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MONITOR


lun 5 febbraio 2018

IL REVIVAL DELLE ULTRA DESTRE EUROPEE

All’alba del 2018, dopo anni di pericolo annunciato e minaccia incombente delle ultra destre europee, è arrivato il momento di uscire dalla retorica dell’emergenza e fare i conti – salatissimi – con un fenomeno di inquietante revival che nel 2017 ha vissuto la propria definitiva cristallizzazione nel discorso politico contemporaneo.

All’alba del 2018, dopo anni di pericolo annunciato e minaccia incombente dell’ultradestra europea, è arrivato il momento di uscire dalla retorica dell’emergenza e fare i conti – salatissimi – con un fenomeno che nel 2017 ha vissuto la propria definitiva cristallizzazione nel discorso politico contemporaneo.
L’emergenza della xenofobia neo-sovranista ha compiuto con successo una parabola di emersione in gran parte dell’Unione Europea, bruciando a ritmi serrati tutte le tappe necessarie a imporsi come variabile imprescindibile nell’aritmetica elettorale continentale.
Galvanizzati dall’ascesa di Donald Trump negli Stati Uniti e dall’harakiri Brexit, già nel gennaio 2017 i principali leader della costellazione identitaria europea si erano riuniti a Koblenz, Germania, sotto l’ombrello di Europe Nations for Freedom (Epf).
Il più piccolo gruppo del parlamento europeo, ha mostrato plasticamente un’unità di intenti e tematiche capace di trascendere i rispettivi confini nazionali.
Frauke Petry (Alternative Für Deutschland, Afd), Marine Le Pen (Front National), Geert Wilders (Partito della Libertà, Pvv) e Matteo Salvini (Lega Nord): euroscettici, xenofobi, anti-islamici, ultranazionalisti identitari, dalla Germania locomotiva dell’Unione promettevano un anno di «rinascita» dei popoli europei. Le Pen, letteralmente, dal palco di Koblenz arringava: «Nel 2016 il mondo anglosassone si è svegliato. Il 2017, ne sono certa, sarà l’anno della sollevazione dei popoli del continente [europeo]».
Pronostico abbondantemente confermato dal calendario elettorale europeo che, seppur negando vittorie assolute, ha accordato alle ultradestre europee successi fino a qualche anno fa nemmeno lontanamente immaginabili. Sui diavoli ne avevamo tracciato una mappatura, cercando di centrare sfumature e punti di convergenza tra le varie formazioni e i rispettivi leader.
A marzo il Pvv di Wilders si afferma come secondo partito nazionale nei Paesi Bassi, mentre in Ungheria Janos Ader, membro del partito conservatore Fidesz, veniva rieletto per un secondo mandato da presidente, allineandosi all’ala più estremista del proprio partito, guidata dal primo ministro ungherese Viktor Orban.

A maggio Le Pen porta al ballottaggio il Front National, rinnovandone una mai del tutto sepolta persistenza storica; alla fine la spunta Emmanuel Macro, ma l’ultradestra francese raccoglie più di dieci milioni di voti.

A settembre Alternative Für Deutschland, sotto la guida di Alice Wiedel, in Germania è il terzo partito nazionale; a ottobre Andrej Babiš, col suo partito anti-islamico ed euroscettico Ano 2011, si aggiudica 78 seggi su 200 alle parlamentarie della Repubblica Ceca; mentre in Austria la campagna elettorale è stata efficacemente spinta sul terreno dell’ultranazionalismo dal Partito della Libertà (Fpö) del sovranista Heinze Christian Strache, finito poco dietro ai popolari del giovanissimo Sebastian Kurz (abile nello sfilare a Fpö il tema dell’identitarismo nel rush elettorale finale).
Escludendo Austria e Polonia, dove la supremazia dell’agenda intollerante della destra ha assunto dimensioni incontestabili, nel resto del continente il mancato raggiungimento di una maggioranza parlamentare della marea nera sembra dare ancora adito a ridimensionamenti naif di una tendenza ormai, invece, ben consolidata.
Come scrivevamo ad aprile «è del tutto evidente che un popolo, senza punti di riferimento, sta cercando risposte “semplici” per analizzare tempi complicati ma non privi di interesse».

Si è compiuto, definitivamente, il deragliamento di un discorso pubblico e politico incapace di affrontare la miscela esplosiva di una crisi economica durissima, flussi migratori inediti nella storia recente del vecchio continente, una minaccia terroristica mai così letale e scenografica entro i confini europei.
Tallonato dalle scadenze elettorali, ed effettivamente assediato dal «malcontento del cittadino» declinato in forme più o meno intolleranti, l’intero ecosistema politico continentale non ha saputo offrire un’alternativa più rassicurante e promettente di un ripiego senza sconti alla peggior retorica degli stati-nazione.
Dalla gestione vergognosa dei fenomeni migratori, appaltati alle angherie disumane di Turchia e Libia per portare la tragedia quanto più lontano possibile dagli occhi dell’elettore, al vuoto pneumatico di misure all’altezza della crisi economica continentale, hanno spianato la strada a una retorica della semplificazione su base identitaria.
Un complesso da assedio socio-culturale per cui presidiare il forte, tenere la posizione mentre all’orizzonte incombe l’«altro»   ̶  l’immigrato, il musulmano, la Banca Centrale Europea, i poteri forti, il dumping cinese   ̶  diventa una chiamata alle armi dal forte appeal eroico.
Chi sputa veleno anti-islamico «ha il coraggio di dire le cose come stanno»; chi ripiega sulle radici giudaico-cristiane, quando le chiese si stanno svuotando come mai in passato e non per un travaso di fedeltà nelle moschee, «difende le tradizioni del nostro popolo».

Senza più uno spiraglio lasciato all’analisi delle complessità e in mancanza di un immaginario concorrente al rigurgito patriottico, la ricetta del populismo nero nel 2017 ha già sfondato gli argini del mainstream e, nel 2018, è pronta a influenzare decisivamente le cancellerie di mezza Europa, forte di un sostegno popolare in espansione.

L’ultradestra europea non è più una minaccia. È realtà.

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