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VISIONI


mar 12 settembre 2017

LA STORIA DELLO SCERIFFO JOE ARPAIO

«Ricorda, Joe, prima il sangue, cioè la tua famiglia, poi la patria, cioè la tua nazione, infine Dio, cioè colui che protegge e scagiona il tuo operato. Se tieni a mente queste cose, se ti prometti di difendere la tua famiglia e la tua patria dal fuorilegge e dall’invasore, allora potrai diventare un grande sceriffo, e forse qualcosa di ancora più grande. Mi hai capito, Joe?». «Signorsì, padre», replica il bambino, prima di estrarre l’arma giocattolo e cominciare a rincorrere i fantasmatici cattivi.

Phoenix, Contea di Maricopa, sulla Washington Street antistante al palazzo dell’Ufficio del Sindaco, h. 11,50, oggi.
Vista la solidità d’animo e l’indiscutibile zelo nel mettere il proprio corpo e le proprie facoltà tutte in difesa dei confini di questa grande patria che sono gli Stati Uniti d’America; e vista l’assoluta bontà di intenti e d’azioni nel perseguire gli obiettivi a lui deputati dal proprio mestiere – cioè di salvaguardare, a ogni costo, la sicurezza e l’incolumità dei cittadini della patria –; e vista la più totale devozione ai propri doveri patriottici al punto da commettere l’unico – e discutibile – reato di opporsi agli ammonimenti della corte al solo fine di preservare i propri concittadini dalle minacce del clandestino invasore…

È quasi mezzogiorno, il sole batte forte e ha asciugato tutti i residui dell’acquazzone biblico che è venuto giù la notte prima. Le parole sono scandite nella sala conferenze dell’Ufficio del Sindaco di Phoenix, ma il timbro e il tono sono ben più riconoscibili e autorevoli di quelli del primo cittadino. Chi le pronuncia è qualcuno che sta vertiginosamente più in alto, quanto a potere e autorità, il solo in grado di appellarsi a un procedimento del genere.

L’impianto di filodiffusione trasporta la voce nel piazzale alberato e lungo la Washington Street, lo stradone che porta il nome del primo presidente degli States e scorre parallelo al palazzo istituzionale da cui si accinge a fare il proclama quello attuale. Le radio e le televisioni fanno il resto, a banda larga, per tutta la cittadinanza locale, e non solo.

Le voci sulla concessione della grazia all’ex “sceriffo più duro d’America”, un vero e proprio boia per qualcuno, che potrebbe essere graziato rispetto alla sua condotta fatta di arresti arbitrari e abusi perpetrati contro chi ha l’unica colpo di avere la pelle più scura della norma, hanno cominciato a circolare già da un mese, e in vista di questo sono state dispiegate forze dell’ordine ovunque, nel centro e nelle periferie della città: Phoenix è stata militarizzata, ancora più di quanto non lo fosse già prima, e ce ne vuole.

Washington Street è stata divisa a metà da una doppia fila di transenne, che parte dall’ingresso del palazzo e scorre perpendicolare alla strada, ed è presidiata da un centinaio di agenti per lato, in assetto anti-sommossa. Sul lato sinistro dello stradone sono stati fatti confluire i dimostranti e i presunti agitatori “contro” lo sceriffo, nel lato destro tutti quelli “a favore”. Così Washington Street, ripresa dall’alto con le telecamere degli elicotteri, rispecchia la sua effettiva e inquietante suddivisione sociale: da una parte, a sinistra, ci sono gli ispanici, in netta maggioranza, poi gli afroamericani, i nativi d’America e qualche asiatico; dall’altra, a destra, ci sono i “bianchi”.

La dicotomia del quadretto razziale è resa imperfetta soltanto da alcuni bianchi che si sono infiltrati nel lato sinistro, per solidarizzare con chi vuole esprimere tutta la sua rabbia e il suo dissenso rispetto a quel terribile annuncio che rischia di diventare realtà. Un annuncio che i “bianchi solidali” non credono possa concretizzarsi, come Bill, un giovane very democrat che fissa le finestre del palazzo, tende l’orecchio e ostenta un volto basito e incredulo, e sussurra: «Non può essere, non può accadere una cosa del genere, se accade siamo davvero troppo oltre, senza più alcuna speranza di tornare indietro». Accanto a lui, José, messicano nato e cresciuto a Phoenix, sembra invece non essere per niente stupito da quello che potrà sentire. Anzi, per la piega che hanno preso gli eventi, non ha dubbi sull’esito di quel proclama. Ed è per questo che, già da quando ha messo piede al presidio, alle prime luci dell’alba, per essere in prima fila, intona fragorosi “hijos de perros!” e “malditos cabrones!” in direzione del palazzo.

Francisca gli fa da delay, quando non varia sul tema aggiungendo un’altra vasta gamma di insulti, mentre le sue coronarie si gonfiano e le tempie sembrano potergli esplodere da un momento all’altro. Pancho, infine, si tiene defilato dietro i compagni e, protetto dalle loro schiene, ascolta il frastuono della strada e la voce in filodiffusione nel più completo silenzio, con gli occhi a fessura, la bocca serrata, le braccia conserte e le gambe che stringono al loro centro uno zainetto dalla cui sommità spuntano due colli di bottiglia, avvolti da stracci. Pancho odia, la polizia non può sapere quanto.

Sul lato “destro” della strada, nel frattempo, i ranghi di nazi e suprematisti bianchi si sono riuniti: sventolano bandiere confederate e issano vessilli col triplo “k” il più in alto possibile, per provocare i “vicini” del lato sinistro di Washington Street, che rispondono lanciando i pochi oggetti che hanno passato le perquisizioni, come accendini e bottigliette, o forse c’è chi sta conservando la vera artiglieria per il momento giusto. Dietro i nazi e i suprematisti ci sono i veterani dell’esercito, vecchi pensionati, impassibili, con le loro lenti scure sulle guance rossicce e venuzzate, ossequiosi e fedeli, con il braccio piegato nel gesto del saluto militare.

Infine, ancora dietro, la “Phoenix bianca e bene”, con le donne timorate di dio che stringono a sé mariti e figli, e muovono la testa su e giù, in segno di decoroso assenso, col mento che lambisce le loro croci appese al collo, quando l’incipit dell’annuncio ha ormai cominciato a farsi sentire. Ma la tensione sta salendo, un vessillo dei suprematisti è stato strappato con forza da quelli del lato sinistro e incendiato, si apre una piccola breccia nelle transenne e partono i primi tafferugli tamponati dalla squadra anti-sommossa, che non si cura troppo del lato destro, e comincia a sferrare manganellate sul lato sinistro. La voce in filodiffusione è costretta a interrompersi. Bill continua a essere incredulo, José e Francisca più incazzati che mai, Pancho protegge il suo zaino e resta silente.
Springfield, Contea di Hampden, in una casetta a schiera vicino all’argine del fiume Connecticut, h. 11,30 del 20 gennaio 1942.
Infilarsi gli stivaletti di cuoio duro è la parte più difficile, soprattutto se si hanno le mani piccole e poco allenate di un bambino, ma alla fine ci riesce, ed è pronto. Un ultimo sguardo allo specchio per calzare meglio sulla testa il cappello a falda larga e sistemarsi le fondine sul cinturone, poi il piccolo Joe schizza fuori dalla camera, riceve un bacio sulla fronte dalla madre, che gli sussurra «sei bellissimo, sono orgogliosa di te, a carnevale farai un figurone», percorre il vialetto appena fuori dalla porta di casa e arriva in giardino, dove il padre sta abbrustolendo salsicce per il canonico barbecue del venerdì.

Vi partecipano gli amici di famiglia, italiani e irlandesi, gli immigrati che da ormai un paio di generazioni stanno prendendo parte al sogno americano. Il piccolo Joe arriva trafelato alle spalle del padre, nascosto dalla coltre di fumo della carne arrostita, e gli tira un lembo della canottiera per segnalargli la sua presenza.

Il padre si volta, si asciuga la fronte grondante di sudore, rinforca gli occhiali da vista che gli sono scivolati sulla punta del naso, posa il forchettone sul margine del barbecue, sgrana lo sguardo sul figlio e dice: «Il mio giovane eroe, ho qui una cosa per te». Infila quindi una mano nella tasca dei pantaloni, estrae una stella di latta gialla, ben rifinita, con su scritto “sheriff”, e la appunta sul petto del bambino, all’altezza del cuore. «Ecco, adesso sei pronto. Perché tu non sei un pistolero qualsiasi, sei uno sceriffo, un tutore dell’ordine e della legge, un difensore della patria». «Ricorda, Joe», prosegue il padre, e ora il tono si fa più serio, «prima il sangue, cioè la tua famiglia, poi la patria, cioè la tua nazione, infine Dio, cioè colui che protegge e scagiona il tuo operato. Se tieni a mente queste cose, se ti prometti di difendere la tua famiglia e la tua patria dal fuorilegge e dall’invasore, allora potrai diventare un grande sceriffo, e forse qualcosa di ancora più grande. Mi hai capito, Joe?». «Signorsì, padre», replica il bambino, prima di estrarre l’arma giocattolo e cominciare a rincorrere i fantasmatici cattivi.
Arizona, “Tent City”, Prigione della Contea di Maricopa, una mattinata d’agosto del 2000, poco prima dello scoccare di mezzogiorno.
Lo sceriffo è in piedi nel suo ufficio, intento a scrutare il suo feudo dalla vetrata che affaccia sul piazzale del carcere, e dà alle spalle all’uomo in giacca e cravatta che è venuto a fargli visita. Poi, dopo aver dato l’ennesima boccata al suo sigaro, si volta verso il suo ospite e gli dice: «Ne ho piene le palle delle vostre cazzate da democratici, questo è il mio sporco lavoro, conquistato dopo trent’anni di duro servizio nell’esercito, nell’antidroga, nelle strade… E mi hanno eletto perché lo so fare bene, e se la mia condotta è troppo per la vostra sensibilità, me ne fotto e strafotto, non è da voi che cerco approvazione, meno che mai ne ho bisogno».

L’uomo si allenta il nodo della cravatta e deglutisce, quindi prova a replicare: «Joe, nessuno sta mettendo in discussione il tuo operato, è solo che la strada per la nostra candidatura è ardua, e noi dobbiamo farti capire certe cose se vogliamo ampliare il nostro elettorato…». Ma la voce tremula dell’ospite è bruscamente interrotta da quella dello sceriffo: «Voi non dovete farmi capire un cazzo. Anzi, sono io che faccio capire a voi una cosa. Che se i confini di questa contea sono al sicuro da quei cani randagi, da quei fottuti clandestini, lo dovete a me. E adesso fuori dai coglioni, perché ho un lavoro da svolgere, io». Prima che possa replicare, l’uomo in giacca e cravatta è affiancato da un agente, che lo accompagna alla porta e gli fa varcare la soglia prima di richiudersela dietro.

Che io sia dannato se concederò solo un minuto di più a questi schifosi di democratici, sponsor di un negro che vuole prendersi la presidenza della mia patria. Posso anche mettere i loro culi sul consiglio comunale, ma i confini di questa contea rimangono roba mia, non me li toglieranno. Come non mi toglieranno la mia fonte di reddito, quella della mia famiglia, quella dei miei compatrioti bianchi, che dipende da quanti straccioni tengo in questo buco infernale che è il mio regno.

I pensieri dello sceriffo sono interrotti da due colpi secchi sulla porta, che poi si spalanca e fa spazio allo stesso agente di pochi attimi prima. «Con permesso, Sceriffo, abbiamo un problema. Il detenuto EM1917, il clandestino che abbiamo beccato e che voleva raggiungere suo fratello Pancho a Phoenix, quello che lei ha messo da un mese ai lavori forzati con doppio turno, per intenderci. Ecco, soffre di attacchi d’asma, e poco fa è svenuto e collassato al suolo, signore», scandisce il sottoposto. Lo sceriffo fa un tiro profondo dal suo sigaro, si sistema la stella sul petto, quindi sentenzia: «Rimettetelo subito ai lavori forzati, sergente, dimezzategli le razioni di acqua e pasti, e ditegli che finché qui comando io, cosa che sarà ancora per molto tempo, salvo altri gloriosi e sommi incarichi, lui per me può anche crepare».
Phoenix, Contea di Maricopa, sulla Washington Street antistante al Palazzo dell’Ufficio del Sindaco, h.12,00, oggi.
Sono state necessarie una decina di cariche a sedare i tumulti, ma alla fine le squadre anti-sommossa sono riuscite a ricreare l’assetto voluto: a sinistra i riottosi ispanici e compagnia bella, a destra la razza bianca. Bill tampona con un fazzoletto le testa di Francisca, che si è beccata una manganellata sulla tempia e gronda sangue, le dice: «Tienilo sulla ferita e premi forte, e stai lontana dalle transenne, quel maledetto annuncio non arriverà, non può arrivare…». José scuote lo guarda e scuote la testa, «sei solo un gringo, non capisci, non puoi capire».

Un suono distorto e penetrante irrompe sulla strada e fa calare un silenzio tombale. Seguono due colpetti sordi, da chi sta testando di nuovo il microfono. Poi la filodiffusione riprende, l’annuncio riattacca da capo.

Vista la solidità d’animo e l’indiscutibile zelo nel mettere il proprio corpo e le proprie facoltà tutte al servizio e in difesa dei confini di questa grande patria che sono gli Stati Uniti d’America; e vista l’assoluta bontà di intenti e d’azioni nel perseguire gli obiettivi a lui deputati dal proprio mestiere – cioè di salvaguardare, a ogni costo, la sicurezza e l’incolumità dei cittadini della patria –; e vista la più totale devozione ai propri doveri patriottici al punto da commettere l’unico – e discutibile – reato di opporsi agli ammonimenti della corte al solo fine di preservare i propri concittadini dalle minacce del clandestino, dell’invasore indiscutibilmente illegittimo:

Appellandomi all’antico istituto clemenziale della “grazia”, io, Joe Arpaio, Presidente in carica e capo supremo delle forze armate degli Stati Uniti d’America, dichiaro estinte le pene inflitte dalla condanna a carico di Joe Arpaio, cioè di me stesso nei gloriosi anni in cui ero integerrimo sceriffo della contea di Maricopa e strenuo difensore dei confini e della sicurezza nazionale. Amen.

L’imbarazzo generale prolunga il silenzio delle due folle per qualche secondo, giusto il tempo di recepire ed elaborare l’informazione. Poi nel lato sinistro scoppia l’orrore, in quello destro la macabra esultanza. Frastuono, urla, oggetti che volano, transenne che saltano, sputi, manganellate, e ancora e ancora urla, da una parte e dall’altra. Gli elicotteri riprendono dall’alto i due schieramenti che impattano fino a confondersi l’uno con l’altro. Bill rimane attonito, spintonato e scansato come un sacco di patate dagli ispanici che incalzano per dirigersi contro lo schieramento dei suprematisti. Ma nella confusione c’è qualcuno che rimane calmo, impassibile. Pancho tira fuori le sue molotov dallo zainetto, e le accende.
I fatti reali
Agosto 2017. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump concede la grazia allo sceriffo dell’Arizona Joe Arpaio, condannato dal giudice Susan Bolton a sei mesi di prigione per “disprezzo della corte”, ossia per aver deliberatamente ignorato gli ammonimenti del Tribunale riguardo le retate e gli abusi di potere perpetrati, in mancanza assoluta di prove, ai danni di cittadini solo e soltanto sulla base discriminatoria – lo sceriffo ordinava fermi e arresti di persone con la “pelle scura” – della loro presunta clandestinità.

Settembre 2017. Il presidente Usa Donald Trump abroga il programma Deferred Action for Childwood Arrivals (Daca), voluto dal suo predecessore Barack Obama per preservare i diritti degli immigrati che, portati “illegalmente” negli States quando erano bambini, vivono e lavorano attualmente nel paese. Bersagliato dalle polemiche e dalle accuse di incostituzionalità rispetto a tale atto, Trump dichiara: «Siamo una nazione di Legge. Non incentiveremo più l’immigrazione illegale. Legge e Ordine. Make America Great Again».

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