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MONITOR


lun 20 febbraio 2017

PODEMOS DOPO TUTTO

Come e perché Pablo Iglesias si è ripreso Podemos. L’analisi politica a otto giorni dal congresso di Vistalegre, dove si è consumata de facto la trasformazione di un gruppo di militanti "temporaneamente nelle istituzioni".

Pablo Iglesias si è ripreso il partito. Podemos ha tenuto.
Come un giunco, il partito si piega ma non si spezza sotto l’offensiva mediatica degli ultimi mesi. Come un giunco, la sua moltiplicazione avverrà in maniera rizomatica.
Con la vittoria di Pablo Iglesias al secondo congresso di Vistalegre (11-12 febbraio), il futuro del partito è l’immersione nei movimenti sociali, attraverso la moltiplicazione di nessi e incroci, di reticolati non gerarchici.
E non il ritorno alle origini, immaginato dallo sconfitto Íñigo Errejón, di un movimento che basta a se stesso, una struttura arborescente, capace di rivolgersi alla società civile e di accoglierla in sé, per indirizzarla all’interno di un partito strutturato come tale.

I numeri di una trasformazione

Pablo Iglesias si rirende il partito. Pablo ha vinto nella riconferma a Segretario generale con l’89% dei voti, lasciando un misero 10% al suo unico rivale Juan Moreno Yagüe.
Pablo ha vinto nelle mozioni congressuali – i quattro documenti: politico, etico, organizzativo e sull’eguaglianza di genere – dove prende tra il 50% e il 60% dei voti dei 155 mila iscritti al voto.
Pablo ha vinto soprattutto nel numero di delegati congressuali al Consejo Ciudadanos de Podemos: lì dove era in palio la vera posta, lì dove la sua mozione Podemos para todas conquista 37 delegati su 62, il 60%, lasciandone solo 26 (37%) alla mozione Recuperar la ilusión di Errejón e 2 (3%) alla terza mozione Podemos en movimiento degli Anticapitalistas.
Pablo Iglesias si ripiglia il partito. Ora il Consiglio direttivo di 12 persone, nominate, sarà saldamente nelle sue mani. Il Segretario politico Íñigo Errejón aveva deciso di non candidarsi alla presidenza, puntando tutto sui delegati congressuali: avesse ottenuto la maggioranza Iglesias si sarebbe dimesso, e per un movimento fondato sulla figura del leader carismatico sarebbe stata la fine; avesse ottenuto una sconfitta di misura, come a dicembre quando nella discussione sulle procedure di voto prese il 39% a fronte del 41% del rivale, il partito sarebbe stato rimasto spaccato in due, e per un movimento così giovane e pieno di contraddizioni sarebbe stata la fine.
Pablo Iglesias si ripiglia il partito, e al di là di ogni giudizio politico sull’esito dell’Asamblea ciudadana di Vistalegre 2, lo preserva dall’implosione e lo condensa nelle sue antinomie.

La base

A partire dalla stessa Asamblea Ciudadana, più che un congresso uno show televisivo. Fa impressione la freddezza e il distacco in cui si consuma quello che dovrebbe essere il momento fondativo del partito, e ancora di più la passività di quelli che dovrebbero essere i militanti del movimento.
Se sul palco di Vistalegre l’età media non raggiungeva i quarant’anni – Íñigo Errejón ne ha 33, Pablo Iglesias 38, Miguel Urbán 36 – sugli spalti si avvicinava tranquillamente ai cinquanta. Mancano i giovani, così come manca Podemos all’interno della società: sempre in bilico tra cavalcare proteste già in atto o incanalarle in funzione elettoralista, il partito populista si rivela etereo e leggero, Né di lotta, né di governo, semplicemente di comunicazione.
L’Asamblea Ciudadana era organizzata secondo i tempi della televisione – la palestra popolare nella quale si è formato Pablo Iglesias e a cui sin da prima delle origini Podemos dedica un team di una ventina di persona che ci lavora a tempo pieno – tanto che il discorso finale del Segretario dura solamente sette minuti.

Le origini, le fratture, i riferimenti

Sono molteplici le contraddizioni interne di Podemos. Sono sostanzialmente politiche. E da lì si riflettono sulle pareti delle relazioni personali, delle procedure formali e delle modalità comunicative. Plasmano la sua specificità, la sua peculiarità e quindi la sua inesportabilità: Podemos è un modello non replicabile. Si può studiare, analizzare, tentare di capire, ma non lo si può certo ricreare in laboratorio né tantomeno riproporre tale e quale in altri paesi. A partire dalle fondamenta: un curioso mix di teoria accademica populista e ortodossa militanza comunista.
Molto si è scritto a proposito della fascinazione bolivarista germogliata nelle aule della Universidad Complutense de Madrid, della riscoperta delle teorie populiste di Ernesto Laclau da parte dell’ala teorica del partito – Íñigo Errejón e Juan Carlos Monedero su tutti – e della sua fascinazione per la prassi gramsciana del Mas, il Movimiento al Socialismo di Evo Morales e Álvaro García Linera che dal 2006 governa la Bolivia. Poco, pochissimo è stato scritto di quanto in realtà è dall’interno di un partito marxista come Izquierda Unida che proviene la sua ala movimentista – Pablo Iglesias e Miguel Urbán – e di quanto siano ancora forti i legami personali con i militanti di questo partito. E soprattutto di quanto, a differenza dell’esperienza latinoamericana, Podemos non si è trovato nella condizione di interpellare un popolo, di significare i suoi desideri, ma si è trovato nella situazione d’intercettare un movimento già in crescita esponenziale come quello degli Indignados.
Podemos nasce nei gruppi di Izquierda Anticapitalista da cui proviene Miguel Urbán, nella federazione giovanile del Partido Comunista de España del sobborgo operaio di Vallecas da cui proviene Pablo Iglesias, financo nella Juventudes Anarquistas in cui milita un giovanissimo Íñigo Errejón, tanto quanto nelle tesi dottorali sui movimenti dell’America Latina. E questo si palesa nel desgarramiento che ha preceduto l’ultimo congresso, un dilaniamento politico prima ancora che personale.

Politica e personale: le due dimensioni di Podemos

A livello politico non si è trattato di uno scontro tra l’ala presuntamente moderata di Errejón e una presuntamente movimentista di Iglesias, ma tra due diversi modi di intendere la vocazione elettorale maggioritaria di un movimento che affonda le sue radici nelle lotte alterglobaliste dei primi anni Zero (da Seattle a Genova), nelle marce contro la guerra e nei cortei per il diritto alla casa. Uno scontro tra chi ritiene il partito come esperienza totalizzante (l’arborescenza di Errejón), che deve dialogare con la società e intraprendere una dialettica virtuosa e conflittuale con i movimenti, e chi ritiene il partito come sublimazione del movimento (il rizoma di Iglesias) che s’innesta nell’amministrazione restando immerso nelle lotte.
A livello personale questo si è tradotto in una guerra intestina per il controllo del partito che non riguarda le ambizioni personali due individui – Errejón è il primo a sapere di non avere il necessario carisma per guidare un movimento a trazione populista – ma la loro prassi.
Non due galli nel pollaio, come riportano i media abituati a considerare loro per primi la politica una questione di profitto personale, né tantomeno una guerra tra bande: piuttosto, la stessa necessità di cambiare il mondo e due vie differenti da percorrere per arrivarci.
E proprio questa ragione puramente politica porta al tentato golpedi Íñigo Errejón attraverso la chat Telegram soprannominata Jaque Pastor (un’apertura scacchistica che porta allo scacco matto in quattro mosse), al desgarramiento che obbliga al congresso anticipato, a un regolamento di conti cominciato con l’esautoramento dell’ala errejonistas dal governo municipale di Madrid e che potrà continuare nei prossimi mesi con l’addio dello sconfitto Errejón. C’è chi già lo chiede apertamente, come Juan Carlos Monedero, l’ideologo che si è fatto da parte poco prima delle elezioni dello scorso giugno e che adesso è pronto a tornare con un ruolo di primo piano: è per lui il primo abbraccio, il più lungo, quando Iglesias sale sul palco del congresso per annunciare la vittoria.

Il senso di Pablo per il popolo

Pablo Iglesias si ripiglia il partito. E Podemos abbandona la linea errejonistas decisa nel primo congresso di Vistalegre del 2014, quando si decide che, finite le grandi mobilitazioni di massa, bisogna mediare con il senso comune popolare, accettandone financo alcune sue declinazioni conservatrici (ecco perché sostituire alla dialettica destra-sinistra quella dell’alto contro il basso) per trasformare la società attraverso procedure formali fornite dalla politica parlamentare. Pablo Iglesias si ripiglia il partito.
E Podemos riconosce a questo punto che l’ordoliberismo non è solo un sistema economico ma un dispositivo normativo, e che per potervisi sottrarre bisogna coniugare la vocazione maggioritaria ed elettoralista con la spinta dei movimenti (e, dopo essersi spostati a sinistra con l’alleanza con Izquierda Unida, forse rivendicare addirittura il proprio essere di sinistra).
Illuminante, a proposito di questa trasformazione ontologica avvenuta a Vistalegre 2017, è la frase pronunciata in apertura di congresso dalla pablista Noelia Vera: «Podemos come gruppo di militanti temporaneamente nelle istituzioni».

Declinazione di una costante populista

Quale sia la costante populista originale tra la linea errejonista e quella pablista è materia di dibattito per filosofi e politologi, come la stessa parola populismo è attribuita un po’ a caso alle più diverse esperienze politiche, così all’interno dei suoi stessi esegeti la categoria è utilizzata a seconda delle convenienze. Sicuramente la questione populista è un’altra delle profonde antinomie che rendono non replicabile il progetto Podemos.
La capacità di rivendicare il nome della patria –  intesa come Spagna – e di declinarlo come concetto universale “La patria es otros” – senza frontiere e aperta ai migranti tutti spagnoli al di là della provenienza e dei documenti – è difficile da esportare. Forse bisogna considerare che in un paese dove ogni regione o comunidad autónoma è già di per sé una piccola patria, immaginare l’intera nazione è un’apertura.
Forse Podemos è tra i pochi ad avere inteso l’esperienza neobolivarista come un vero e proprio tentativo internazionalista e non come un insieme di nazioni guidate da una bandiera e da un capo carismatico. Fatto sta che il concetto di patria altrove o è patrimonio dell’estrema destra o di una sinistra che a essa si avvicina pericolosamente arrivando a considerare i migranti il frutto avvelenato del capitalismo per indebolire le condizioni dei lavoratori indigeni.
Lo stesso discorso si può fare per il concetto di sovranità nazionale: è vero che Podemos con tutte le giuste e condivisibili critiche all’Europa del debito e dell’austerity non si è mai spinta a immaginare un ritorno alle pesetas. Ma il concetto stesso di sovranità presuppone un ritorno alle origini. E la nostalgia di antichi costumi e tradizioni, di un’età dell’oro o paradiso da cui siamo stati cacciati è un sentimento che appartiene alla cultura di destra. I bei tempi non sono mai esistiti, e questa è forse una delle contraddizioni più violente su cui si fonda Podemos.
Pablo Iglesias si ripiglia il partito. Come un giunco, il partito che si è piegato e non si è spezzato sotto l’offensiva mediatica dell’establishment è già al lavoro per le prossime tornate elettorali. Podemos resiste e si condensa nelle sue molteplici antinomie. Invece che tornare alle origini della linea errejonista – il partito per sé – si reinventa in origini pabliste e movimentiste che non ci sono mai state, e così facendo si trasforma in rizoma: reticolato senza ingresso né uscita, senza inizio né fine. Radice unica e molteplice, non replicabile né esportabile. Forse, semplicemente espandibile.
Spagna sotto la lente, leggi anche:
  • Unità e umiltà: diario da Madrid
  • Podemos a congresso
  • A che punto è la Spagna?
  • Il fracaso socialista

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