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mer 12 ottobre 2016

IL MALEDETTO INGANNO DELLA SHARING ECONOMY

La narrazione è sempre quella del “ciò che mio è tuo”, cresciuta sulle dorsali della rete telematica a partire dagli anni Novanta. Nella sostanza, invece, coincide con l’appropriarsi delle pratiche di messa in comune, di libera socializzazione o riproduzione dei contenuti a scopi non commerciali, da ricollocare nel perimetro stringente dell’estrazione di valore: nella gabbia del profitto di alcuni. Che sia Uber, Airbnb o Foodora poco importa. Si fanno soldi sulla condivisione, sulla competizione e anche sullo sfruttamento. Dell’opacità della trasformazione si avvantaggiano i colossi. Il capitalismo è morto? No.

Nemmeno sulla frontiera dell’innovazione siamo esenti da un’azione dubbia sotto il profilo del mantenimento dello status quo. La sharing economy che stiamo imponendo a livello globale aggrava la tendenza deflattiva e aumenta – al contempo – il tasso di disoccupazione. Grandi corporation muovono volumi di capitali capaci di alterare gli assetti di interi Paesi. E oggi la forza di queste companies transnazionali si manifesta in tutta evidenza. Da La morte clinica dell’Europa – Il Tredicesimo piano
Ti serve un passaggio. Non hai tempo, dici. Hai il cellulare in mano, agiti il pollice sulla app di Uber. A quel punto scrivi dove sei e dove vuoi arrivare. Una macchina è lì pronta per te poco dopo, tutto low-cost, s’intende: autista privato, preventivo conveniente, sforzo pari a zero. Il meccanismo è più o meno identico se ti serve una casa per qualche giorno. Nessun problema, c’è Airbnb e un privato che la mette a disposizione. E se hai bisogno di cibo direttamente a casa? C’è Foodora, che a pigrizia risponde. La lista si allunga fino a Thredup dove il capitale sono i vestiti.
La chiamano sharing economy, “economia della condivisione”. La narrazione è sempre quella del “ciò che mio è tuo”, cresciuta sulle dorsali della rete telematica a partire dagli anni Novanta. Nella sostanza, invece, coincide con l’appropriarsi delle pratiche di messa in comune, di libera socializzazione o riproduzione dei contenuti a scopi non commerciali, da ricollocare nel perimetro stringente dell’estrazione di valore: nella gabbia del profitto di alcuni.  Il capitalismo è morto? No.
Ma come si fa a condividere qualcosa che non si possiede? Semplicemente si paga un bene o un servizio che non si possiede, dislocando la soddisfazione dei bisogni nella logica dello scambio commerciale. A fare da connettore c’è la startup di turno, che in breve finisce per fatturare miliardi e che – di fatto – sussume l’orizzontalità di alcuni comportamenti piegandola alla produzione di utili. La premessa di tutto è che il lavoro prestato per la soddisfazione di questi bisogni sia soggetto all’imposizione della “chiamata”. “Lavora quando servi” è il mantra di un’economia che si presenta avanzata, ma che – a ben vedere – ricorda in tutto e per tutto il passaggio fondativo dell’«accumulazione originaria». Le recenti proteste contro Uber o Foodora lo raccontano.
E non a caso alcuni parlano di “Quarta rivoluzione industriale”. Di analogo rispetto alla prima, c’è la pervasiva, sistematica recinzione proprietaria di spazi, saperi e conoscenze comuni nel segno del monopolio, o dell’oligopolio di alcune companies. Così, al di qua e al di là delle reti informatiche, si consuma un processo simile alle antiche enclosures con cui, nell’Inghilterra del XVIII secolo, i terreni comuni furono recintati e posti sotto un sostanziale regime di proprietà privata. Oggi come allora, il risultato è la creazione di una forza lavoro sradicata, facilmente ricattabile, soggetta ad altissima mobilità, priva di diritti e tutele, ricacciata a prima del welfare state, e assimilabile alla condizione dell’indigente, del vagabondo, del lavoratore giornaliero o del povero.
Che sia Uber o Airbnb poco importa, perché il futuro – dicono – sono le piattaforme tecnologiche.
Il successo di questo modello si basa sul pervertire il concetto di connessione collettiva e sul  distorcere il principio della partecipazione. Ecco come Tom Slee, l’autore di What’s Yours is Mine, descrive questo processo: «Quello che era nato come un appello al senso di comunità, alle interazioni tra persone, a sostenibilità e condivisione è diventato il campo da gioco di miliardari, di Wall Street, di venture capitalist che spingono le loro convinzioni sul libero mercato sempre più a fondo nelle nostre vite personali».
Per dirla con le parole di Paul Mason, autore di Postcapitalismo (Il Saggiatore, 2016): «Uber non è un sistema equo, al contrario: è una piattaforma di self impoverishment, spinge alla competizione e allo sfruttamento. Io ho in mente Wikipedia: il peer-to-peer, la rete paritaria, elevata a potenza, un modello basato su competenze diffuse e collaborazione». Quello che emerge, dunque, è una contrapposizione irriducibile tra modelli: self impoverishment, platform companies, concentrazioni monopolitistiche contro peer-to peer, platform cooperativism. Le grandi corporation fanno soldi sul capitale sociale, mentre brandiscono la clava di immensi capitali offshore che si muovono nelle maglie della fiscalità globale, incapace di produrre una tassazione omogenea.
Dimentichiamoci l’era post-industriale, allora. Perché siamo già oltre: in balìa di un algoritmo che regola il lavoro e assegna dei punteggi.   Siamo qui ad assistere (quasi) in silenzio agli effetti funesti del processo di automazione e alla deregolamentazione delle relazioni tra individui, mentre è divenuta una chimera l’idea di poter costruire – grazie al salto tecnologico – un’autonomia virtuosa, libera da vincoli e costrizioni del lavoro.
E intanto si mercificano rapporti umani la solidarietà, a vantaggio di chi possiede un bene primario e soprattutto a vantaggio di chi ha una macchina o un appartamento, come racconta anche una lunga inchiesta di “Die Zeit” firmata da Tilman Baumgärtel.
Come sostiene Robert Reich, docente all’Università di Berkeley e strenuo oppositore della sharing economy: «I nuovi software consentono di suddividere e frazionare i lavori in tante piccole particelle, delegandole alle persone solo quando servono, appaiando utenti e fornitori dei servizi online, con sistemi di apprezzamento e pagelle sulle app; i veri profitti vanno ai padroni del software, le briciole alla manodopera. Il risultato principale è quello di scaricare sui lavoratori tutte le incertezze e tutti i rischi».
Nascondendosi dietro l’etichetta cool della tecnologia, mescolando solidarietà sociale e capitalismo sotto il paravento di un algoritmo, ciò che emerge è la brutalità dell’accumulazione originaria. Mentre il vecchio sta morendo e il nuovo non è ancora nato, come scriveva Antonio Gramsci, c’è «un interregno in cui si verificano i fenomeni morbosi più svariati». Dell’opacità della trasformazione si avvantaggiano i colossi.
Philip Wade vede morire le ultime luci del giorno, come muoiono la sinistra liberale e la socialdemocrazia. Le soluzioni proposte gli sembrano un balbettio sciagurato: la demolizione del welfare vissuta come un fenomeno ineluttabile, la svalutazione del lavoro considerata necessaria, la privatizzazione dei beni pubblici intesa come progresso, l’inquinamento messo in conto come male necessario. Assurdo, pensa Phil. E cosa si ottiene in cambio di quest’immiserimento? La connettività permanente o la sharing economy? È una contropartita fasulla, com’è fasullo il bluff, e le parti più attive del vecchio continente se ne stanno rendendo conto. Da La notte della classe media – Il Tredicesimo piano

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