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MONITOR


ven 30 marzo 2018

PERCHÉ RICUCIRE I RAPPORTI TRA CINA E COREA DEL NORD

Rimettere a posto le relazioni con Pechino è diventata per Kim Jong-un una scelta obbligata, soprattutto in vista di due mesi in cui si concentreranno gli sforzi internazionali per provare a disinnescare le tensioni tra Corea del Nord e i principali attori geopolitici dell’area: Corea del Sud, Giappone e Stati Uniti. Oltre alle tensioni con Donald Trump, in ballo c'è anche la denuclearizzazione della penisola coreana.

Meno di 850 km, in linea d’aria, dividono Pechino dal fiume Yalu, il corso d’acqua gelido che separa la Repubblica popolare cinese dalla Repubblica popolare democratica di Corea, la Corea del Nord. 850 km che lunedì 26 marzo il leader nordcoreano Kim Jong-un, aderendo al protocollo dinastico per le visite in territorio cinese, ha percorso a bordo di un treno blindato indisturbato dall’occhio inquisitore dei media internazionali, lasciati a caccia di speculazioni e suggestioni.
Una ritualità del potere fortemente radicata nel dna dei regimi estremo orientali, dove il leader assoluto dispone della scelta di annunciarsi ai media, farsi annunciare dai media o, come in questo caso, semplicemente di materializzarsi a Pechino, inseguito dalla stampa di mezzo mondo.
Rispondendo all’invito del presidente cinese Xi Jinping, senza alcun dubbio l’uomo più potente del continente, Kim Jong-un ha interrotto una striscia di sei anni a digiuno di visite oltre i confini della Corea del Nord che, nei rapporti in via di deterioramento tra Pechino e Pyongyang, indicava o uno sgarbo intenzionale verso la dirigenza cinese o, peggio, manifesta noncuranza.
Ora che i vertici della Repubblica popolare potrebbero coincidere con la persona di Xi Jinping per un tempo indeterminato, ricucire i rapporti con la Cina è diventata per il giovane Kim – trent’anni meno del presidente cinese – una scelta obbligata, soprattutto in vista di due mesi in cui si concentreranno gli sforzi internazionali per provare a disinnescare le tensioni tra Corea del Nord e i principali attori geopolitici dell’area: Corea del Sud, Giappone e Stati Uniti.
Il prossimo 27 aprile, dando seguito agli impegni presi durante le «Olimpiadi della Pace» di Pyeongchang, Kim Jong-un e il presidente sudcoreano Moon Jae-in si incontreranno alla «Casa della Pace» di Panmunjom, in territorio sudcoreano, in un summit propedeutico all’incontro tra Kim e il presidente statunitense Donald Trump, previsto per il mese di maggio. Una serie di appuntamenti che, fino a questo momento, vedevano la Cina come inusuale spettatore silenzioso.
Con il vertice di Pechino, Xi Jinping ha rimesso la Cina al centro della disputa diplomatica, in un sol colpo richiamando all’ordine il giovane Kim e, con ogni probabilità, discutendo col leader nordcoreano la strategia negoziale da adottare nell’immediato futuro. Kim, durante la sua visita «non ufficiale», si è detto disponibile a parlare di denuclearizzazione della penisola coreana, a patto che si fissi un percorso «graduale e sincronizzato»: nulla di diverso da quanto sostenuto storicamente da Pyongyang nei precedenti colloqui con Washington e, nell’interpretazione nordcoreana del termine «denuclearizzazione», chiara indicazione a una de-escalation che, se ci sarà, dovrà essere bilaterale.
Kim, secondo le ipotesi più quotate, potrebbe offrire agli Stati Uniti una sospensione del programma nucleare, in cambio del ritiro -anche parziale – delle sanzioni economiche e di un gesto dall’alto valore simbolico come la sospensione delle esercitazioni militari congiunte, che a scadenza annuale vedono impegnati in Corea del Sud gli eserciti di Washington e Seul.
Uno scenario che vedrebbe il favore di Pechino, interessata soprattutto a mantenere lo status quo della regione e ad evitare un aumento della presenza militare statunitense nella penisola coreana, e permetterebbe a Pyongyang di risollevarsi dalle durissime sanzioni economiche imposte dal Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Victor Cha, ex direttore degli affari asiatici al Consiglio di Sicurezza Nazionale statunitense e professore alla Georgetown University, ha spiegato al New Yorker:
«Probabilmente la Corea del Nord ha raggiunto uno stadio del proprio programma nucleare in cui ritiene che una pausa possa andare bene. Non ha più bisogno di fare test e può comunque portare avanti il programma senza grandi dimostrazioni di forza. Ma c’è un altro elemento, credo i nordcoreani stiano soffrendo molto la pressione delle sanzioni. L’ultima risoluzione dell’Onu in pratica ha colpito il cento per cento delle esportazioni nordcoreane, non era mai successo. E, inoltre, credo abbiano il timore che gli Stati Uniti facciano qualcosa di folle. Credo siano davvero preoccupati di questo».

Il ruolo di Trump e il paternalismo Usa

Donald Trump, ufficialmente informato da Xi Jinping dell’incontro con Kim Jong-un solo a cose fatte, si è affrettato a intestarsi il merito degli sviluppi diplomatici in corso, legando la visita di Kim a Pechino all’effetto della «campagna di massima pressione economica e militare» condotta dagli Stati Uniti contro la Corea del Nord.
«Per anni e attraverso diverse amministrazioni tutti dicevano che per la pace e la denuclearizzazione della penisola coreana non ci sarebbe stata nemmeno una piccola possibilità. Oggi c’è una buona probabilità che Kim Jong-un faccia ciò che è giusto per il suo popolo e per l’umanità. Non vedo l’ora di incontrarlo», ha twittato Trump.
A un’analisi quanto più smaliziata possibile, cercando di tenere a bada i complessi di superiorità interiorizzati da una società occidentale abituata a raccontarsi e vedersi alla guida del mondo, risulta evidente come i contributi più costruttivi alla definizione di un percorso di distensione della questione coreana siano arrivati da iniziative diplomatiche prettamente «asiatiche»: la cerimonialità,  la pazienza e la cura adottate dal presidente sudcoreano Moon Jae-in e dal presidente cinese Xi Jinping stanno, non senza difficoltà, riaprendo la strada del dialogo tra il regime nordcoreano e il resto del mondo, agendo a tutti gli effetti negli interessi di una comunità internazionale sempre più a trazione asiatica.
Per contro, l’approccio impositivo e paternalistico degli Stati Uniti, al giorno d’oggi, suona come drammaticamente antiquato e inefficace. Washington, con Trump più che mai, appare enormemente appesantita da una mentalità coloniale d’altri tempi, costretta a inseguire iniziative diplomatiche altrui aggrappandosi a un passato di supremazia economica e politica destinato a non tornare in tempi brevi.
A dimostrazione dell’inadeguatezza della leadership statunitense e della minaccia al buon esito dei colloqui di pace rappresentata dall’amministrazione Trump, il presidente statunitense ha recentemente nominato John Bolton, già consigliere di George W. Bush e ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite, come nuovo National-Security Adviser del governo.
In un articolo intitolato “John Bolton’s Radical Views on North Korea” pubblicato dal The Atlantic , si legge:
«Bolton ha fissato un’asticella altissima per considerare il summit [tra Trump e Kim] un successo: non solo la completa e istantanea denuclearizzazione, che i più considerano irraggiungibile, ma anche un regime change volontario: “Se Kim Jong-un venisse da noi e ci dicesse ‘Sapete, mi sono reso conto degli errori nei miei modi. Rinuncerò alla mia leadership in Corea del Nord e me ne andrò a vivere in una bella villa sul mare in Cina per il resto della mia vita, il regime può andare avanti senza di me’ sarebbe un evento storico, ma improbabile” ha dichiarato. Bolton ha proseguito raccontando una specie di barzelletta: “Domanda: come fai a sapere che il regime nordcoreano sta mentendo? Risposta: gli si muovono le labbra”».

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