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sab 25 febbraio 2017

STADIO DELLA ROMA, NON TORNANO I CONTI

Dalle 22:22 del 24 febbraio sappiamo che lo stadio della Roma si farà, a Tor di Valle e senza torri. Ecco la ricognizione di cosa sarebbe stato prima del post di Virginia Raggi e di cosa sarà di quell'impianto da adesso in poi. Cronaca di un progetto controverso e di una storia romanissima, a metà tra calcio e cemento. Analisi di una vera e propria leva finanziaria, racconto che coinvolge una città intera. Partiamo da Tor di Valle per provare a capire: quale è il rapporto tra pubblico e privato in Paesi che troppo spesso “compensano” derogando alle leggi e a danno della collettività?

24 febbraio 2017, ore 22:22 La sindaca di Roma Virginia Raggi annuncia su Facebook che lo stadio della Roma si farà: a Tor di Valle e senza torri


Ecco una ricognizione di come sarebbe stato l’impianto dalle tre altissime torri prima di quel post.
Le altissime torri, a Roma, non erano quelle della jihad globale, ma più semplicemente quelle della speculazione all’amatriciana. Sarebbero dovute rientrare in un’operazione-monstre con al centro il giallo e il rosso, colori sociali di una delle due squadre di football della città, e avrebbero dovuto far pendant con la costruzione del nuovo stadio della AS Roma.
E già qui emergevano i primi problemi, perché era perfino lecito dubitare che – al termine dell’eventuale realizzazione del progetto – il nuovo impianto sarebbe stato effettivamente di proprietà del club. E questi dubbi permangono anche oggi, dopo il raggiungimento dell’accordo tra il sindaco Virginia Raggi, il ds della Roma Mauro Baldissoni e il costruttore Luca Parnasi.
Se sui reali benefici della grande opera per i giallorossi c’era – e c’è – da nutrire più di una perplessità, allora era lecito chiedersi chi – senza ombra di dubbio – avrebbe tratto beneficio dal maxi-intervento speculativo.
La storia era ed è all’apparenza romanissima, rimandando a quanto di più radicato esista nell’Urbe: ovvero, il cemento dell’edilizia e la passione calcistica. Tuttavia – come spesso accade nella città eterna – gli eventi locali finiscono per assumere una generalità che li rende non solo universali, ma paradigmi di processi cruciali.
E così, la storia delle altissime torri e dello stadio “della” AS Roma tramutava in un caleidoscopio in cui si mischiavano acquisizioni che sfruttano pregresse situazioni debitorie, disegni speculativi ispirati dalla leva finanziaria (ovvero dalla possibilità di accesso al credito così da investire un capitale nettamente superiore a quello posseduto), rivalutazione di terreni a fini edilizi, ridefinizione dello spazio metropolitano nel segno del profitto, pervasiva estrazione di valore da ciò che di più gratuito possa esserci: la passione e il tifo.
Ma andiamo con ordine…

Lo stadio delle altissime torri  

Le torri disegnate dall’architetto Daniel Libeskind dovevano inizialmente essere tre – e misurare 160 metri (35 piani), 199 m. (44 piani) e 231 m. (49 piani) –, ma si vociferava che sarebbero state ridotte a due, o che la loro altezza sarebbe diminuita del 25% come beau geste nei confronti della traballante amministrazione capitolina che, tra dimissioni e defezioni, polizze e palazzi, su questa partita – oggi come ieri – continua a giocarsi tutto. Roma è una città fondata sul mattone, del resto. Non è la res publica ma la res calx, la calce di cui parla Vitruvio nella sua opera De architectura, e da cui procede l’atavica disfida tra i palazzinari che – dai tempi del primo governo Giolitti – decidono le sorti politiche della città e, dalle Olimpiadi del 1960, ne stabiliscono l’architettura sociale.
Le altissime torri sarebbero state il contorno di un’altra opera ben più importante che, invece, sembrava così sparire dietro le quinte: proprio lo stadio “della” AS Roma, la cui importanza nell’intero progetto si riduceva al 14% delle cubature totali in costruzione. L’impianto (senza le altissime torri) dovrebbe sorgere nella zona di Tor di Valle, area difficile da raggiungere sia con la macchina che con i mezzi pubblici, su cui gravano vincoli ambientali e paesaggistici rigidissimi in virtù delle possibili esondazioni del fiume Tevere e, dulcis in fundo, una zona dove il Piano regolatore esistente prevede un massimo di cubature di 110mila metri cubi, meno di un decimo di quanto serve per costruire uno stadio dotato di una cittadella polifunzionale con tanto di alberghi e altissime torri.
I terreni, celebri per lo storico ippodromo immortalato dal film Febbre da cavallo, sono di proprietà di Gaetano Papalia, altrimenti conosciuto come “re degli ippodromi”, che – essendo indebitato pesantemente con Unicredit – li cede al costruttore in ascesa Luca Parnasi, figlio di Sandro Parnasi fondatore del gruppo Parsitalia, con ottime entrature nei salotti che contano.
Nel frattempo, però, anche a Parsitalia va tutto storto, finché Luca Parnasi è costretto a cedere a Unicredit, verso cui è esposto per 450 milioni, gli asset immobiliari con relative concessioni e diritti edilizi. Da questa cessione è esclusa la zona di Tor di Valle che rimane di proprietà di Eurnova srl (Gruppo Parnasi) e Stadio Tdv Spa (Neep Roma Holding Spa, la società controllante della As Roma). Ma la banca di piazza Gae Aulenti continua ad avere voce in capitolo. Non a caso nell’ultimo bilancio, agosto 2016, è riportato come, dei 157 milioni di debiti di AS Roma, 149 siano verso Unicredit Spa e relativo contratto di finanziamento del debito (sottoscritto nel 2015 con Unicredit stessa e Goldman Sachs, ndr).

Di chi è la AS Roma, di chi è lo stadio  

La AS Roma è proprietà per il 79% della Neep Roma Holding Spa, controllata a sua volta per il 91% dalla As Roma Spv Llc con sede nel paradiso fiscale del Delaware (Usa), partecipata dall’imprenditore italo-americano James Pallotta.
Lo stadio della Roma non è – e non deve essere –  proprietà della AS Roma, ma deve restare proprietà di Eurnova (Gruppo Parnasi) e della Neep Roma Holding Spa. I due asset – stadio e squadra – sono separati alla nascita.
La AS Roma non parteciperà ai costi della costruzione dell’impianto, ammontanti a 341 milioni, interamente finanziati con un prestito a 20 anni che costa il 6% l’anno, e ai 13 milioni di costi di gestione, e non beneficerà di nessun ricavo che non siano i biglietti delle partite. Come attestato dallo studio di fattibilità presentato da Eurnova, lo stadio genererà 62 milioni di ricavi provenienti da «sponsor, ristorazione, pubblicità e vendita di biglietti, non direttamente spettanti alla AS Roma, relativi agli eventi sportivi e agli altri eventi» e che andranno interamente a Eurnova e Neep. Quest’ultima alla fine dei conti, realizzerà 8 milioni di utile netto l’anno per 20 anni ritrovandosi il debito azzerato a fine corsa.
La AS Roma non paga costi ma non deterrà la proprietà dell’impianto. Neep ed Eurnova, invece, otterranno ingenti ricavi sfruttando il brand dei giallorossi.
Si tratta di una situazione molto diversa da quella di altre grandi squadre europee che, al contrario, hanno impianti di proprietà: dal Barcellona al Bayern Monaco, dalla Juventus al Real Madrid, che proprio di recente ha ottenuto dal Comune (giunta guidata da Podemos con l’appoggio esterno del Psoe) il via libera per una ristrutturazione del mitico Santiago Bernabeu – 400 milioni provenienti in buona parte da un fondo di Abu Dhabi – senza che sia messa in discussione la proprietà dello stadio.

La leva

Ma lo stadio non mette in gioco solo il tifo, le passioni e l’aura magica di una maglia per trasformarle in occasioni di estrazione di valore e profitto. Il progetto, infatti, si configurava come un esempio di leva finanziaria.
Se il costo dell’impianto è di 341 milioni, quello delle opere di urbanizzazione intorno allo stadio (interventi di viabilità, parcheggi, cosiddette connessioni esterne, ecc.) ammontava a 270. Tuttavia, l’«operatore privato» si impegnava a coprirne 50 avanzando la richiesta di una compensazione per il raggiungimento dell’equilibrio economico-finanziario complessivo. La contropartita era individuata nella richiesta da parte di Eurnova (Parnasi) di una superficie utile lorda pari a 303 mila mq. edificabili (in deroga al piano regolatore) a destinazione commerciale: il cosiddetto Business center.
Ma si trattava davvero di una «compensazione» nell’ottica del perseguimento di un equilibrio economico-finanziario? E quei 50 milioni sarebbero stati investiti realmente dall’«operatore privato»? Oppure lo stadio delle altissime torri era una proposta indecente, la mossa perfetta per trovare la quadratura del cerchio e risolvere diversi problemi dei player coinvolti?
È lecito porsi queste domande tanto più che nella richiesta di perequazione dei 220 milioni ne figuravano altri 40 di oneri finanziari. Pertanto, sorgeva il dubbio che tutta l’operazione sarebbe stata finanziata a debito, con la solita “leva” grazie alla quale l’accesso a determinate linee di credito consente d’investire capitali per un valore nettamente maggiore di quelli esborsati. Ed era altrettanto lecito immaginare che sui 303 mila mq. si sarebbe edificato per alzare profitti che poco avrebbero avuto a che fare con meccanismi compensativi mentre tanto continuano a dire dei dispositivi estrattivi e dell’attitudine predatoria.
La cosa più preziosa, nel pasticciaccio dello stadio, sembrano i debiti: il fil rouge che avvince tutti gli attori del racconto.

(Non) tornano i conti 

L’impressione è che sullo stadio in tanti debbano far quadrare i conti: chi comprò il club adesso vuol rientrare dei soldi ed è interessato a investimenti collaterali di natura edilizia; il proprietario dei terreni nonché costruttore; le banche che detengono una quota del debito della AS Roma; e gli advisor Goldman Sachs e Rothschild.
Se è evidente che questi soggetti hanno da guadagnarci, meno chiaro è il vantaggio per la AS Roma. Di certo il club potrà beneficiare di una maggiore partecipazione dei tifosi con conseguente aumento degli incassi.
Ma è ugualmente certo che la società non trarrà vantaggi in termini di patrimonializzazione (lo stadio non è della Roma), né di maggiori ricavi derivanti da attività diversificate rispetto a quella sportiva: obiettivo che invece dovrebbe essere prioritario nella crescita di un club. E su questo tema – con o senza torri, al netto del business center e del dimezzamento delle cubature – la questione resta aperta: perché l’«operatore privato» non procede all’investimento dalla AS Roma collegando – direttamente e preventivamente – il club all’impianto? Per quale motivo c’è il bisogno di muoversi fuori dal perimetro della società calcistica invece di scommettere su un intervento che dovrebbe rafforzare la AS Roma dal punto di vista reddituale e patrimoniale?
Sulla base di questi interrogativi, viene da chiedersi ancora – forzando neanche troppo con l’immaginazione – perché 500 mila tifosi della Roma non mettano 100 euro a testa per raccogliere 50 milioni e usino la “leva finanziaria” per realizzare lo stadio ipotizzando un rendimento del 7 o del 10% sul capitale.
E mentre una città intera si è divisa tra favorevoli e contrari allo stadio, sarebbe il caso di partire da Tor di Valle per provare a sbrogliare ben altro «garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo»: quale è il rapporto tra pubblico e privato in Paesi che troppo spesso “compensano” derogando alle leggi e a danno della collettività?
Dalle 22:22 di ieri sera sappiamo che lo stadio si farà. È stato trovato l’accordo tra la sindaca Raggi e il club dopo l’incontro in Campidoglio. Ma i nostri dubbi restano.

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