi, in altri c’è ancora molto da lavorare».
Sul piatto, andando al nocciolo della questione, c’è l’obiettivo di raggiungere una «denuclearizzazione della Corea», concetto che le diplomazie di Washington e Pyongyang – ora è sotto gli occhi di tutti – interpretano in maniera inconciliabile
Per gli Stati Uniti, prima di procedere a una normalizzazione completa dei rapporti con la comunità internazionale che comporti la sospensione delle sanzioni economiche e la realizzazione di una rete di scambi in linea con l’economia di mercato mondiale, Kim dovrà dimostrare oltre ogni lecito dubbio di aver smantellato il proprio arsenale nucleare.
Per contro, la Corea del Nord – all’ultima tavola rotonda rappresentata dall’ex spia al vertice della diplomazia nordcoreana Kim Yong Chol – concepisce la denuclearizzazione come un processo graduale e bilaterale: Pyongyang, secondo quanto filtrato sulla stampa internazionale, si sarebbe detta disponibile al disarmo, a patto che la pressione internazionale e le sanzioni vengano progressivamente diminuite contestualmente a un disarmo speculare che dovrebbe interessare la potenza militare statunitense dislocata in Corea del Sud.
Nell’ottica della leadership nordcoreana, le delicatissime fasi di un processo di pace così inteso non possono essere affrontate senza dei traguardi intermedi che mettano la classe dirigente al potere in riparo da improvvisi colpi di stato o rovesciamenti di fronte interni.
Uno di questi traguardi, messi sul tavolo da Pyongyang, poteva essere una dichiarazione definitiva della fine del conflitto coreano. Un passaggio simbolico che pare Pompeo si sia rifiutato anche solo di discutere.
A riprova dell’incomunicabilità emersa a Pyongyang, il ministero degli esteri nordcoreano in risposta al resoconto timidamente positivo di Pompeo ha rilasciato un comunicato al vetriolo, accusando gli Stati Uniti di essersi comportati da «gangster», allontanandosi dal contesto armonico costruito nemmeno un mese prima a Singapore.
Insomma, le trattative saranno lunghe ed estenuanti, e sconteranno un contesto internazionale reso sempre più caotico dalla stessa amministrazione Trump.
L’applicazione dei dazi alle merci cinesi fortemente voluta da The Donald rischia infatti di far venir meno la collaborazione di Pechino nella partita coreana. Senza l’ok di Xi Jinping, l’unico in grado di «garantire» per Kim Jong-un sui tavoli che contano, l’intera operazione è destinata a schiantarsi contro un muro di gomma.
Andando oltre le contingenze dell’immediato, adottando invece uno sguardo più ampio proprio dei mercati, l’ipotetica «esplosione della pace» in Corea aprirebbe una serie di opportunità economiche fino a questo momento inimmaginabili, mettendo sostanzialmente gli asset del regime nordcoreano all’asta del libero mercato.
Una Corea del Nord normalizzata diventerebbe infatti l’ultima frontiera degli investimenti geostrategici dell’area, una terra di conquista che già fa gola ai principali player internazionali.
Come indica Anthony Rowley sul South China Morning Post, tra i colossi interessati a partecipare alla modernizzazione del Paese sarebbero già in pole position le sudcoreane Hyundai e Lotte, che già hanno formato gruppi di studio ad hoc per valutare opportunità di business in loco.
Secondo il Scmp, anche Jim Rogers – grande investitore basato a Singapore e co-fondatore con George Soros del fondo Quantum – sta valutando investimenti in Corea del Nord via Corea del Sud e Cina. Infine, le risorse minerarie nordcoreane – comprese le riserve di «terre rare» – sarebbero già nel mirino del settore estrattivo australiano, in attesa di un rilassamento dei divieti Onu di far affari con Pyongyang.
Di fatto, al di là delle preoccupazioni per la sicurezza internazionale e la pace nel mondo, la partita coreana delinea un futuro commerciale tutto da plasmare intorno all’allineamento di mercato che la «nuova» Corea del Nord assumerà una volta rientrata nel consesso del liberismo.
Lo stesso Mike Pompeo, come indica Financial Times, durante una recente visita ad Hanoi ha invitato la Corea del Nord a seguire l’esempio del «miracolo economico vietnamita»: aprirsi al libero mercato senza dover rinunciare a una leadership apertamente comunista. E, nelle intenzioni di Trump, farlo a braccetto  della cooperazione economica statunitense, sfilando Pyongyang all’area di influenza cinese.
Chiaramente, siamo al festival del wishful thinking e della pre-tattica negoziale. È impensabile che il destino della Corea del Nord possa prescindere dal determinismo cinese e anzi, l’attuale stallo emerso dai colloqui di Pyongyang, se analizzato in controluce alla «guerra dei dazi» tra Pechino e Washington, difficilmente pare frutto del caso.
Se, come suggerisce Andrei Lankov su NKNews, ora è chiaro che gli Stati Uniti non hanno la minima idea di come riprendere il bandolo della matassa coreana, solo un intervento cinese sarà in grado di ridare ossigeno ai colloqui. Ovviamente, dazi permettendo.

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