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MONITOR


dom 24 febbraio 2019

TECNOLOGIA E PATRIARCATO

Di recente il senatore statunitense Ron Wyden si è scagliato contro Absher, la app attraverso cui gli uomini sauditi possono tracciare e autorizzare o meno i movimenti delle mogli. Al netto della controversa e inquietante applicazione, prova che il patriarcato si avvale anche della tecnologia per conservare il suo potere, il dato più sintomatico, paradossale e allarmante è che a disquisire su diritti e libertà delle donne, in Oriente come in Occidente, sono ancora una volta sempre e solo gli uomini.

Di recente il senatore democratico statunitense Ron Wyden ha promosso su Twitter l’ultima battaglia “made in Usa” contro il patriarcato saudita che si serve della tecnologica per continuare ad esercitare il suo potere sulle donne.
In una lettera di Wyden indirizzata ai CEO di Google e Apple, si legge: «Vi scrivo per chiedervi di rimuovere immediatamente dai vostri app store l’applicazione del governo saudita Absher, che permette agli uomini sauditi di tracciare i movimenti delle donne saudite. […] Non è una novità che la monarchia saudita limiti e reprima le donne, ma le compagnie americane non dovrebbero aiutare o facilitare il patriarcato del governo saudita».
In seguito alla pubblicazione della lettera di Wyden, i media internazionali hanno acceso i riflettori sull’app Absher, goffamente soprannominata «wife-tracker app»
In ottemperanza alle leggi sulla «tutela» in vigore in Arabia Saudita, con Absher «gli uomini […] possono accordare o revocare alle donne il permesso di imbarcarsi su un volo e tracciare i loro movimenti legati al documento d’identità nazionale o al passaporto. […] Possono attivare notifiche per essere avvertiti con un sms ogni volta che una donna sotto la propria tutela passa per un aeroporto».
Il controllo delle donne è però solo una delle svariate attività che gli oltre 11 milioni di utenti Absher possono svolgere dal proprio smartphone dal 2015, quando il governo saudita ha introdotto questo servizio di burocrazia digitale.
Con Absher – che potremmo tradurre a grandi linee con l’espressione “ecco fatto” – i cittadini sauditi possono pagare multe, rinnovare documenti d’identità e passaporto e registrare i visti di lavoro accordati ai propri dipendenti non sauditi (più di 11 milioni, secondo il governo, cioè oltre un terzo della popolazione residente in Arabia Saudita).
Marwan Bukhary, un ristoratore saudita di 44 anni, intervistato dal «Time» ha dichiarato: «[Absher] è una app che mi ha cambiato la vita, rendendola molto più semplice. È governo digitale: eravamo abituati a fare tutto andando negli uffici appositi e facendo la fila, ora invece basta spingere un bottone».
Tra detrattori e sostenitori di Absher, il discorso internazionale sull’app ha finito per polarizzarsi su due scenari contrastanti: da un lato, una “Gilead” wahabita hi-tech in cui, al pari dello Stato distopico immaginato nella serie The Handmaid’s Tale, i guardiani perpetrano la dittatura sul corpo delle donne direttamente dal proprio smartphone; dall’altro, un paradiso dell’e-governance e dell’efficienza, dove lacci e lacciuoli della burocrazia analogica sono ormai un vecchio incubo e i detentori del capitale hanno ridotto al minimo il dispendio di tempo organizzativo.
L’interazione con la legge e i suoi amministratori si è fatta fluida, impalpabile, felicemente asettica.
La realtà dovrebbe stare da qualche parte nel mezzo, cioè in una monarchia repressiva e brutale, con macroscopiche violazioni dei diritti umani in termini di parità gender e condizioni del lavoro.
Una monarchia che notoriamente gode del sostegno ufficiale dell’Occidente e che, per mesi, è stata addirittura elogiata per una presunta accelerazione democratica e riformista incoraggiata dal nuovo volto giovane della corona saudita, il principe Mohammed bin Salman: tra le altre cose, mandante dell’omicidio del giornalista Jamal Khasoggi.
Una monarchia che, da quattro anni, bombarda ininterrottamente e indisturbata lo Yemen, vittima collaterale dello scontro pluridecennale tra Riyad e Teheran.
In questo contesto, forte di un silenzio bipartisan all’interno degli Stati Uniti, l’offensiva digitale contro Absher assume contorni da commedia dell’assurdo, anche senza esercitarsi in piroette di benaltrismo.
La denuncia del senatore Wyden di certo ha contribuito – anche se di riflesso – a un rilancio della questione dei diritti delle donne in Arabia Saudita ma, così com’è stata strutturata, svela i limiti di un’indignazione 2.0 tristemente diffusa.
Il punto, per Wyden e i suoi sostenitori, non è tanto la sopravvivenza di forme discriminatorie ciclopiche in uno dei principali alleati americani nella regione, ma il fatto che la discriminazione venga perpetrata per certi versi «in our name», ossia con mezzi digitali forniti dall’Occidente.
È uno sconcerto figlio di una convinzione errata che ispira una certa teologia della liberazione digitale: dove la diplomazia e le pressioni internazionali hanno continuato a fallire, sarebbero state la Rete e il progresso tecnologico a introdurre «dal basso» libertà e diritti.
Un fraintendimento che proprio in Medioriente si è manifestato con prepotenza dopo il fallimento delle “Primavere Arabe”, i movimenti di rottura che hanno utilizzato le piattaforme digitali per organizzarsi e per poi subire una repressione “analogica” al servizio dello status quo.
In piccolo, i limiti del potenziale rivoluzionario degli strumenti tecnologici è esemplificato ora nel caso Absher.
Lo smartphone, idealizzato come veicolo di informazioni virtuose, in Arabia Saudita risulta dirompente nell’affrancamento dell’uomo dal giogo delle carte bollate; e per le donne rimane uno strumento utilissimo a supporto delle intelligenze analogiche che lottano per la causa femminista in Medioriente.
L’attivista femminista egiziana Mona Eltahawy ha diffuso su Twitter un messaggio ricevuto da una donna saudita a difesa di Absher, dove si legge: «Absher è il sintomo del problema, non il problema in sé. Infatti, se le pressioni pubbliche contro Google e Apple dovessero continuare, ciò potrebbe creare problemi alle donne saudite. Questa app è un abominio, ovviamente, ma ha “aiutato” le donne, non il contrario».
La donna spiega appunto che, prima di Absher, gli uomini usavano le lungaggini burocratiche per ottenere il permesso di viaggio per le donne come scusa per tenerle in casa.
Un’altra donna saudita ha raccontato a Arwa Mahadawi sul «Guardian»: «A volte Absher può rendere la vita delle donne saudite più facile».
«Permette agli uomini di rinunciare completamente all’esercizio delle restrizioni di viaggio, lasciando che le donne decidano loro cosa fare, senza dover chiedere alcun permesso. Ci si dovrebbe concentrare sulle leggi restrittive, non sull’interfaccia».
E per la prossima battaglia digitale contro il patriarcato saudita si potrebbe anche provare a chiedere alle donne saudite cosa ne pensano, prima di partire lancia in resta dietro al «not in my name» dell’ennesimo ultrasessantenne bianco a stelle e strisce, armato di smartphone.

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