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MONITOR


gio 6 ottobre 2016

THIS IS ENGLAND

«British jobs for British people», «liste dei lavoratori stranieri in Gran Bretagna», tradotto: gli stranieri “ci rubano” il lavoro. La ri-nazionalizzazione delle masse passa per la schedatura dei dipendenti immigrati. È un balzo concettuale e politico quello del governo guidato da Theresa May. Ciò che si muove sottotraccia da anni, adesso è palese: la normalizzazione e istituzionalizzazione di una narrazione che prima restava confinata come “anomalia”. Il governo si appropria delle istanze populiste, annullando così la lotta di classe proveniente da ambienti politici diversi e cavalcando invece le spinte nazionaliste ed esclusive.

Londra vive di quest’ambivalenza: da un lato è la piazza ufficiale di tutte le transazioni in euro, dall’altro gode di una flessibilità regolamentare che le consente di attrarre capitali più disparati e meno trasparenti. La City è il porto franco di quest’intreccio di flussi finanziari. Ma l’alchimia che la sostiene è altamente instabile e, se dovesse venire meno uno degli elementi che la compongo, il rischio è che questa scintillante vetrina del capitale globale vada in frantumi. Da Brexit tra turisti del welfare e turismo del capitale – Il Tredicesimo piano
Vi ricordate la formula «British jobs for British workers» e il premier laburista Gordon Brown che nel 2009 suggeriva alle aziende di dare la preferenza al personale locale? Ecco, nel 2016, nei corridoi di Downing Street dove ora comandano i Tories, la politica britannica fa un passo in avanti (o forse indietro). Lo slogan si trasforma in «British first» (ricorda tanto quell’«America first» del cugino americano Donald Trump). Grazie al ministro dell’Interno, Amber Rudd, la parabola ascendente della ri-nazionalizzazione delle masse passa per la schedatura dei lavoratori stranieri.
È il 4 ottobre, conferenza del partito conservatore a Birmingham. Rudd, classe 1963, finita a JP Morgan dopo una laurea in storia a Edimburgo, annuncia nuove misure per ostacolare le aziende che danno impiego facile ai lavoratori stranieri. L’idea è quella di «stanare», attraverso un test-verifica, quanti immigrati occupano «posti di lavoro che potrebbero fare i britannici». Perché – sostiene Rudd – bisogna «assicurarsi che le persone che vengono qui stanno riempiendo delle lacune nel mercato del lavoro».
Nonostante conosca le regole del settore privato (è stata coinvolta in un’inchiesta su due off-shore alle Bahamas) –  una volta passata al pubblico – la ministra non sembra preoccuparsi di sposare una logica sovranista, muovendosi in equilibrio tra le “revolving doors” alla rovescia (qui il focus de “i Diavoli”). Si barcamena in una nuova dimensione, rispetto al suo passato nella finanza, dove i meccanismi fondamentali del privato finiscono subordinati al nazionalismo più chiuso che rivendica la spaccatura della forza lavoro a seconda dello Stato di appartenenza.
La retorica sembra rubata alla destra populista, quella degli slogan dal tono «gli stranieri ci rubano il lavoro». Proprio in questo consiste il balzo concettuale e politico del governo guidato da Theresa May. Se da un lato si tratta solo di un annuncio (che deve passare dalla consultazione parlamentare), questa presa di posizione è rivelatoria. Ciò che si muove sottotraccia da anni, adesso è palese: la normalizzazione e istituzionalizzazione di una narrazione che prima restava confinata come “anomalia”. Il governo si appropria delle istanze populiste, annullando così la lotta di classe proveniente da ambienti politici diversi e cavalcando invece le spinte nazionaliste ed esclusive. La Gran Bretagna rischia di pagare così un grande errore politico, cui David Cameron dava inizio l’inverso scorso, quando decideva di agitare il vessillo del referendum Brexit per prendere tempo in casa e sedare i malpancisti alla sua destra.

La donna del “Name and Shame”

Davanti alla platea dei Tories, Rudd spiega che una verifica costringerebbe le aziende a rispettare dei parametri «prima di assumere dall’estero». Secondo la ministra, ormai «è diventato un esercizio di routine, alcune aziende la fanno franca e non formano la popolazione locale». A questo tipo di narrazione, Rudd abbina esortazioni imperialiste dai toni trionfalistici: «Non vinceremo nel mondo se non facciamo di più per riqualificare la nostra forza lavoro. È per questo che voglio ridurre la rete dell’immigrazione, pur continuando ad attirare i più brillanti e i migliori».
Il meccanismo, dunque, è il seguente: attrarre le eccellenze facendo una selezione all’ingresso, lasciare fuori i migranti poveri per accogliere solo quelli qualificati  – e quindi i capitali che producono. Con questo tipo di selezione a monte la devastazione del welfare riguarda, però, tutti.
Non paga di aver scatenato un immediato putiferio mediatico, Rudd smorza i toni, ma non ritratta. Passate poco meno di ventiquattro ore dalla riunione dei Tories, parla ai microfonici di Bbc Radio 4. I giornalisti la incalzano chiedendole se sia pronta a sdoganare la politica del “Name and Shame”, ovvero fai nomi e vergognati. Tradotto: si sta preparando a costringere le aziende a pubblicare delle liste dei dipendenti, suddivisi per nazionalità? La ministra prende tempo. Risponde laconica: «Non è qualcosa che stiamo sicuramente per fare», ma si tratta di uno degli strumenti «in esame», perché – qui si serve della retorica moralista volta all’educazione della società – «è necessario spingere la gente a un comportamento migliore». E ancora: «Mentre ci sono aziende che stanno facendo un gran lavoro impiegando personale locale, ce ne sono altre che non operano in modo così costruttivo. Vogliamo scovare proprio quelle». A quel punto si dilunga in una digressione piena di dati (senza però preoccuparsi di citare la fonte): ci sarebbe un’azienda in particolare che ha l’80% dei dipendenti stranieri, un giovane su dieci della fascia 18-24 nel Regno Unito è senza lavoro e senza formazione qualificata.
Come già ricostruito da “i Diavoli”, May sovrappone messaggi incisivi ad annunci vaghi. L’obiettivo, però, è comune: appropriarsi del malcontento popolare, canalizzando la frustrazione della deindustrializzazione e la crisi che ha investito la working classcontro lo straniero, fomentando la percezione di un “altro”, servendosi di contrapposizioni facili, come “noi” e “loro”, “dentro” e “fuori” dai confini.
Spostare l’attenzione sul conflitto generazionale per occultare quello di classe è un vecchio trucco, un rimedio per tutte le stagioni. Ma in troppi hanno visto… Hanno visto moltitudini d’inglesi migrare da Londra verso città a buon mercato, “galleggianti” su un oceano di solitudine, povertà, disperazione e paura. Hanno visto migliaia di giovani arrivare a Londra – nel cuore del nuovo “miracolo”, al centro del “sogno” – per rimanere incatenati a lavori di merda. Hanno visto la desertificazione del Nord Inghilterra insieme all’esclusione che dilagava. Da L’esercito degli invisibili UK ai tempi della Brexit – Il Tredicesimo piano

Un annuncio simbolico, le contraddizioni del governo May

Le parole di Amber Rudd non si tradurranno in politiche immigratorie nel brevissimo periodo. Hanno un carico simbolico notevole, in quanto svelano le contraddizioni e la vaghezza del governo May nella comunicazione del dopo Brexit. Alla luce dell’ultima uscita della ministra dell’Interno, non c’è niente di economico che determina le mosse dell’esecutivo per la fase di transizione verso il divorzio a tutti gli effetti di Londra da Bruxelles. Si tratta solo e unicamente di un discorso identitario e dai connotati velatamente razzisti, anche se Rudd nega?
La libera circolazione del capitale umano è da sempre cruccio di Theresa May, sin dai tempi in cui si occupava di affari interni (qui e qui i due speciali de “i Diavoli”). Una volta arrivata a Downing Street a luglio 2016, May afferma: «Il voto del 23 giugno per la Brexit ha lanciato un chiaro messaggio. La gente vuole il controllo della libera circolazione delle persone all’interno dell’Ue».
Due mesi dopo, mentre i giornalisti insistono per avere risposte riguardo il destino degli immigrati europei in Gran Bretagna, dice: «Penso che quello che la gente voleva vedere, quello che è venuto fuori dal voto era il controllo». Aggiunge: «[I britannici, ndr] volevano vedere una capacità di controllare la circolazione delle persone [che arrivano, ndr] dall’Unione europea e ovviamente è per questo che io dico: “No alla libera circolazione come è stato in passato”. Abbiamo bisogno di rispondere a quella voce del popolo britannico».
“La speranza è una trappola, è una cosa infame inventata da chi comanda” diceva un famoso regista italiano. Chi ha votato Leave non ha più “speranza” e ha affermato il senso della propria condizione dopo decenni di politiche escludenti, in questa nazione delusa, laboratorio della dissoluzione del fordismo e delle politiche keynesiane. L’Inghilterra della deindustrializzazione e dei servizi finanziari, delle start-up e del sistema educativo meritocratico ma riservato ai milionari, l’Inghilterra dei minatori sconfitti e della società-che-non-esiste. Una copia degli Stati Uniti, ma senza il potere. Thatcher e Reagan, Blair e Clinton, le guerre stupide, la City e Wall Street: sempre paralleli, sempre convergenti. Da L’esercito degli invisibili UK ai tempi della Brexit – Il Tredicesimo piano
Come abbiamo già scritto, May si muoveva in un terreno oscuro, pieno di frasi a effetto e scarsi dettagli. Sosteneva che sganciarsi da Bruxelles avrebbe comportato di sicuro «del controllo» rispetto all’immigrazione europea, perché l’elettorato ha votato Leave per avere «un po’ di controllo». Restrizioni parziali in vista? Si chiedeva qui il “Guardian”, cercando di esplorare i diversi significati di quell’ «elemento di controllo» in più sui suoi confini al quale faceva riferimento la premier. Solo un mese fa la confusione era tale che i retroscena si sprecavano. Il “Telegraph” scriveva di un piano sul tavolo del governo: ovvero di un sistema di permessi di lavoro per sbarrare le porte a chi, invece, un impiego vuole cercarlo in Gran Bretagna.
A quel punto la logica sarebbe: i turisti del capitale sì, quelli del welfare no. Come la mettiamo con le parole di Rudd, allora? Che ne sarebbe di Londra capitale dei flussi finanziari?
Tornando a Birmingham, al congresso dei Tory di martedì, le risposte sono le seguenti. May usa e distorce la retorica del Labour, parla della Brexit come di «una rivoluzione silenziosa», le cui «radici affondano nei sacrifici» della working class. Aggiunge: «Non sono stati i benestanti a pagare i sacrifici più grandi della crisi finanziaria, ma le famiglie ordinarie della classe lavoratrice». L’origine di tutto, secondo May, sarebbe «un’immigrazione a bassa qualificazione».
È così che la storia sta cambiando davanti ai nostri occhi, mentre la destra conservatrice ingloba le lotte che furono della sinistra laburista e istituzionalizza – normalizzandolo – il populismo. This is England.
Oggi a Shakespeare non sfuggirebbe la natura cosmopolita del capitale nel Regno Unito e potrebbe descrivere Londra come il contesto in cui si consuma un’accumulazione originaria permanente: larga parte del lavoro torna a essere assimilato alle figure del vagabondo, dell’indigente, del rifugiato, mentre – per contrasto – fiorisce un mondo nuovo legato al Terziario. Forse paragonerebbe Londra a una Babilonia, retta dai flussi finanziari, percorsa da masse di diseredati, divenuta Capitale del più avanzato lavoro dei servizi: dal lusso del real estate alla ristorazione, dall’arte al fitness. Londra sarebbe la Mecca della entourage economy, in cui una nuova classe di lavoratori presterebbe la propria opera per singoli committenti: dal private banker al personal trainer, dal personal shopper al nutrizionista passando per il ghost writer. Da Brexit tra turisti del welfare e turismo del capitale – Il Tredicesimo piano

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