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MONITOR


mer 4 ottobre 2017

LA CRISI DEI ROHINGYA NON È SOLO UNA QUESTIONE RELIGIOSA

Dietro all'emergenza umanitaria e alle sistematiche persecuzioni subite dalla comunità Rohingya c'è la spartizione di interessi legata al land grabbing e allo sfruttamento delle risorse naturali. È un processo in corso da decenni e che coinvolge direttamente la giunta militare birmana e, tra gli altri, i governi di Cina e India, pronti ad approfittare dell’apertura economica del Myanmar democratico all’ombra della rappresaglia governativa contro la minoranza etnica a maggioranza musulmana.

Dal mese di agosto centinaia di migliaia di Rohingya, minoranza etnica a maggioranza musulmana, sono in fuga dallo stato Rakhine del Myanmar e dalle truppe dell’esercito regolare birmano. Ufficialmente, le forze dell’ordine di Naypyidaw sono intervenute nel Rakhine in seguito a un attacco simultaneo di diversi posti di polizia messo in atto dalla Arakhan Rohingya Salvation Army (ARSA), gruppo armato di etnia Rohingya considerato dal governo centrale alla stregua di una cellula terroristica. ARSA, per contro, ritiene le proprie azioni necessarie per difendere il proprio popolo dalle violenze perpetrate dall’esercito.

I numeri di un’emergenza umanitaria

Al momento sono oltre mezzo milione i rifugiati Rohingya accampati appena oltre il confine col Bangladesh, in un’emergenza umanitaria che rischia di trasformarsi in catastrofe sanitaria. Nei campi d’emergenza ci sono almeno 145mila bambini di età inferiore a 5 anni «a rischio malnutrizione»; uno su dieci, secondo le Nazioni Unite, rischia letteralmente di morire di fame: la preparazione e distribuzione del cibo è affidata esclusivamente al personale di organizzazioni caritatevoli – governative e non – e fatica a soddisfare mezzo milione di persone al giorno.
Ma dietro alla crisi umanitaria, lontano dai riflettori della stampa mainstream, le sistematiche persecuzioni subite dalla comunità Rohingya appaiono quantomeno funzionali, se non effetto diretto, della spartizione di interessi legata allo sfruttamento dei terreni e delle risorse naturali nello stato Rakhine. Un processo in corso da decenni e che coinvolge direttamente la giunta militare birmana e, tra gli altri, i governi di Cina e India, pronti ad approfittare dell’apertura economica del Myanmar democratico all’ombra della rappresaglia governativa contro la minoranza etnica a maggioranza musulmana.

Le discriminazioni legali su base etnica

La cosiddetta «emergenza Rohingya», col passare degli anni, appare una dicitura decisamente fuorviante, nel suo implicito carattere di eccezionalità. Le discriminazioni contro l’etnia a maggioranza musulmana da parte dell’establishment birmano, a maggioranza buddhista, sono norma profondamente consolidata nelle istituzioni statali, tradotte in prescrizioni legali che limitano enormemente le libertà personali e i diritti dei Rohingya.

In uno speciale pubblicato dal Council on Foreign Relations, si legge: «Il governo del Myanmar ha efficacemente istituzionalizzato la discriminazione contro il gruppo etnico attraverso restrizioni circa matrimonio, pianificazione familiare, impiego, educazione, libertà di culto e di movimento». I Rohingya, attraverso operazioni dell’esercito denunciate dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani e dalle stesse Nazioni Unite come «pulizia etnica», sono di fatto vittime di un’evacuazione forzata dello stato Rakhine, l’area più povera di tutto il Myanmar.

Una migrazione di massa che, a livello internazionale, è stata immediatamente inserita nel novero delle «tensioni su base religiosa» nell’area, puntando il dito in particolare contro l’inazione di Aung San Suu Kyi. La de facto leader del nuovo Myanmar democratico nato dalle elezioni libere condotte nel 2015 in accordo con la giunta militare – esercizio democratico cui i Rohingya non poterono partecipare, non essendo riconosciuti come «minoranza etnica ufficiale» e quindi «stateless» senza diritto di voto – in questi anni ha brillato per il sostanziale silenzio, alternato a commenti controversi, circa la mattanza del Rakhine. E da più parti si è parlato di «islamofobia», annoverando The Lady nelle fila di chi odia i Rohingya proprio in quanto musulmani.

Un quadro che potrebbe spiegare il sentimento popolare birmano – e un certo imbarazzo internazionale nello sposare apertamente la causa di un popolo di fede musulmana – ma che restituisce solo in parte il contesto in cui l’offensiva contro i Rohingya si è acuita di pari passo con l’apertura dell’economia birmana, reduce da decenni di isolamento sotto dittatura militare, interrotta dalle riforme economiche del 2011.

“Land grabbing” e interessi economico-militari

All’inizio del 2017, dalle pagine del Guardian, Saskia Sassen – professoressa di sociologia presso la Columbia University – aveva provato ad allargare il campo visivo sul caso Rohingya, mettendo in fila una serie di coincidenze temporali suggestive. Individuando nel 2012 l’inaugurazione di una stagione di persecuzione etnica condotta su «nuovi livelli di violenza» che portò alla fuga di centinaia di migliaia di Rohingya dalle proprie case, Sassen nota:
«Nel caso del Myanmar, dagli inizi degli anni Novanta i militari hanno preso il controllo di vaste porzioni di terreno tolto a piccoli proprietari terrieri, senza alcun compenso, minacciando ripercussioni in caso di resistenza. Questo “land grabbing” è proseguito nei decenni, espandendosi enormemente negli ultimi anni. Al momento degli attacchi [contro i Rohingya] del 2012, le terre destinate a grandi opere erano aumentate del 170 per cento dal 2010 al 2013. Entro il 2012, la legge sulla compravendita di terreni era stata modificata, favorendo le acquisizioni da parte di grandi gruppi industriali».
Chiedendosi se le persecuzioni ai danni di Rohingya e di altre minoranze non siano motivati anche da interessi economico-militari, Sassen evidenzia:
«Recentemente, il governo ha destinato 1,268,077 ettari di terreno nelle aree dei Rohingya a progetti di per lo sviluppo rurale; si tratta di un bel salto rispetto alla prima allocazione di terreni simile che, nel 2012, interessava solo 7000 ettari».
Più recentemente, in un articolo pubblicato su The Conversation, firmato da Giuseppe Forino, Jason von Meding e Thomas Johnson – tutti accademici della University of Newcastle specializzati in disaster management and reduction – le violenze in corso nello stato Rakhine sono state inserite nell’intreccio di interessi geopolitici che in Myanmar vedono confrontarsi le due potenze asiatiche Cina e India.
«Nello stato Rakhine gli interessi cinesi e indiani sono parte delle più ampie relazioni sino-indiane. Questi interessi si concentrano principalmente attorno alla costruzione di infrastrutture e oleodotti nella regione. Progetti che garantiscono impiego, imposte di transito e ricavi dalla produzione di olio e gas naturale per tutto il Myanmar. Tra i vari progetti di sviluppo, un oleodotto transnazionale realizzato dalla China National Petroleum Company (CNPC) che collega Sittwe, capitale del Rakhine, a Kunming, in Cina, è entrato in funzione nel settembre del 2013. Gli ulteriori sforzi per trasportare dal Myanmar petrolio e gas dal giacimento di Shwe e portarli a Guangzhou, Cina, sono ben documentati» spiegano Forino, von Meding e Johnson, mentre da parte indiana «il porto di Sittwe è stato finanziato e realizzato dall’India come parte del Kaladan Multi-modal Transit Project. L’obiettivo: collegare lo stato nordorientale del Mizoram, India, con la Baia del Bengala».
Una mappa di interessi che spiega meglio le posizioni equivoche prese da Pechino e New Delhi rispetto al massacro Rohingya.

Le espulsioni collettive e i sospetti di “terrorismo” 

Lo scorso 28 settembre sono arrivati in Bangladesh 150 tonnellate di aiuti, comprese 2000 tende e 3000 coperte, carico inviato dal governo cinese a sostegno «dei rifugiati recentemente riversatisi in Bangladesh». Nei diversi comunicati diffusi dal governo cinese in questi mesi non si fa mai riferimento esplicito ai Rohingya, preferendo appelli alla comunità internazionale perché «sostenga e aiuti il governo del Myanmar» di fronte alle difficoltà e alle sfide.

New Delhi, nel frattempo, mentre promette l’invio di 700 tonnellate di aiuti umanitari in Bangladesh destinati ai rifugiati Rohingya, da mesi mantiene l’urgenza di espellere dal proprio territorio tutti i rifugiati Rohingya, bollandoli come «immigrati clandestini». Si tratta di almeno 40mila persone, di cui 16mila registrati dall’agenzia per i rifugiati dell’Onu (UNHCR) come persone in fuga da pogrom: soggetti che la Convenzione dell’UNHCR del 1951 obbliga a tutelare e proibisce di rispedire nel proprio paese.

Il governo indiano, denunciando il rischio di contatti tra i Rohingya e il «terrorismo islamico internazionale» – asserzione non supportata da alcuna prova – ha ricordato alla comunità internazionale di non essere firmatario né della Convenzione UNHCR del 1951 né dei suoi protocolli del 1967, ritenendosi quindi esentato dagli obblighi internazionali in materia di diritti umani. L’istanza del rimpatrio è al momento al vaglio della Corte suprema indiana.

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