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MONITOR


mer 14 settembre 2016

A CHE PUNTO È LA SPAGNA?

È senza un nuovo governo da nove mesi. Dopo due elezioni inconcludenti, rischia di tornare alle urne a Natale: sarebbe la terza volta in un anno. Le regionali basche e galiziane potrebbero sbloccare lo stallo. Mentre l’Europa resta a guardare, il bipartitismo spagnolo è in coma da un pezzo e l’impatto della crisi istituzionale potrebbe farsi sentire, nonostante i dati sulla crescita (finora) incoraggianti. Intanto il 43.9% dei giovani è senza lavoro. La fine dell’austerity è vicina?

Nei principali Paesi europei, i referenti politici di comprovata fedeltà atlantica sono in crisi di consenso. L’Europa può cedere al caos, mentre tramonta la “governabilità” come modello centrista impostato sull’austerity e sulla paura. Il mancato accordo tra popolari e socialisti a Madrid per la composizione del nuovo esecutivo è forse il segnale più preoccupante di questa tendenza. Da La morte clinica dell’Europa. Il Tredicesimo piano.
Se il Belgio è stato 589 giorni senza un governo eletto, da nove mesi la Spagna è in un pantano politico simile. Dopo due elezioni inconcludenti (a dicembre e a giugno), non ha un nuovo governo e rischia di andare a votare per la terza volta – episodio senza precedenti nell’Europa democratica dal 1945. Il Parlamento è paralizzato. Se entro il 31 ottobre i partiti non si metteranno d’accordo, il giorno di Natale gli spagnoli saranno chiamati alle urne. Il premier Mariano Rajoy del Partido Popular, in questi mesi incaricato di sbrigare solo gli affari correnti, finora ha ottenuto 137 seggi su 350 (quindi niente maggioranza assoluta) e da solo non può governare. Dal 20 dicembre, scrive El Confidencial, sarebbe stato approvato solo un decreto legge: «L’attuale governo è il meno attivo degli ultimi vent’anni». L’Unione europea, per ora, resta a guardare. Il 15 ottobre Madrid dovrà presentare a Bruxelles il bilancio e il tetto di spesa per il 2017, visto che a luglio la Commissione europea aveva evitato la multa per l’eccessivo disavanzo e il Consiglio d’Europa aveva esortato a ridurre il deficit al 4,6% del Pil entro quest’anno. La Spagna è la quarta economia d’Europa, dopo Germania, Francia e Italia. Al momento ci sono 5 milioni di disoccupati e, secondo i dati Eurostat, aggiornati a luglio 2016, il 43.9% dei giovani spagnoli è senza lavoro.

L’ultimo fallimento

Il 31 agosto e il 2 settembre sono andati a vuoto due tentativi di investitura di Rajoy quale nuovo premier. Il Congresso dei deputati di Madrid gli ha negato la fiducia: la seconda volta con 170 voti a favore e 180 contrari. Se solo undici parlamentari si fossero astenuti (non serviva la maggioranza assoluta), Rajoy ce l’avrebbe fatta. I socialisti del PSOE (Partido Socialista Obrero Español) si sono messi di traverso e hanno bloccato la nomina. Sono sessanta i giorni di tempo per trovare un candidato alternativo, altrimenti il re Felipe IV potrà sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni.

Come uscire dal limbo

Il 25 settembre sono in programma le elezioni regionali basche e galiziane ed è molto probabile che i partiti aspetteranno l’esito del voto per sbloccare la situazione. I sondaggi d’inizio mese danno Rajoy come possibile vincitore e il PSOE grande sconfitto (potrebbe perdere 8 degli attuali 16 seggi al Parlamento di Vitoria). Il Partito nazionalista basco (PNV), con i suoi cinque seggi, potrebbe spostare gli equilibri al Parlamento nazionale a vantaggio del premier uscente. Se così fosse, e qualora i socialisti guidati da Pedro Sánchez decidessero di fermare il loro ostruzionismo astenendosi dal voto (ipotesi improbabile al momento), l’impasse potrebbe essere superato in favore di Rajoy.
Ma la Spagna di oggi è molto di più di due partiti e un governo da formare. È proprio nel sistema bipolare del Paese (attualmente in crisi) che ha origine lo stallo politico che Madrid vive dal dicembre 2015.

Il bipartitismo è in coma: questo è il problema (o la risorsa)

Era il 1977, la Spagna andava a votare alle prime elezioni democratiche. Dopo oltre quarant’anni di dittatura franchista, il Paese sceglieva l’Unión de Centro Democrático di Adolfo Suarez. All’opposizione c’era il Partido Socialista Obrero Español (PSOE) di Felipe González. Due grandi partiti si contendevano la scena. Dal 1989 in poi l’alternativa al PSOE veniva incarnata dal Partido Popular di José Maria Aznar. È lunga la storia del sistema bipartitico spagnolo, che domina la politica da quasi quarant’anni. Adesso, però, quel modello è in coma. La crisi, gli scandali legati alla corruzione, il desiderio di cambiamento hanno infatti portato due nuove formazioni politiche: Podemos, a sinistra, e Ciudadanos al centro-destra. Con quattro partiti, specialmente in un Paese che deve abituarsi a questa realtà, la ricerca di nuove coalizioni ed equilibri richiede tempo.

Le opzioni possibili

Albert Rivera, leader dei liberali di Ciudadanos, aveva aperto i negoziati con il Partido Popular per la formazione di un governo già da mesi. Il suo partito, alle ultime elezioni, si è aggiudicato 32 seggi che potrebbero fare comodo a Rajoy. Il problema è che i ripetuti scandali nel Pp sono diventati degli ostacoli praticamente insormontabili. La condizione di Rivera per un’alleanza è la seguente: un piano di riforme anti-corruzione, altrimenti non se ne fa nulla. I conservatori e i liberali accusano il socialista Sánchez di opporre resistenza a oltranza e di essere il responsabile del pantano politico in cui è scivolato il Paese (senza contare l’opposizione interna). La situazione appare, però, parecchio più complessa. Se è vero che il leader socialista si è opposto all’idea di una Gran Coalicion con il PP ventilata da Rajoy, il PSOE (che ha 85 seggi contro 137 del Pp) potrebbe proporre Sánchez come premier e cercare consensi altrove. Potrebbe allearsi con Podemos, insieme a indipendentisti e a Ciudadanos. L’ipotesi è, però, improbabile, viste le posizioni politiche antagoniste dei due partiti coinvolti (uno a sinistra e l’altro liberale), e la reticenza di una parte di Podemos all’alleanza con i socialisti. «Nessun partito decente potrebbe allearsi con il Pp», dicono da Podemos. Qualora Sánchez si proponesse come alternativa a Rajoy, il PSOE, insieme alla coalizione Unidos Podemos(Podemos, Izquierda Unida, Equo), potrebbero ottenere 156 seggi. Senza l’appoggio di Ciudadanos, sarebbero quindi fondamentali i voti dei Baschi e dei Catalani (le cui spinte indipendentiste sono difficili da digerire per molti nel PSOE). In ogni caso, fino alle elezioni basche e galiziane, all’opposizione farebbe comodo riuscire a spostare la data dell’eventuale voto di dicembre dal giorno di Natale al 18, in modo che alle urne non vadano solo i più anziani (notoriamente più vicini ai conservatori). In base alla matematica politica, a Rajoy converrebbe andare di nuovo alle urne, nonostante «gli scandali che limitano le possibilità di governare al PP», come scrive El Pais. I conservatori, però, potrebbero anche sacrificare il premier uscente pur di vincere. Per ora la guerra intestina tra partiti, fatta di veti incrociati a possibili coalizioni, peggiora lo scenario.

Visti da Bruxelles

Prima di incassare l’ennesima bocciatura del parlamento alla sua investitura, il 2 settembre scorso, Rajoy invitava a non fare diventare la Spagna lo «zimbello d’Europa». Avvertiva che l’economia avrebbe potuto risentire della situazione istituzionale. «La Spagna ha bisogno di un governo efficace, e ne ha bisogno con urgenza», diceva prima di sottoporsi al voto. E ancora, riferendosi all’ipotesi di un governo PSOE-Podemos, usava l’arcinota retorica della dicotomia tra moderato e radicale: «La mia proposta rappresenta l’unica reale possibilità per la Spagna di avere un governo moderato, e non un’avventura radicale nell’incertezza e nell’inefficienza». Intanto Bruxelles restava a guardare, perché l’interesse dei tecnocrati dell’Unione europea è che la Spagna faccia le riforme: ovvero tagli e austerity. In quest’ottica, un governo dei conservatori darebbe maggiori garanzie rispetto a un esecutivo socialista. Subito dopo aver subito lo smacco al Congreso de los Diputados, il governo uscente di Rajoy aveva fatto sapere all’Ue che non sarebbe riuscito a rispettare le richieste di Bruxelles riguardo a un piano con le nuove misure da approvare entro metà ottobre: «Molto difficile, quasi impossibile». Il messaggio arrivava durante il G20 tramite il ministro dell’Economia Luis de Guindos, a Pierre Moscovici, Commissario Ue per gli affari economici. Adesso, secondo quanto scrive Euractiv, i funzionari europei sarebbero orientati a dare più tempo a Madrid e dal 15 ottobre si slitterebbe a dicembre. D’altronde, senza un governo, Madrid come potrebbe tagliare il suo deficit dal 5,1% del Pil nel 2015 al 3,1% nel 2017?

L’impatto economico della crisi istituzionale

Se per Moody’s la crisi istituzionale ha un effetto negativo, secondo il Financial Times anche senza governo l’economia spagnola andrebbe a gonfie vele. Rajoy sostiene che dal 2011 al 2015 il suo governo ha fatto tutte le riforme chieste dall’Europa per fare tornare il Paese a crescere: leggi del lavoro più flessibili e abbassamento del costo del lavoro. Stando ai dati snocciolati da Bloomberg, «gli investimenti sono saliti del 2,2% nel secondo trimestre del 2016, le esportazioni del 4,3%. Nel complesso l’economia è cresciuta dello 0,8%, con 484.000 posti di lavoro a tempo pieno in più rispetto al 2015». È davvero tutto merito del governo? C’è di più. L’economia spagnola ha beneficiato anche «degli stimoli della Banca centrale europea» e del ribasso dei prezzi del petrolio. Tra questi numeri apparentemente entusiasmanti restano quelli della disoccupazione giovanile, ancora troppo alti e del debito al 99.2% del Pil nel 2015. Secondo quanto spiega qui l’economista Jorge Uxó dell’Universidad Castilla La Mancha: «L’economia comincia a registrare una decelerazione della crescita. Un Paese può vivere senza un cattivo governo, ma non senza un buon governo. La ripresa è basata su pilastri molto fragili. Può mantenersi per inerzia per un certo tempo, ma per un altro modello di sviluppo è necessario un governo che prenda decisioni diverse da quelle degli ultimi anni. L’Unione europea non sta facendo pressioni perché ci sia un governo qualunque, ma perché ci sia un governo che adotti le misure che si stanno dettando da Bruxelles».
Dunque, la domanda cruciale da porsi è la seguente (come recita il titolo di un paper di Uxó): «La fine dell’austerità fiscale in Spagna è possibile?».
Dalla penisola iberica alla Polonia, da Dublino all’Ungheria, emergono soggetti che –  sulle ali estreme dello schieramento – scelgono di sostenere rivendicazioni universali di equità e convivenza o, all’inverso, chiusure nazionaliste e identitarie. Di conseguenza è legittimo presagire la fine prossima del modello politico incardinato sulle grandi coalizioni e sulla terzietà: quello che alcuni hanno chiamato «estremismo di centro», piano inclinato lungo il quale sono scivolati – fino a convergere – conservatori e socialisti. Da La morte clinica dell’Europa. Il Tredicesimo piano.

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