Decodificare il presente, raccontare il futuro

MONITOR


ven 3 marzo 2017

GENTRIFICATION SAN SALVARIO, STORIA DI UNA TRASFORMAZIONE

Dal "degrado" alla "riqualificazione": San Salvario è un quartiere dove prendere l'aperitivo, dove fare serata a Torino. San Salvario è un luogo sempre più omogeneo. Non è certo l'unico caso di gentrification, in città. Si pensi ai casi del Quadilatero Romano e di Vanchiglia. Ma qui il cortocircuito ha assunto tratti meno classici, per il passato della zona e per la sua conformazione. È un quadrilatero stretto fra il Po e la stazione, fra corso Vittorio Emanuele II e corso Guglielmo Marconi. Un tessuto denso, con le consuete strade ad angolo retto di Torino.

San Salvario faceva paura, San Salvario era un luogo complesso.
San Salvario è un quartiere dove prendere l’aperitivo, dove fare serata a Torino. San Salvario è un luogo sempre più omogeneo.
Non è certo l’unico caso di gentrification, in città. Si pensi ai casi del Quadilatero Romano e di Vanchiglia. Ma qui il cortocircuito ha assunto tratti meno classici, per il passato della zona e per la sua conformazione.
San Salvario è un quadrilatero stretto fra il Po e la stazione, fra corso Vittorio Emanuele II e corso Guglielmo Marconi. Un tessuto denso, con le consuete strade ad angolo retto di Torino.
La prossimità di Porta Nuova non ha arginato il processo. Evidentemente sono state più forti la presenza del parco del Valentino, la metropolitana inaugurata nel 2011 e la centralità nel quadro delle dimensioni di Torino. In più, la decadenza dell’attività notturna dei Murazzi sul Po, la liberalizzazione delle licenze per locali nel 2007 e la sospensione tra 2008 e 2010 delle licenze contingentate nei quartieri fuori dal centro.

L’evoluzione

Negli anni Sessanta è un quartiere dalla composizione mista, e il primo riflesso si vede nell’urbanistica: dove alla piccola borghesia delle palazzine di pregio si affiancano i nuovi palazzi per gli emigrati del Mezzogiorno. E intorno c’è una malavita d’antan, novecentesca, con sfumature romantiche. Ci sono le criticità e la solidarietà insieme, un luogo complesso in tutte le accezioni del termine.
A cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, la situazione cambia. San Salvario diventa un mercato dell’eroina e un classico “quartiere della stazione”, con fortissima presenza di extracomunitari soprattutto nordafricani. Nell’immaginario si trasforma in ghetto, piazza di microciminalità, da dove tenersi a distanza di sicurezza. Il simbolo dello smarrimento di una città in piena deindustrializzazione, che non riesce a trovare un senso al tramonto del suo ruolo.
All’ipotesi di risolvere i problemi in modo muscolare, brandendo il Law and Order, in quel periodo si preferisce un’alternativa morbida: un tessuto associativo vivace, la partecipazione dal basso che dialoga con le istituzioni, l’impressione che il quartiere possa essere un laboratorio multiculturale d’esempio nazionale. D’altronde la mescolanza è elemento caratteristico del quartiere, dove hanno sede la chiesa evangelica valdese, la principale moschea di Torino e la sinagoga ebraica, oltre alla parrocchia dei Santi Pietro e Paolo e alle altre chiese cattoliche.
Si apre da lì una fase di interregno, comune ai processi di gentrification: l’equilibrio precario di elementi che appartengono ancora al passato della marginalità con quelli che già si proiettano al futuro glamour. I secondi sono destinati a scacciare i primi, ma nella transizione vittime e carnefici si sentono fratelli. Lo strapiombo dà un senso di vertigine esaltante. All’incirca dieci anni fa largo Saluzzo, via Baretti, via Madama Cristina, iniziano a diventare luoghi dove fermarsi fino a tardi, darsi appuntamento tra universitari. Torino si è rifatta il trucco per le Olimpiadi invernali del 2006, il modo di raccontare la città non è più lo stesso, si parla di rinascita.
Oggi il quartiere ha un altro aspetto, la sua natura profonda è mutata. Il ricambio degli abitanti è avvenuto e continua ad avvenire, attraendo un target giovane e piuttosto abbiente e spingendo fuori gli indesiderati che hanno attraversato gli anni bui del quartiere. I locali e i ristoranti sono in successione come una batteria, o come una linea di produzione. La vocazione alla movida ha reso San Salvario caotico dal tardo pomeriggio alla notte e imbambolato nel silenzio di giorno. Le operazioni contro lo spaccio vengono condotte in modo spettacolare più che incisivo, per avere visibilità e dimostrare che la securizzazione è in atto. L’omogeneità ha preso il posto del tradizionale carattere misto del quartiere, il costo di affitti e immobili è esploso, colpendo gli esercizi commerciali più che il mercato degli alloggi.
Si direbbe significativo che nel 2014 l’arcivescovo Nosiglia abbia voluto una notte di “movida spirituale”, cioè una riunione di preghiera notturna con i giovani, nella chiesa di via Saluzzo, sostenendo che tutto quel chiasso fosse un grido d’allarme di persone sole.
All’interno del quadro cittadino, la zona è stata orientata a una funzione di consumo e intrattenimento. Ma se il territorio è di chi lo abita, prima che di chi lo frequenta, queste categorie non si sovrappongono felicemente alla condizione abitativa. Perché vivere nel cuore della movida significa sentire i suoi battiti anche quando magari non si vorrebbe. Ovviamente questo riguarda solo chi può restare, chi non è tagliato fuori.
Nel discorso pubblico la trasformazione si sposta lungo il solito percorso lessicale: dal “degrado” alla “riqualificazione”. Termini che andrebbero vagliati, ma che qui assumiamo secondo le intenzioni di chi li utilizza: dalla famigeratezza e alla coolness. E la polarizzazione che ne viene fuori è discutibile: ora che a San Salvario si esce la sera e non c’è il marchio d’infamia di un tempo, ci si vive meglio?
La gentrification vista da i diavoli:
  • Lipsia, “la nuova Berlino”
  • Roma Ovest sul filo della gentrification

NEWSLETTER


Autorizzo trattamento dati (D.Lgs.196/2003). Dichiaro di aver letto l’Informativa sulla privacy.



LEGGI ANCHE: