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MONITOR


lun 29 maggio 2017

POTERE BIANCONERO: COME LA JUVENTUS PRIMEGGIA

Un viaggio attraverso il dominio del club piemontese in Serie A. Perché la Juventus è così forte e su cosa ha costruito il suo impero. È sicuramente una delle squadre più forti in circolazione, frutto di una sapiente programmazione tecnica e societaria. Ma il calcio non è mai stato una questione di terzini e sovrapposizioni. Fin dagli albori, nel diciannovesimo secolo, il gioco del pallone è stato una delle più importanti industrie culturali d’Occidente. Il calcio è potere.

La Juventus vince il sesto scudetto consecutivo e a raggiunge la seconda finale di Champions League in tre anni grazie a una serie di componenti. La squadra, Paulo Dybala e Leonardo Bonucci, Dani Alves e Mario Mandzukic su tutti; il tecnico toscano Massimiliano Allegri e il suo staff; i dirigenti Beppe Marotta e Fabio Paratici; il presidente Andrea Agnelli, nonostante le presunte responsabilità nella cogestione della curva con le ‘ndrine, affare di cui si stanno occupando magistratura ordinaria e Commissione parlamentare antimafia.
La Juve attuale è sicuramente una delle squadre più forti in circolazione, frutto di una sapiente programmazione tecnica e societaria. Ma il calcio non è mai stato una questione di terzini e sovrapposizioni. Fin dagli albori, nel diciannovesimo secolo, il gioco del pallone è stato una delle più importanti industrie culturali d’Occidente. Il calcio è potere.
La Fifa ha chiuso il bilancio quadriennale 2011-2014 con un fatturato di oltre 5 miliardi (1 miliardo in più del precedente 2007-10) e riserve per 1,5. I cinque grandi campionati europei – Premier League, Liga, Bundesliga, Serie A, Ligue 1 – hanno un fatturato complessivo che supera i 15 miliardi di euro l’anno.
Il gioco del pallone, prima ancora che un argomento tecnico, è una questione economica. Forse Stefano Sturaro è un campione. Ma come disse James Carville, “It’s the economy, stupid”.

Il calcio nasce moderno, e attraversa la contemporaneità, spesso anticipandola.

E nel nuovo millennio, ha abbandonato la dimensione del capitalismo industriale per abbracciare il mondo dei mercati finanziari – club quotati in borsa, proprietà nei paradisi fiscali, gestione del brand in newco separate dalla proprietà dalla squadra, acquisti a credito tramite leveraged buyout, rifinanziamento del debito, e così via.
Il dominio juventino in Serie A si inserisce perfettamente in questo contesto.
E va oltre.
Come vedremo, tutta una serie di facilitazioni che sono state offerte al club piemontese hanno permesso alla Juventus di primeggiare in Italia. Ma allo stesso tempo, eliminando la concorrenza e impoverendo drasticamente il livello medio del calcio italiano, impediscono ai bianconeri di competere a pari livello con i suoi omologhi europei. Indipendentemente dal fatto che il 3 giugno vinca o meno la finale di Champions League a Cardiff contro il Real Madrid.
Nella Top 10 Revenue di Deloitte della stagione 2015-16, la Juventus si trova al decimo posto. Dietro Manchester United (689 milioni), Real e Barcellona (620), ma anche dietro il Liverpool (403) che non vince in patria da 25 anni e in Europa da più di dieci.
Va molto peggio alle altre, il Napoli (sempre secondo o terzo in Serie A) fattura meno del Sunderland (zona retrocessione in Inghilterra), la Roma e il Milan dello Schalke 04 (che primeggiava nel campionato tedesco negli anni Trenta).
E così, quando a Beppe Marotta è stato chiesto, all’indomani della vittoria sul Crotone che ha certificato il sesto scudetto di fila, se oggi la Juventus era in grado di acquistare uno di quei top player che si contendono Premier, Liga e Bundesliga, il direttore generale ha dovuto ammettere: no, noi giochiamo in un altro campionato.
Questo è il paradosso della gestione del calcio italiano, dove tutto concorre a fare della Juve la più bella di un reame sventurato che, per splendere, deve distruggere.
Il bilancio della scorsa stagione della Juventus Football Club S.p.A., approvato al 30 giugno 2016, annuncia ricavi per 387,9 milioni e risultato di esercizio di 4,1 milioni (solo i costi operativi sono di 300,1 milioni).
Tralasciando l’indebitamento finanziario netto di 199,4 milioni, è un risultato eccellente. Se si pensa che quando Andrea Agnelli arriva alla guida del club nella stagione 2011-12, con la squadra reduce da Calciopoli, la Serie B e due settimi posti consecutivi in Serie A, il bilancio di esercizio racconta di ricavi per 195 milioni e perdite per 95 milioni.
Tornando ad analizzare quello della stagione 2015-16 si vede che, togliendo dai 387,9 milioni la gestione del parco calciatori (plusvalenze, minusvalenze, incasso e costo dei prestiti) e la vendita dei terreni della Continassa al fondo immobiliare J-Village – una questione dirimente, che tra poco approfondiremo – il totale dei ricavi caratteristici sfiora i 340 milioni: di cui 185,7 provengono dai diritti tv, 98,8 da sponsor, marketing e merchandising, 47 dal matchday (i ricavi da stadio), 24,9 da altro.

L'allenatore Massimiliano Allegri

Il primo punto: lo stadio di proprietà.

L’8 settembre 2011 Andrea Agnelli siede in tribuna d’onore per l’amichevole contro il Notts County che celebra l’inaugurazione dello Juventus Stadium: il primo di proprietà di una squadra italiana. È una festa.
Il progetto riceve la delibera del cda di Juventus Football Club S.p.A. nel 2008, quando il club è amministrato dal francese Jean-Claude Blanc, la presidenza Giovanni Cobolli Gigli, la proprietà sempre della famiglia Agnelli – tramite IFI, poi dal 2009 tramite l’azienda Italiana di diritto olandese Exor N.V. che detiene il 63,77% delle quote.
Lo Juventus Stadium è costruito a seguito della demolizione dello Stadio Delle Alpi: una delle peggiori cattedrali nel deserto della speculazione edilizia italiana, simbolo della stagione degli appalti d’oro e dello scandalo dei Mondiali di Italia ’90.
Se in generale opere pubbliche e infrastrutture (anche quelle mai terminate) per Italia ’90 subiscono un rialzo medio dell’84% rispetto ai preventivi iniziali, per una spesa complessiva di 7mila miliardi di vecchie lire (7 miliardi di euro al cambio attuale, calcolando l’inflazione), l’inutile e immensa colata di cemento nell’area della Continassa di Torino arriva da sola a costare 226 miliardi delle vecchie lire, con un rialzo di spesa del 214% rispetto alle previsioni iniziali.
La Juventus acquista dal Comune di Torino nel 2002 il diritto di sfruttare i terreni della Continassa dove sorge il Delle Alpi per 99 anni al prezzo di 25 milioni di euro. E grazie a una variante del piano regolatore ottiene il permesso di costruire un nuovo stadio e una serie di esercizi commerciali. Oltre a poter sfruttare il terreno adiacente.
Pagare 25 milioni qualcosa che, sempre tenendo conto dell’inflazione, è costato oltre 500 milioni solo dieci anni prima è già un ottimo affare. Ma non è finita qui.
Grazie ai mutui del Credito Sportivo, alla copertura finanziaria data dai futuri incassi e “proventi derivanti dalla cessione delle aree commerciali adiacenti”, il club bianconero può abbattere il derelitto Delle Alpi e costruire lo Juventus Stadium.
Questo prospetto della Juventus Football Club Spa è datato 14 maggio 2010. Un mese dopo, l’11 giugno 2010, il Comune di Torino e la Juventus firmano un accordo per la cessione dei terreni adiacenti lo stadio, comunemente detti i terreni della Continassa: una superficie edificabile di 350 mila metri quadrati al prezzo simbolico di 1 milione di euro.

Un affare colossale.

E se è vero che il 17 luglio 2012 il prezzo sale a 10,5 milioni e l’ampiezza dell’area data in concessione esclusiva alla Juventus cambia, il risultato finale del 12 settembre 2013 è di un accordo per la cessione per 99 anni dello sfruttamento a fini commerciali di un’area di 180mila metri quadrati – di cui 33mila edificabili – al prezzo di 65 al metro quadrato, a fronte di prezzi di mercato sui 400 euro al metro quadrato.
Sempre un affare colossale.
Contestualmente, è concesso alla Juventus il rinnovo a “zero euro” del diritto di superficie concesso nel 2009 per il nuovo stadio. Qui siamo oltre gli affari colossali.
La Juventus può così fare valutare da un perito indipendente l’area edificabile della Continassa a 24,1 milioni, e contando i 14 milioni spesi (11,5 per i terreni e 2,5 per la progettazione) cederla al fondo J Village con una plusvalenza di 10 milioni (come abbiamo visto sopra, nel bilancio 2015-16). Il fondo J Village – gestito da Accademia Sgr, ha tra i finanziatori oltre alla Juventus anche Ubi Banca e UniCredit – può così costruire centro di allenamento, hotel, parchi, centrale per l’energia e via dicendo. E può costruirli su terreni acquistati a bassissimo prezzo (oltre alla plusvalenza secca da 10 milioni per la Juve), per cui il Comune di Torino si è anche prodigato ad abbattere la vecchia cascina e a sgomberare un parco nomadi.
Sgombero avvenuto dopo che, casualmente, una manifestazione di neofascisti e ultras juventini travestiti da “cittadini indignati” dà fuoco al campo al grido di “zingari di merda” usando come scusa per il pogrom etnico – e la ripulitura dell’area in funzione della sua edificabilità – un finto stupro mai avvenuto.
Dai 31,8 milioni incassati per la stagione 2011/12 dallo stadio, la Juventus arriva oggi a iscriverne a bilancio 45-50 ogni anno. A confronto l’Inter da San Siro incassa circa 20 milioni l’anno, il Milan 15. Le altre molto, molto di meno. E se alcune società nei ricavi da stadio includono i proventi dei bonus Uefa (come la Roma), la Juventus si tiene invece bassa cercando di spostare questi ricavi sotto altri voci. I 45/50 milioni annui sono quindi calcolati per difetto.
Qui si apre la prima crepa tra i ricavi disponibili per la Juventus e quelli per le altre squadre italiane. Grazie alla lungimiranza dei dirigenti bianconeri, che hanno intravisto i futuri guadagni nella costruzione di uno stadio di proprietà. E, soprattutto, grazie agli affari colossali stipulati con il Comune di Torino.
Se la politica in Italia è sempre giunta in soccorso dei vincitori – per citare Flaiano e per ricordare i cinque scudetti consecutivi della Juventus all’epoca del Fascismo, di cui il senatore Giovanni Agnelli era sostenitore, o la serie impressionante di trofei del Milan berlusconiano di lotta e di governo – questo non ha mai fatto bene al paese.
La sperequazione tra i guadagni da stadio della Juventus e delle altre squadre rende la Serie A un campionato poco competitivo e poco appetibile per gli investimenti: sponsor, merchandising, diritti tv.
E così se la Juventus saluta tutti in Italia con i suoi 45-50 milioni di ricavi da stadio, arranca in Europa: dietro i 140 milioni dell’Arsenal, i 130 di Real e Barcellona, i 110 del Manchester United, i 90 di Chelsea e Bayern Monaco. E così via.
Questa sperequazione porta la Juventus a dominare in casa per le stesse ragioni che la portano a rimanere indietro in Europa. Ragioni ancora più evidenti nel caso dei diritti tv.
In Italia la cosiddetta Legge Melandri – Decreto Legislativo 9 gennaio 2008, n. 9  – prevede una redistribuzione delle risorse decisamente poco democratica. A fronte della vendita collettiva dei diritti tv, i proventi sono così redistribuiti: 40% in parti uguali tra tutti i club di Serie A, 30% sulla base dei risultati sportivi conseguiti e 30% in base al bacino d’utenza. Del 30% del risultato sportivo, il 10% è determinato in base ai risultati conseguiti dalla stagione 1946/1947, il 15% in base ai risultati delle ultime 5 stagioni, il 5% in base all’esito dell’ultimo campionato. Del 30% del bacino d’utenza, il 25% è in base al numero di sostenitori e il 5% in base alla popolazione del comune di residenza del club.
Questo comporta che nella stagione 2015-16 la Juventus incassa dai diritti tv 103 milioni (nel bilancio sopra analizzato sono 185,7 perché ai 103 di quota italiana sono conteggiati gli introiti della Uefa per splendida stagione nella Champions League) Inter e Milan meno di 80, Carpi e Frosinone 22.
La prima riceve dalle televisioni cinque volte l’ultima.

C’è qualcosa che non va.

In Inghilterra, dove vige una ripartizione democratica (50% suddiviso tra i club, 25% per la classifica e 25% per le partite trasmesse) nella stagione 2015-16, la squadra che ha preso di più (Arsenal, 101 milioni) ha ricevuto una volta e mezza tanto l’ultima (Aston Villa, 66 milioni). Non cinque volte tanto.
In Bundesliga la legge prevede che il primo classificato debba avere due volte tanto l’ultimo, indipendentemente dai risultati del dopoguerra e dal bacino di utenza. In Spagna, dopo anni di vendita libera e dominio di Real e Barcellona, la nuova legge del 2015 prevede la vendita collettiva e una ripartizione più democratica e simile a quella tedesca.
C’è qualcosa che non va.
Se le piccole ricevono cinque volte meno della Juventus, inevitabilmente saranno costrette a comprare calciatori meno forti, o a vendere alla stessa Juve i loro migliori. Per non parlare della discrepanza negli investimenti sulle strutture di allenamento, sul settore giovanile, e così via. Il risultato è che la Serie A diventa un campionato ogni anno meno equilibrato, meno allenante, e meno appetibile. Permette sì alla Juventus di dominare, ma è una vittoria di Pirro. Alla lunga la danneggia.
Se continui a giocare con gli scarsi, diventi scarso.
Ma non è finita qui.
Dal 2008 i diritti tv sono gestiti sempre dallo stesso advisor, che vince sempre il regolare bando, anche davanti a veri e propri colossi come Rothschild, Mediobanca, Img e Sportife. Un advisor che per fare da tramite tra Lega e televisioni riceve circa 50 milioni l’anno. Curioso che questo ruolo di intermediatore altrove non esista, si pensi all’Inghilterra dove la Premier League si occupa da sola della vendita dei diritti tv, che tra l’altro rendono sette-otto volte quelli italiani.
Questo advisor è Infront Italia – sussidiaria del colosso Infront Sports & Media AG, recentemente passato per 1,2 miliardi dal fondo Bridgepoint al conglomerato cinese Wanda Group – le cui ramificazioni nel calcio italiano sono infinite: dalla gestione dell’archivio immagini di alcune squadre, alle partnership commerciali con club, Lega Serie A e Federcalcio.
Questo permette a Infront di controllare il calcio italiano, decidendo anche in buona sostanza i risultati delle elezioni di Lega e Federcalcio. E di mantenerlo povero.
Se il calcio dipende eccessivamente da una domanda alle televisioni, i prezzi dell’offerta possono essere calmierati al basso. E non solo. Questa dipendenza impedisce lo sviluppo di altre aree oggi cruciali nella gestione odierna di un club di calcio: sponsor, marketing, matchday, merchandising.

Partiamo dalla prima questione, quella della domanda/offerta.

In Inghilterra, dove un’equa distribuzione permette alle piccole squadre di acquistare grandi giocatori, l’appeal del campionato cresce esponenzialmente. E accordi a salire portano nei prossimi tre anni i club della Premier League a ottenere complessivamente dalle televisioni circa 10 miliardi: 6,5 miliardi dal nazionale, 3,5 dall’estero. Oltre 3 miliardi l’anno.
In Spagna la nuova legge consente una vendita dei diritti per il mercato interno a una cifra vicina a 1 miliardo, e per l’estero a 500 milioni. Anche in Germania siamo sui 1,5 miliardi l’anno, e sono in procinto di firmare un lucrativo accordo per la trasmissione della partite in Cina.
In Italia siamo a 1,2 miliardi l’anno, destinati a scendere data la sempre minore competitività del nostro campionato.

La seconda questione riguarda invece l’incidenza delle televisioni nei bilanci dei club.

Come abbiamo visto dal bilancio della Juventus, i diritti televisivi coprono oltre il 50% del fatturato, e raggiungono percentuali ancora più alte – fino al 65% – per i piccoli club italiani. Sempre guardando al rapporto di Deloitte si vede come, nel resto di Europa, i grandi club ricavino invece il 50% da accordi commerciali, il 20% dal match day – tutto quello che si compra allo stadio e dintorni: biglietti, magliette, birra – e solo il 30% dalle televisioni.
Una minor percentuale di ricavi dalle televisioni, dato che gli accordi dei rispettivi campionati sono molto più remunerativi, porta comunque le cifre incassate dai club di Premier, Liga e Bundesliga a essere simili, se non decisamente superiori, a quelli della Juventus.
Per fare un esempio: il Norwich retrocesso nella stagione 2015-16 di Premier League ha incassato 85,6 milioni dalle televisioni. Più di 19 squadre di Serie A. Esclusa, ovviamente, solo la Juventus.
Se a questo si aggiungono le altre voci, diventa impressionante la sperequazione, questa volta a sfavore della Juventus, con i grandi club europei.
Si può leggere la classifica The World’s Most Valuable Soccer Teams 2016, stilata da Forbes per accorgersi come alle voci match day, commercial e brand non ci sia partita tra i grandi club europei e la Juventus. E di come, soprattutto, spariscano completamente gli altri club italiani.
Ecco alcuni numeri sparsi. Sponsor tecnico: Adidas paga 158 milioni l’anno il Real Madrid e 107 il Manchester United, Puma 43 l’Arsenal, Nike 40 il Barcellona e solo 22 la Juventus, appena fuori dai dieci accordi migliori, con le altre italiane non pervenute. Stessa posizione per quello che riguarda lo sponsor principale sulla maglietta, dove la società affiliata alla casa madre Jeep con i 19 milioni che versa alla Juve è ben dietro gli 80 milioni di Chevrolet al Manchester United, i 57 di Yokohama al Chelsea o i 41 di Qatar Sports Investments al Barcellona, solo per fare alcuni esempi.
E qui il cerchio si chiude, riportandoci all’inizio: a quei fatturati che vedono la Juventus Football Club S.p.A arrancare dietro le grandi d’Europa, la Roma e Il Milan seguire lo Schalke 04, il Napoli arrivare dietro Sunderland. La squadra bianconera, grazie a tutta una serie di agevolazioni – dallo stadio ai diritti tv – che le hanno portato un indubbio vantaggio economico, ha potuto dominare agevolmente in Italia e raggiungere due finali di Champions League.
Ma il sovrano che tartassa troppo i suoi sudditi è destinato a essere rovesciato. Il suo impero a essere esondato.
“It’s the economy, stupid”.
Diceva Isaac Newton, parafrasando Bernardo di Chartres: “Se ho visto più lontano, è perché stavo sulle spalle di giganti”. Questa Juventus, a furia di volere intorno a sé nani su cui adagiarsi, rischia di sprofondare.

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