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MONITOR


lun 5 giugno 2017

TERRORISMO, BREXIT, TASSE: COSA PESA SUL VOTO INGLESE

L’appuntamento con le urne nel Regno Unito è fissato per l’8 giugno. La lotta al terrorismo entra prepotente nella campagna elettorale, insieme agli altri grandi temi: il divorzio di Londra da Bruxelles, gli sgravi fiscali, il lavoro. May punta sulla securizzazione del territorio, sul controllo capillare e sistematico di internet, fomenta le divisioni. Corbyn chiede che la democrazia non abdichi, contro i terroristi che seminano incertezza e instabilità.

Un gioco delle parti, il teatro inglese. Roba da buffoni. La politica ridotta a parodia, come questa “battaglia navale” sul Tamigi, che è farsa e tragedia insieme”. Da Brexit, battaglia navale — il Tredicesimo piano
«I terroristi non faranno deragliare la democrazia. Quelli che vogliono far del male alla gente e dividere le nostre comunità non avranno successo». È il 4 giugno, mancano quattro giorni alle elezioni britanniche (qui il focus sul voto, ndr) e il leader laburista, Jeremy Corbyn, parla a poche ore di distanza dall’attacco terroristico a London Bridge e Borough Market, nel cuore di Londra (il terzo in tre mesi in Gran Bretagna).
È il momento del silenzio di rito, le ventiquattro ore di stop alla campagna elettorale. A interromperlo sono le dichiarazioni di condanna, unanime.
La premier, Theresa May, alla guida dei Tories, un partito conservatore che ha visto crollare le sue certezze di vittoria blindata davanti alla rimonta del Labour nei sondaggi, fa la voce grossa: «È tempo di dire ‘Enough is enough’, il troppo è troppo».
Promette battaglia, l’ex ragazza diligente venuta dalle contee d’Inghilterra. Infiamma i toni e l’esasperazione sociale in una terra multietnica, quella dell’accoglienza da un lato e quella divisa in classi rigidamente separate dall’altro.
«Abbiamo avuto fin troppa tolleranza. Bisogna cambiare» registro, «così non si può più andare avanti». Poi evoca una lotta senza quartiere contro i terroristi, quelli che chiama «i nostri nemici», perché – aggiunge – «i nostri valori di pluralismo sono superiori».

La sfida è tra due visioni opposte del Paese

L’appuntamento con le urne è fissato per l’8 giugno: la lotta al terrorismo entra prepotente nella campagna elettorale, insieme agli altri grandi temi: la Brexit, le tasse, il lavoro. May punta sulla securizzazione del territorio, sul controllo capillare e sistematico di internet, fomenta le divisioni.
Corbyn chiede che la democrazia non abdichi, contro i terroristi che seminano incertezza e instabilità. È dello stesso avviso anche il sindaco di Londra, il laburista Sadiq Khan, musulmano di origini pakistane: «Giovedì, dobbiamo andare a votare per difendere la civiltà e i diritti umani».
Mentre May si erge a paladina della difesa del Paese, il leader laburista la sbugiarda. Pone una questione diversa. La accusa di aver tagliato, prima da capo degli Interni e poi da primo ministro, il numero di poliziotti in servizio: una sforbiciata da 20 mila unità.
Nel discorso di Corbyn a Carlisle, nel nord d’Inghilterra, compaiono parole diverse dal registro usato finora, che accusa la politica estera occidentale all’origine delle discordie sociali che hanno portato al terrorismo: «La nostra priorità – dice Corbyn – deve essere la sicurezza pubblica. Ogni azione necessaria per debellare il terrorismo», ma resistendo «all’islamofobia».

I sondaggi e la rimonta del Labour: giovani fattore determinante

Quando May aveva annunciato a sorpresa il voto anticipato, alla fine di aprile, per i Tories sembrava prospettarsi una vittoria facile.
May voleva sigillare un copione già scritto, notavamo qui:
Brexit in tasca, maggioranza storica e assoluta di seggi (400 su 650 ai Comuni) – che le staccherebbe di dosso quelle etichette di leader grigia, vaga e responsabile di aver praticamente spezzato due unioni (Ue e UK) – governo per altri cinque anni. Lo raccontano i numeri. Stando ai dati diffusi da Yougov sulle intenzioni di voto, i conservatori (Tories) sarebbero al 48% dei consensi, contro un debolissimo Labour inchiodato al 24%, mentre Libdem e Ukip si aggiudicherebbero rispettivamente il 12% e il 7%.
Poi sono arrivati i nuovi sondaggi e i titoli dei giornali che raccontavano la ripresa di quel Labour dato per morto.
Il partito di Corbyn aveva visto la sua base elettorale sgretolarsi in meno di un anno. Aveva perso 26 mila iscritti, passando dai 554 mila di luglio scorso ai 528 mila a marzo. Sembrava che la Brexit avesse diviso ciò che Corbyn aveva provato maldestramente a unire negli ultimi mesi, resistendo a chi voleva disarcionarlo.
Ma da fine maggio, alla risalita laburista hanno iniziato a fare da contraltare i timori dei dirigenti dei Tories che vedevano ridurre sempre di più il distacco dagli avversari.
Il 26 maggio, i numeri di YouGov, in una rilevazione per il Times,indicano il Labour al 38 per cento, ben tre punti in più della settimana precedente, contro il 43 dei Tories. Le regole del gioco iniziano a cambiare. La seconda batosta per i conservatori è del 30 maggio, i dati diffusi da Survation per Itv: i conservatori restano in testa con il 43 per cento dei consensi, ma i laburisti li tallonano con il 37 per cento. Subito dietro ci sono i libdem all’8 per cento, mentre l’Ukip è al 4. Tre giorni dopo la distanza si accorcia: sempre secondo la stessa fonte di rilevazione, il partito di Corbyn rincorre quello di Theresa May con il 39 per cento contro il 40.
Il fattore determinante potrebbero essere i giovani e quella fetta di working class. Quasi 1,4 milioni di persone sotto i 34 anni hanno deciso di iscriversi, infatti, per votare alle prossime elezioni britanniche si terranno l’8 giugno 2017. Il dato – sottolinea Bloomberg – è in netta crescita, del 22 per cento per la precisione, rispetto al periodo appena precedente allo storico referendum sulla Brexit.
Questi numeri potrebbero tradursi in voti per il partito laburista, dato per spacciato dalla sfidante May, in una campagna che ha visto tornare in auge la tradizionale divisione Labour-Tory, restringendo de facto la scelta per i cittadini del Regno Unito.

La Brexit della discordia

Se May scandisce da mesi il refrain: «Brexit significa Brexit», Corbyn ribadisce che il voto dei britannici va rispettato. Non c’è partita né cambi di programma: il divorzio di Londra da Bruxelles, e quindi l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, avverranno. Sono due, però, i nodi da sciogliere: i termini e i tempi di realizzazione.
Mentre la premier continua a indossare le vesti di garante di una (hard?) Brexit certa, traducendola come una vera e propria «opportunità», Corbyn teme che una leadership conservatrice potrebbe minare il suo progetto di soft Brexit e avviare una serie di determinazioni economiche negative per il Paese.
Nella retorica di May, solo il partito Conservatore potrà attuare la Brexit e renderla «un successo» per un Paese «prospero». Nei discorsi politici del suo avversario, invece, sarebbero garantiti «da subito» i diritti dei residenti Ue nel Regno Unito e si punterebbe su un accordo commerciale con l’Europa.
Fino a qualche settimana fa la prospettiva sembrava diversa, come scrivevamo qui.
Il team di May pensava a un piano transitorio a due velocità: da un lato, Londra continuerebbe a pagare la sua quota Ue fino al 2020; dall’altro, in questa fase, godrebbe di condizioni favorevoli rispetto al mercato unico. In questo modo, l’uscita dal «single market» tanto caro al business della City e il divorzio dai 28 non sarebbe contemporaneo. Inoltre, troverebbe spazio anche la tutela dei diritti dei cittadini europei residenti nel Regno Unito. Il prezzo da pagare all’Europa per la Gran Bretagna ammonterebbe a 17 miliardi di euro, sempre che ad ostruire la strada della May non si frapponga il bastone tedesco.
Al di là delle dichiarazioni di rito, laburisti e conservatori hanno due visioni diametralmente opposte: May è dell’idea che sia meglio «nessun accordo che uno cattivo», Corbyn è per trattare a tutti i costi con l’Ue, anche se questo vorrebbe dire allungare il percorso dei negoziati per altri due anni.
La prima tuona per il «no deal» se non ci saranno le condizioni e sostiene che Corbyn si ritroverebbe «solo e nudo» ad affrontare le trattative con Bruxelles, mentre il suo sfidante prospetta un «disastro economico senza un’intesa».

Le promesse di Corbyn: 1 mln di posti di lavoro e una banca nazionale d’investimento

Sulla scia dell’entusiasmo, visti i sondaggi favorevoli, Corbyn passa alle promesse grosse, sempre se riuscisse davvero ad arrivare a Downing Street: «Un milione di buoni posti di lavoro» per «ricostruire quelle comunità che sono state lasciate indietro» dai conservatori.
In cantiere ci sarebbe, secondo il progetto laburista, una banca nazionale di investimento che immetterebbe 250 miliardi di sterline nel settore industriale.

Dossier tasse: May sotto pressione, Corbyn fa grandi promesse

Il manifesto dei Tories – sostiene la premier – in tema fiscale è chiaro: entro il 2020, se May venisse riconfermata premier, è previsto un «aumento della quota di reddito non imponibile da 11.500 a 12.500 sterline», riportano le agenzie di stampa. Inoltre, in agenda c’è anche «l’innalzamento della aliquota massima del 40 per cento dalla soglia di 45 mila a 50 mila sterline».
Pubblicamente May ha più volte ripetuto che il carico fiscale verrà ridotto per «per le famiglie lavoratrici». Le fasce di reddito più alte sarebbero, dunque, escluse. Peccato che la premier sia sotto tiro anche tra le file del suo stesso partito: il ministro degli Esteri, Boris Johnson e quello della Difesa, Michael Fallon, vogliano assicurare meno tasse per tutti.
Al di là della polemica interna, se vincessero i Tories, il sospetto è che le tasse saliranno per tutti.
In più, i conservatori sono incappati in un enorme boomerang con la proposta di tagli ai fondi assistenziali per gli anziani, ribattezzata “dementia tax”.
Il Labour, invece, propone nuove iniezioni di denaro al sistema sanitario nazionale e vuole ridurre praticamente a zero le tasse universitarie.
Ai cittadini britannici spetta decidere dove vorranno condurre il Paese. E gli ultimi attentati terroristici potrebbero cambiare ancora una volta le sorti di questo voto.

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