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mer 14 novembre 2018

TANTI NOMI PER UN SOLO VOLTO

Vittorio, Aureliano, Stefano, Massimo. Tanti nomi per un solo volto. La periferia, la suburra, la galera, la City. Tanti luoghi per un unico dispositivo di controllo. Alessandro Borghi percorre le vie del tempo nella città dell’eterna ferocia per ritrovarsi infine altrove: dall’altra parte della Manica, nel distretto finanziario di Londra, al fixed income della grande banca. Il ragazzo di Roma è cresciuto, adesso indossa la camicia bianca e abiti tagliati su misura. Ora è un trader, e basta una sua parola per muovere valanghe di soldi. Ma i tanti nomi corrispondono a un medesimo volto, i tanti luoghi a un medesimo spazio. Il volto e lo spazio della biopolitica. Cioè quei volti e luoghi altri in cui si mettono a nudo le contraddizioni più profonde della società. E in cui un gesto ribelle, forse, è ancora possibile.

Vittorio, Aureliano, Stefano, Massimo. Tanti nomi per un solo volto.
Se nasci e cresci in periferia, l’imperativo è soltanto uno: svoltare. Lo sa bene Vittorio, giovane ostiense che, insieme al suo compagno di strada Cesare, nell’ultima pellicola di Claudio Caligari (Non essere cattivo, 2015) alterna piccola criminalità a sgobbi occasionali per tirare su il gruzzolo necessario a calarsi una dose e dimenticare per un attimo l’oblio che li inghiotte.
Ma Ostia è anche il terminale litoraneo di una criminalità più grande, che affonda le sue radici nel centro di Roma, in quella che gli antichi definivano la “suburra”.
E le dirama nei bordi di tutta la città, i cui luogotenenti criminali sono del calibro di Aureliano, detto “Numero 8” e membro della famiglia Adami, sul cui curriculum vitae figurano “narcotraffico e controllo territoriale”. Il film è Suburra di Stefano Sollima, distribuito nelle sale cinematografiche italiane nell’ottobre del 2015, a circa un mese dall’uscita di Non essere cattivo. Due anni dopo, il film diventa una serie Netflix.
Legge della domanda e dell’offerta.
Se alla seconda ci pensano gli Aureliano di turno, la prima è alimentata dai più, destinati a rimbalzare nel flipper letale del potere: da una parte quello criminale, che “soddisfa gli appetiti”; dall’altra quello istituzionale e repressivo, che troppo spesso sceglie di abbattersi – o copre chi si abbatte – con brutalità e abusi sull’anello più debole della catena. Succede a Stefano, ragazzo di Torpignattara che una notte sciagurata viene fermato dai carabinieri con dell’hashish addosso. Il suo arresto preventivo, su cui pendono detenzione e spaccio, si tramuta in un calvario nell’istante in cui la porta di uno stanzino del commissariato si chiude. Quando Stefano risbuca fuori è segnato nel corpo e nell’anima. Ma soprattutto nel corpo, perché le percosse ricevute ne causano, una settimana dopo, il decesso. Una trama tanto asciutta quanto oscura, che scorre nei fotogrammi di Sulla mia pelle(Netflix, regia di Alessio Cremonini, agosto 2018) e si ispira alla nota vicenda di cronaca di Stefano Cucchi.
La caduta e l’ascesa, le altre due leggi che cadenzano il fluire degli eventi.
Le conosce a perfezione Massimo Ruggero, il trader dell’alta finanza che, ancora a partire dalla città eterna, ha cominciato la sua scalata. E adesso che il suo superiore lo ha designato come erede, la vetta massima sembra essere raggiunta. Da Roma a Londra, la City ora si estende ai suoi piedi. Quando le vedi dall’alto, però, le cose cambiano forma, assumono una chiarezza lampante. Abbagliato dalla consapevolezza, Massimo è chiamato a fare i conti con la cruda realtà che la finanza, colmando inconsapevolmente i vuoti lasciati  dalla politica, determina il destino di interi Paesi, modella in modo pervasivo la vita delle persone. È una vera e propria immersione nella “scatola nera” della finanza, quella in cui ci trascina il protagonista de I Diavoli, best seller di Guido Maria Brera (Rizzoli, 2014) di cui è imminente la trasposizione in una serie tv coprodotta da Sky e Lux Vide.
La periferia, la suburra, la galera, la City. Tanti luoghi, attraversati da altrettanti personaggi, per smascherare un unico dispositivo: la biopolitica.
Concetto reso centrale da Michel Foucault nel dibattito filosofico degli anni Settanta, per “biopolitica” si intende quell’insieme di norme teoriche e misure pratiche ideate da un’Istituzione per regolare la vita degli individui nei più disparati ambiti. Sciolto in termini più semplici, suona così: controllo totale.
Ma una membrana sottile separa il volto dell’attore dai personaggi che interpreta.
E proprio grazie a quel viso stropicciato, Alessandro Borghipercorre le vie del tempo –  in una città che, nell’eternità della sua ferocia, consuma continui mutamenti – per ritrovarsi infine altrove: dall’altra parte della Manica, nel distretto finanziario di Londra, al fixed income della grande banca, nei panni di Massimo Ruggero.
Il ragazzo di Roma è cresciuto, adesso indossa la camicia bianca e abiti tagliati su misura. Ora è un trader, e basta una sua parola per muovere valanghe di soldi. Il tossico dolente, il principe di Ostia, è salito in cima alla piramide. Pigliarsi l’Urbe una volta ancora non bastava più. Adesso, la posta della partita è il mondo.
Eppure la strada c’entra sempre. Non a caso nel gergo della finanza il circuito degli scambi si chiama “street”.  E dietro alle tante maschere del cinema,  proprio della strada resta la puzza, il senso del conflitto e l’adrenalina dello scontro.
L’underdog capitolino trasmuta in Diavolo, abile manipolatore che dagli schermi del suo trading floor esprime il più alto livello di condizionamento sulle vite umane. Eppure conserva la capacità di comprendere prezzi e limiti di questa scelta. Come ai tempi di Ostia, quando c’era da ribellarsi all’ordine di un padre o agli intoccabili equilibri di potere garantiti dal Samurai.
I ruoli di Borghi sono lo scarto che non fa tornare i conti, il sampietrino scheggiato, il cortocircuito del sistema. E nonostante sia da solo in una via di Londra, continua ad avere una banda in testa, una guerra da vincere mentre le mani restano quelle di uno di Ostia: nervose, provate, ma capaci di spostare le montagne.
Ecco che allora i tanti nomi sopra descritti corrispondono a un medesimo volto. E i tanti luoghi attraversati da quei personaggi corrispondono a un medesimo spazio. Il volto e lo spazio della biopolitica.
Cioè quei volti e luoghi altri in cui si mettono a nudo le contraddizioni più profonde della società ma in cui un gesto ribelle o un principio di sottrazione è ancora possibile.

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