Decodificare il presente, raccontare il futuro

MONITOR


mar 21 febbraio 2017

OFFENSIVA A TENAGLIA

Lo stato postmoderno è sotto assedio da parte di plutocrati e criminali che inconsapevolmente aumentano il reciproco potenziale offensivo.

Questo articolo è apparso su The American Interest con il titolo “The Twin Insurgency” a firma di Nils Gilman. Ringraziamo la testata e l’autore per la gentile concessione alla traduzione e pubblicazione.
Gli stati immersi nel sistema politico-economico globale devono fronteggiare oggi una doppia offensiva, una dal basso e una dall’alto.
Dal basso arrivano una serie di attacchi criminali interconnessi da parte di esclusi di tutto il pianeta che resistono, fanno proseliti e aggirano gli stati per accumulare potere e ricchezza nelle zone d’ombra dell’economia globale. Cartelli della droga, trafficanti di armi e di esseri umani, hacker, falsari e altri sfruttano le crepe dei sistemi, le eccezioni e le falle delle istituzioni governative per costruire imperi commerciali globali. Imperi dotati di ingenti risorse per corrompere, cooptare o ricattare gli attori politici in carica.
Dall’alto giunge l’offensiva plutocratica con cui le élite globali tentano di disimpegnarsi dalle tradizionali regole e responsabilità imposte dagli stati. Dagli attivisti ultraliberali agli avvocati dei paradisi fiscali, agli speculatori sulla moneta, ai magnati dell’estrazione mineraria, i nuovi super-ricchi globali e i loro aiutanti stanno finanziando una campagna su larga scala per limitare il raggio d’azione e l’operatività degli strumenti fiscali e di regolamentazione dei governi, o per manipolare tali funzioni come arma in una competizione commerciale all’ultimo sangue.
A differenza dei rivoluzionari “classici” del XX secolo, che volevano prendere il controllo dell’apparato statale per incardinare riforme sociali, i ribelli criminali e plutocrati non tentano di impadronirsi dello stato. Nè vorrebbero distruggerlo, visto che lo sfruttano come parassiti per accaparrarsi i benefici del welfare: salute, istruzione, infrastrutture etc. Piuttosto, il loro obiettivo è molto più semplice: scavarsi de facto zone di autonomia, erodendo la capacità dello stato di limitare la loro libertà di azione (economica).

I fallimenti del Modernismo Sociale

Per capire come l’offensiva a tenaglia abbia preso slancio bisogna fare un passo indietro e dare una breve occhiata al passato. Nell’era del modernismo sociale (1945-1971) quasi tutti gli stati – capitalisti o comunisti, industrializzati o in via di sviluppo, grandi potenze o post-coloniali – hanno tentato di legittimarsi tutelando gli interessi delle classi medie che cercavano di ingrossare. Le strategie di accumulo – capitaliste e comuniste – erano basate sul sostegno ai lavoratori dell’industria, a cui era richiesto di lavorare per tutta la vita, e a cui lo stato prometteva, in cambio, che non solo avrebbe costantemente migliorato il loro tenore di vita, ma che li avrebbe protetti dagli imprevisti con diverse modalità di sicurezza sociale.
Erano “welfare state” nel senso che tentavano di promuovere il benessere generale piuttosto che fornire un ascensore sociale ai poveri o difendere i privilegi dei ricchi.
Nel mondo non-comunista i benestanti erano tassati non per invidia di classe, ma per finanziare i benefici alla società nel suo complesso. Tutela della salute, pensioni, scuole e via dicendo non erano visti come “diritti” individuali, ma come beni pubblici di cui godere collettivamente. Nonostante il contratto sociale abbia assunto varie forme in questo periodo, in quasi tutti i paesi le élite sentivano su di sé il dovere di sostenere il benessere della classe media.
In conseguenza, almeno in parte, delle politiche di welfare, la diseguaglianza sociale diminuì nella maggior parte dei paesi. Discorso che vale a maggior ragione per le élite dei paesi occidentali, dove la Guerra Fredda, mantenendo tangibili le alternative radicali al capitalismo, rendeva possibile il convergere di un certo impegno verso obiettivi morali, sociali e politici più ambiziosi. La solidarietà sociale postbellica e le preoccupazioni per la sicurezza nazionale dovute proprio alla Guerra Fredda generarono anche maggiori riserve di capitale sociale, sostenendo la fiducia nei governi e rendendo politicamente possibile perseguire tali obiettivi, in particolar modo negli Stati Uniti.[1]
In quegli anni fu perseguito l’ideale del welfare state; a volte forse solo sulla carta , ma fu perseguito. E fu perseguito nonostante la concorrenza delle frange di estrema sinistra che volevano una politica di livellamento di classe più esplicita, e della destra  che cercava di sostenere o rinforzare varie forme di esclusione basate sull’etnia, sulla sovranità nazionale o sul censo. Lo stato sociale liberale mantenne saldamente la sua posizione di modello egemonico – ed è ancora il parametro rispetto al quale gli altri discorsi politici e i modelli economici alternativi devono definire se stessi.
Verso la fine degli anni ’70, in ogni modo, cominciò a essere evidente che lo stato sociale incontrava crescenti difficoltà a mantenere le sue promesse. In Occidente, l’inflazione erodeva le fondamenta tecniche dell’ordine finanziario di Bretton Woods, e la stagnazione economica minava le basi del consenso tecnocratico in favore di un controllo della domanda di stampo keynesiano, e quelle del consenso politico in favore della spartizione degli utili della produttività tra lavoro e capitale.
Nel blocco sovietico, le economie centralizzate e pianificate si stavano rivelando non solo politicamente repressive, ma anche economicamente insufficienti e catastrofiche sul piano della salvaguardia dell’ambiente. Nel “Global South”, il boom delle merci degli anni ’70 portò a una sorta di età dell’oro per alcuni grandi produttori, ma l’industrializzazione come mezzo per sostituire il grande peso dell’import fallì nel sostenere la crescita e la crisi del debito dei primi anni ’80 fece tramontare i sogni di un nuovo ordine economico internazionale.
All’inizio degli anni ’80 la reazione contro lo stato sociale modernista aveva preso piede. La disuguaglianza economica ricominciava a crescere, raggiungendo livelli non più riscontrati dagli anni ’20 – e suggerendo a un uomo di finanza il termine “plutonomia” per suggellare l’ordine emergente, ovvero un’economia appiattita sugli interessi dei plutocrati[2].
Dopo il collasso del comunismo nel 1989, a morire non fu solamente il sistema economico collettivistico e la politica autoritaria dell’Unione Sovietica e dei suoi stati satellite. Insieme al cadavere del comunismo fu cremata anche una concezione dello sviluppo centrato sulla formazione del cittadino, così come la responsabilità centrale dello stato e delle élite alleate – una concezione condivisa da comunisti e liberali durante la Guerra Fredda. Non fu solo lo stato a “ritirarsi” dalla “cabina di regia” dell’economia, per usare le parole di Daniel Yergin, ma furono le ambizioni stesse dello stato a recedere. Molti governi smisero addirittura di fingere di voler creare una società più equilibrata e provarono invece a legittimarsi sostenendo di favorire la massimizzazione delle opportunità individuali.
Per i fautori di questa prospettiva, l’ascesa dei nuovi plutocrati non andava considerata una sconfitta, ma il successo di un nuovo modello di governance. La migliore metafora che la Banca Mondiale riuscì a inventarsi per avvallare il nuovo corso, nel 1997, così recitava: da lì in avanti il ruolo dello stato sarebbe stato quello di “timoniere”, più che di “motore” dello sviluppo. Al giro di boa del millennio, anche molti esponenti della sinistra hanno cominciato a chiedersi se fosse vantaggioso per gli stati promuovere nei fatti e disinteressatamente l’interesse pubblico.
Due saggi pubblicati nell’anno della caduta del muro di Berlino, The end of History? di Francis Fukuyama e The Washington Consensus di John Williamson, contribuirono a evidenziare la natura del nuovo corso.
Fukuyama sosteneva che la Storia con la “S” maiuscola (nel senso hegeliano di contesto ideologico del corretto rapporto tra stato e società civile) avesse trovato la sua fine con il generale accordo sul fatto che il capitalismo liberale e democratico non fosse solamente il migliore, ma l’unico ragionevole sistema di organizzazione socio-politico-economica. Nel sostenere questo, Fukuyama però non raccomandava l’idea di uno stato debole, e infatti più tardi lamentò che fossero state largamente sottovalutate le potenzialità operative dello stato come precondizioni dello sviluppo e di una governance solida, anche nelle società benestanti. Suggerì invece che il modello di economia dirigista fosse stato gettato nell’immondezzaio della storia da Trotsky.
Il saggio di Williamson era più pragmatico che metafisico, affiancando ai dettagli di questa visione “post-storica” della politica precisi imperativi riguardanti la disciplina fiscale, la riduzione della spesa pubblica per i sussidi, la riduzione della tassazione progressiva, la fluttuazione delle monete, la liberalizzazione degli scambi e degli investimenti transfrontalieri, la privatizzazione delle imprese di stato e la deregulation per quelle private, e soprattutto la santificazione del diritto di proprietà privata.
Il Washington Consensus, in particolare, sosteneva non solo la detronizzazione dello stato, ma anche una sfida su vasta scala all’idea che la leadership tecnocratica costituisse la via maestra per assicurare il benessere sociale collettivo.
Testate in via pionieristica dalla politica interna di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e di Ronald Reagan negli Stati Uniti, ma avvallate in seguito dalle amministrazioni controllate dalle rispettive opposizioni, le politiche associate al W.C. – e soprattutto la privatizzazione dei principali asset industriali di stato (specialmente le aziende a capitale statale e le utenze) e la deregulation (in particolare delle aziende finanziarie) – presto divennero il “Modello Londra” e Washington cercò di esportarlo nel “Global South”e nelle società post-comuniste con il nome di “adeguamento strutturale” e “terapia d’urto”.
Come concludeva Dani Rodrik, “ ‘Stabilizzare, privatizzare e liberalizzare’ diventò il mantra di generazioni di tecnocratisvezzati in quel brodo culturale e dei leader politici di cui erano consulenti[3]”.
La trasformazione del ruolo dello stato sulla scia della Guerra Fredda ha drammaticamente aumentato la precarietà della vita delle classi medie nella maggior parte delle società. Da un punto di vista materiale, ha generato forme di insicurezza senza precedenti. Dall’alto, la middle-class si sente minacciata dall’élite finanziaria globale alleata con i magnati ultra-ricchi, entrambi che tentano di tagliare i servizi sociali e le tasse che li finanziano – tasse che vengono  dipinte come forme di espropriazione illegittima. Dal basso, si sente esposta a una nuova recrudescenza della criminalità, che vede nelle sue difficoltà una grande opportunità di guadagno.
Allo stesso tempo, su un piano ideologico, la crisi dello stato nazionale imperniato sui lavoratori e fornitore di welfare ha indebolito la capacità della classe media di organizzarsi in modo collettivo di fronte a queste nuove minacce. La perdita di fiducia, dopo gli anni ’70, nello stato come fornitore disinteressato di protezione sociale spiega molto bene come i movimenti “Occupy” del 2008-2009  abbiano fallito nel produrre una significativa spinta politica.

L’offensiva plutocratica

La ritirata ideologica dello stato sociale costituisce quindi la condicio sine qua non dell’offensiva plutocratica. Negli anni ’90 è emersa una nuova élite economica globale cosmopolita, arricchita dalle opportunità create dalle aziende multinazionali in via di globalizzazione, dai servizi finanziari deregolati e dalle nuove piattaforme tecnologiche. In termini assoluti si tratta di un’élite decisamente più ricca rispetto alle precedenti generazioni di magnati.
Come ha affermato di recente Thomas Piketty, l’ascesa dei nuovi plutocrati, fin dagli anni ’70, riflette un cambio di paradigma storico nella struttura dell’accumulazione di capitale. Il regime di accumulazione prevalente all’apice del modernismo sociale dipendeva da una nuova classe di lavoratori che poteva permettersi i beni che produceva.
Le grandi fortune del tardo XIX e del primo XX secolo furono costruite sulle spalle dei produttori-consumatori in contesti economici nazionali rivolti principalmente verso l’interno. Al contrario, i plutocrati di oggi prosperano vendendo beni e servizi su scala globale; il loro successo è molto meno legato alla ricchezza dei propri connazionali, rispetto ai grandi capitalisti delle precedenti generazioni.
Inoltre, i due marchi distintivi dell’accumulazione massiva di capitale agli albori del XXI secolo sono stati l’alta tecnologia e i servizi finanziari. Tipi di impresa che non necessitano masse di lavoratori, la cui produttività è quindi scissa dalla buona salute di una qualche particolare classe media nazionale. Risultato: un drammatico aumento della disuguaglianza all’interno delle nazioni, anche se il divario di ricchezza transnazionale è diminuito.
I plutocrati hanno anche sviluppato una nuova autoconsapevolezza ideologica. Molti vedono se stessi come i “meritevoli vincitori di una dura competizione mondiale” e considerano gli sforzi degli stati di farli pagare per il bene pubblico poco più che un furto organizzato[4].
Mentre durante la Guerra Fredda l’apparente plausibilità di un’alternativa socialista spingeva gli ultra-ricchi a temperare le loro ambizioni massimaliste, il collasso del comunismo ha rimosso questo limite, permettendo un salto di qualità nella concezione che molti magnati hanno del proprio rapporto con la società. Mentre alcuni continuano a ritenere di essere in debito verso le comunità che li hanno arricchiti, un significativo sottoinsieme – in particolare tra le élite finanziarie – ha cominciato a considerare i propri risultati personali come separati dal successo della società del paese in cui risiede. Invece di vedersi come i vincitori ultimi all’interno dei sistemi nei quali operano, preferiscono dipingersi come nobili ribelli che ce l’hanno fatta da soli nonostante la zavorra dei vincoli, dei fannulloni e dei parassiti che ammorbano governo e società.
La popolarità crescente delle narrazioni pseudo-filosofiche di Ayn Rand – le cui idee vengono definite da George Monbiot il “marxismo della nuova destra” – rappresenta la manifestazione più visibile di un’ideologia che considera i ricchi come “creatori” e le masse come incapaci “roditori”[5].
Da Washington a Londra, i think-tank fondati dai plutocrati si sono dedicati a definire uno zoccolo duro di idee e proposte politiche mirate a smantellare ciò che rimane della modernità sociale. Questo scarto ideologico ha preannunciato l’arrivo dell’offensiva plutocratica[6].
La caratteristica discriminante dell’offensiva plutocratica è l’obiettivo: togliere fondi e finanziamenti ai beni pubblici per azzoppare uno stato percepito come minaccia alle loro prerogative. (Si noti che, concettualmente, le offensive plutocratiche differiscono dalle cleptocrazie; queste ultime utilizzano le istituzioni per saccheggiare la popolazione, mentre le prime vogliono neutralizzarle per facilitare il saccheggio da parte del settore privato. In pratica, finiscono per sovrapporsi o mescolarsi).
Concretamente, gli attacchi dei plutocrati prendono la forma di: tentativi di ridurre le tasse, che a loro volta necessitano di tagli della spesa per i servizi pubblici; riduzione delle regole che limitano l’azione delle imprese o proteggono i lavoratori; privatizzazione o taglio dei finanziamenti a istituzioni pubbliche come scuole, servizi sanitari, infrastrutture e spazi sociali.
La strategia politica associata all’offensiva plutocratica è di utilizzare l’austerity sotto forma di shock economici per riscrivere i contratti sociali sulla base di una piattaforma molto più ristretta di obblighi sociali reciproci, con l’effetto ultimo di de-collettivizzare il rischio sociale. Come palliativo per la perdita dei beni pubblici e dei programmi finanziati dallo stato per migliorare il welfare pubblico, i plutocrati di solito propongono la filantropia (diretta verso obiettivi definiti non in modo democratico ma, naturalmente, da loro stessi).
“La società non esiste”, era un famoso adagio di Margaret Thatcher, che ha fornito il cri de coeur ai plutoinsurrezionalisti di ogni paese. Se la società non esiste, allora ogni idea di servizi sociali collassa, insieme a ogni responsabilità da parte dei ricchi di contribuirvi. Da questo punto di vista, offensiva plutocratica significa riportare in vigore le sopracitate politiche di “adeguamento strutturale” (pensate in origine per risanare i conti degli stati poveri) nel cuore ricco e industrializzato del pianeta.
Per i plutoinsurrezionalisti, è una strategia dettata alla base da una gretta analisi costi-benefici: il prezzo che lo stato sociale chiede loro di pagare sotto forma di tasse e regole supera i benefici che credono di ricevere dal risiedere in un tale stato.
I plutocrati ritengono di potersi permettere di (e di conseguenza pretendono che tutti i cittadini possano) pagare da sé per i beni e i servizi che un tempo ci si aspettava fornisse lo stato. Vivono in comunità separate, viaggiano con una flotta di bus e aerei privati, e mandano i figli in scuole esclusive. Se ciascuna di queste decisioni potrebbe anche essere determinata da scelte di stile di vita o dal desiderio di differenziazione sociale, il risultato è un progressivo disinvestimento morale e disimpegno civile, specialmente quando l’abitudine di scartare i servizi pubblici si estende dagli oligarchi alla parte benestante della classe media.
Lasciando da parte la natura intrinsecamente antidemocratica di tali servizi privati, o i problemi di “selezione avversa”[7] che emergono dalle privatizzazioni parziali, il marchio distintivo dell’arrivo di un’offensiva plutocratica è la rivolta dei ricchi contro il pagamento delle tasse per finanziare servizi pubblici che non hanno mai avuto intenzione di utilizzare. E più la qualità dei servizi pubblici si deteriora, più il circolo si fa vizioso e i plutocrati vedono sempre meno ragioni per contribuire in qualsiasi modo alle società che li ospitano e, quindi, contestano attivamente l’idea che il diritto di cittadinanza porti con sé una qualche responsabilità economica.

Offensiva criminale

Buona parte dei processi che hanno aperto la strada all’attacco plutocratico sostengono anche l’inasprirsi dell’offensiva criminale: globalizzazione dei flussi economici, crescente diseguaglianza nelle ripartizione delle ricchezze e il collasso dello stato come fornitore di beni pubblici e servizi.
Ciò avviene in parte perché l’offensiva plutocratica e quella criminale sono attacchi gemelli, a tenaglia, che prosperano sulla base degli stessi presupposti. L’altro motivo della loro gemellarità, è, ovviamente, che lavano uno la mano dell’altra.
Dall’America Latina all’Africa, fino all’ex blocco sovietico, le politiche di adeguamento strutturale e terapia d’urto degli anni ’80 e ’90 hanno portato all’erosione dello stato: gli edifici e le istituzioni degli stati “adeguati” forse sono ancora al loro posto, ma le loro ambizioni e forze sono avvizzite. I governi di questi paesi hanno ridotto drasticamente la spesa per i servizi sociali – dai sussidi per il cibo e i carburanti a strutture più complesse come sanità pubblica e pensioni. Le industrie a capitale statale sono state chiuse o privatizzate con tagli radicali alle retribuzioni e al numero di occupati. Lo stato, in altre parole, ha perso sempre di più la capacità di offrire un livello di vita decoroso ai propri cittadini, facendo crollare le aspettative della popolazione sul suo ruolo di garante del progresso.
Allo stesso tempo, le economie di questi paesi si sono aperte velocemente a flussi finanziari e commerciali transfrontalieri. Questa combinazione ha creato sia l’opportunità per singoli imprenditori di accumulare ricchezza in modo nuovo, sia, per molti, l’imperativo di farlo per motivi di sopravvivenza. Gli effetti non sono stati solamente un sottoprodotto, ma in realtà l’obiettivo esplicito delle politiche di adeguamento strutturale e terapia d’urto: far retrocedere lo stato dirigiste e aprire l’economia era mirato allo scopo di sprigionare energia imprenditoriale, e, effettivamente, tale energia si è sprigionata.
Sfortunatamente, la globalizzazione-terapia d’urto delle economie un tempo chiuse del blocco sovietico e del Global South ha rivelato la presenza di uno spiacevole inconveniente.
Mentre la “grande” globalizzazione, celebrata da firme come Thomas Friedman, si impossessava dei titoli dei giornali a quattro colonne, lo sviluppo parallelo di una globalizzazione “deviata” in settori come stupefacenti, immigrazione, distruzione dell’ambiente e contrabbando di oggetti antichi è rimasto abbastanza a lungo nell’ombra da sviluppare radici profonde e solide.
La debolezza degli stati post-comunisti e post-in-via-di-sviluppo rappresentava sicuramente un problema urgente per gli affari “puliti” e per le classi medie sull’orlo dell’implosione di quei paesi, ma offriva alcuni relativi vantaggi al commercio illecito. Anche se i plutocrati stavano sfruttando a fondo le opportunità lecite fornite dall’integrazione economica globale, per lo più evitarono di trattare beni e servizi banditi per ragioni morali o di prudenza.
Al contrario, imprenditori deviati si resero conto che destreggiarsi tra le disparità morali e legali delle diverse giurisdizioni ovunque nel mondo procurava enormi possibilità di guadagno – e sempre nuove opportunità emergevano man mano che la forza dei singoli stati si contraeva a ritmi diversi.
Gli oscuri globalizzatori degli anni ’90 e ’00, quindi, furono criminali che rapidamente condussero le loro organizzazioni a gestione familiare a diventare imperi commerciali deviati con filiali nei cinque continenti.
Questi avatar della globalizzazione deviata sono i leader dell’offensiva criminale di oggi.
Anche se spesso provengono dalle fila degli esclusi e delle classi subalterne all’interno delle loro società, ciò che li distingue dai “classici” rivoluzionari sociali è che il loro obiettivo non è quello di appropriarsi di un potere statale istituzionale, ma semplicemente di proteggere le proprie rendite sui vari mercati (di norma illegali) che controllano.
Organizzazioni come Primo Ordine della Capitale in Brasile, la ‘Ndrangheta in Italia o gli Zeta in Messico non hanno alcun interesse a impadronirsi degli stati all’interno dei quali operano. Invece, come i plutocrati, tentano di indebolire selettivamente lo stato per stabilire una zona privata di autonomia economica, continuando a sfruttare lo stato per i servizi sociali superstiti. Questi soggetti prosperano in (e quindi cercano di incoraggiare) ambienti statali deboli, e le loro attività rinforzano le condizioni di tale debolezza.
Questa osservazione ci permette di capire l’errore fondamentale dei liberali entusiasti della globalizzazione quando affermano che povertà, insicurezza e fragilità dello stato sono il risultato della “disconnessione” dall’economia mondiale. In realtà, anche stati “falliti” per antonomasia – come Congo, Somalia e Afghanistan – sono profondamente connessi all’economia globale; non ai settori formali e legali di quella, ma ai traffici illeciti di minerali, alla pirateria, al commercio globale di droghe, e così via. Il punto cruciale non è la connessione o la disconnessione, ma piuttosto quale tipo di connessione.
Quando la globalizzazione deviata ha messo radici in un particolare ambiente, presto comincia a produrre un circuito di feedback positivo, allo stesso modo in cui molte specie affermate di animali e piante, quando invadono un ecosistema, rimodulano il proprio per migliorare la capacità di escludere i competitori.
Forme di debolezza statale, che in prima battuta sembrano solamente permissive, creano le condizioni perché i loro affari presto diventino asset strutturali che i capi criminali tentano di consolidare ed espandere. Estorcono denaro, fedeltà politica e a volte pezzi di territorio; aumentano la corruzione; indeboliscono lo stato di diritto (si pensi ai cartelli della droga messicani, o alle operazioni di contrabbando nel Sahel, tra decine di esempi). Costringono inoltre stati ben funzionanti all’interno del sistema globale a impiegare una spropositata quantità di tempo, energia e attenzione per controllare quello che passa al di qua e al di là delle loro frontiere.
Nel costruire i loro imperi commerciali, i globalizzatori deviati inevitabilmente vengono a confliggere con gli “stati ospiti” in tre modalità differenti che li definiscono, de facto, come attori politici.
Per prima cosa, controllano vasti (e in costante crescita) settori dell’economia globale, operando in modo più esteso là dove lo stato è sparito o si sta ritirando. La corruzione alimentata dai proventi della droga su entrambi i lati della frontiera Stati Uniti/Messico ne è un lampante esempio.
In secondo luogo, molti imprenditori deviati controllano e dispongono di una notevole riserva di violenza – un rischio professionale per i lavoratori delle imprese illegali, che non possono contare sulla stato per risolvere le dispute contrattuali. L’uso della violenza conduce gli imprenditori deviati verso il conflitto inevitabile con uno dei fondamenti della legittimazione dello stato, ovvero il monopolio (almeno in linea di principio) dell’uso della forza come sanzione sociale, trasformandoli da meri uomini d’affari illegali in veri e propri sovversivi criminali.
In terzo luogo, questi sovversivi criminali in alcuni casi hanno cominciato a emergere nel contesto sociale come somministratori privati di giustizia, servizi sanitari e infrastrutture – precisamente le tipologie di beni che ci si aspetta gli stati funzionanti forniscano ai propri cittadini. (In ogni caso, poiché sono forniti da un soggetto privato, non sono visti dalle comunità locali degli imprenditori deviati come beni pubblici, perché non ugualmente accessibili da tutti i cittadini).
I cartelli della droga brasiliani con sede nelle carceri, il movimento di emancipazione del delta del Niger in Nigeria, il cartello di Sinaloa in Messico, e molti altri – tutte organizzazioni sovversive criminali che non solo hanno dimostrato la volontà e la capacità di estromettere lo stato ospite da una serie di funzioni, sbaragliando così i mercati globali di mezzo mondo, ma anche di fornire servizi sociali alle comunità all’interno delle quali operanoOK.
L’offensiva criminale è dunque la forma presa dalla globalizzazione deviata dopo il salto di qualità e dopo aver raggiunto una certa autoconsapevolezza politica.
Da un parte, più le imprese deviate crescono, più danni arrecano alla legittimità politica degli stati in cui operano, indebolendo la capacità dello stato di fornire le infrastrutture e i servizi che i criminali vogliono sfruttare liberamente. Dall’altra, le persone che vivono nelle zone semi-autonome controllate dai criminali sempre più spesso riconoscono nei criminali stessi e non nello stato in ritirata la sorgente reale di potere e autorità sul territorio.
Ovviamente, anche quando i fornitori di governance alternativa sembrano essere “legittimati” agli occhi dei locali portatori di interesse, questo tipo di “governo” è di norma ben poco istituzionalizzato e per nulla trasparente sia nei mezzi sia negli obiettivi. Ciò nonostante, man mano che questi gruppi consolidano su di sé funzioni che un tempo spettavano allo stato, i loro interlocutori sembrano perdere sempre più velocemente interesse per le istituzioni formali dello stato stesso, percepite come svuotate. Quindi, anche se i criminali non hanno nessuna intenzione di eliminare lo stato ospite, potrebbero contribuire a precipitarlo in un vortice di implosione catastrofica.

Enclave e microsovranità

Durante gli anni ’90 era molto di moda affermare che, nella nuova era post-marxista, lo stato (lo stato dirigiste, per lo meno) era destinato all’estinzione. In verità, stava succedendo qualcosa di molto più sottile: il doppio collasso di legittimità e operatività dello stato sociale stava dando vita non all’utopia post-storica di un afflato universale verso il capitalismo liberal-democratico, ma piuttosto al mostro a due teste della secessione plutocratica e della globalizzazione deviata.
Invece di favorire progetti di emancipazione collettiva, sia i plutocrati sia i criminali desiderano che le prerogative dello stato sociale rimangano in vigore solo laddove non tangono i loro interessi. Né i sovversivi criminali né i plutocrati sono rivoluzionari nel senso classico del termine, ovvero attori politici che tentano di impadronirsi dello stato. Infatti, man mano che lo stato sociale falliva nel mantenere le sue promesse, lo stesso concetto di rivoluzione che aspiri a un progetto di riforma sociale collettiva su scala nazionale è iniziato a sembrare fuori tempo, bizzarro. (Certo, ancora esistono ribelli che cercano di impadronirsi dello stato o di dirigerne le mosse verso obiettivi di riforma sociale: movimenti marxisti come gli Zapatisti in Messico o i Naxaliti in India, gruppi islamici come Al-Shabaab in Somalia e gli insorti Moro nelle Filippine. Ma sono evidentemente fenomeni anacronistici). I ribelli di oggi non cercano né il controllo dello stato né le riforme sociali, su base nazionale o globale che sia. Nè vogliono una rivoluzione politica nel senso Arendtiano o Burkeano del termine, ovvero le condizioni per un controllo diretto, sia ideologico sia operativo, sugli organi dello stato. Al posto di rivoltarsi contro un particolare regime politico con l’obiettivo di fondare un governo migliore, cercano piuttosto di paralizzare gli stati ospite per conquistare de facto zone di autonomia dove perseguire un arricchimento individuale o corporativo. Si tratta di parassiti in un senso molto preciso: sfruttano l’eredità istituzionale del modernismo sociale per abbattere i costi dei loro affari.
Ciò di cui entrambe le offensive sono sintomo è la sostituzione dell’idea liberale di autorità e diritto uniformemente validi all’interno di uno spazio nazionale con una caleidoscopica varietà di microsovranità de facto e a volte anche de iure. Piuttosto che un singolo territorio nazionale su cui il potere viene esercitato e in cui tutti i residenti godono dei diritti in maniera coerente e omogenea, la cartografia della doppia offensiva presenta un proliferare di enclave di autorità politiche eterogenee e di strutture non istituzionali di fornitura di servizi sociali.
Man mano che questi fenomeni vengono alla luce, le autorità nazionali e locali sono costrette a una serie di eccezioni – spesso ad personam – alle regole generali, venendo meno ogni giorno di più al principio liberale di uguaglianza di fronte alla legge.
Proprio come gli anni ’30 conobbero una proliferazione di diverse forme di autorità in bilico tra pace e guerra, così oggi abbiamo sotto gli occhi la moltiplicazione di poteri nella terra di nessuno che si estende tra lo stato moderno compiuto e l’anarchia totale, simboleggiata dagli ormai sbiaditi confini tra polizia, esercito e milizie private di sicurezza. Il processo tende ad auto-consolidarsi: il diffondersi di microsovranità uniche ed eccezionali estende l’ambito entro cui è possibile ingaggiare conflitti di giurisdizione con lo stato e genera la richiesta da parte di altri ribelli di ulteriori eccezioni di sovranità.
Nei territori dell’offensiva a tenaglia, “cittadinanza” non significa più un pacchetto di diritti uguali per tutti, ma piuttosto un mix variabile a seconda dello spazio – fisico e sociale – in cui gli individui si trovano a esistere.
All’interno delle enclave plutocratiche, l’origine ultima di autorità e lealtà è, alla fine, il denaro. Da un punto di vista spaziale, i plutocrati ribelli tentano di creare zone circoscritte di autorità privata e autonomia legale dove poter gestire beni un tempo considerati pubblici, includendo non solo la sicurezza, ma sempre di più istruzione, trasporti, sanità, commercio, esecutività del diritto e così via.
L’esempio paradigmatico di segregazione spaziale e secessione plutocratica sono le cosiddette comunità residenziali chiuse. Spazi che eccedono il concetto di semplice enclave residenziale, ma sempre di più offrono pacchetti completi di servizi che includono virtualmente ogni possibile bisogno dei loro abitanti. L’unico motivo per che hanno i residenti di uscire dal loro perimetro è quello di raggiungere altre comunità simili.
I diritti, all’interno di tali spazi, discendono dai dollari piuttosto che dalla cittadinanza. La visione del futuro qui dispiegata è quella di un arcipelago globale di ciò che Evan McKenzie chiamava “privatopie”, ovvero enclave sigillate connesse tra loro via aria e via internet, protette da alte fortificazioni contro il torbido oceano distopico dei hoi polloi[8].
Oltre a queste zone di segregazione fisica, i plutocrati ribelli cercano anche (o tentano di creare) zone virtuali di eccezione legale sotto forma di paradisi fiscali offshore e aree economiche speciali che permettano loro di evitare dazi e vincoli per la protezione dei lavoratori o dell’ambiente. Sono formidabili nel creare conflitti di giurisdizione, minacciando di portare altrove i capitali se le autorità locali rifiutano di garantire loro le eccezioni richieste.
Le enclave criminali sono più instabili. Prive della separazione visibile propria delle comunità chiuse, sotto forma di mura e guardie armate, le zone autonome dei globalizzatori deviati sono più fragili e temporanee. Hanno l’aspetto di selvagge zone offlimits,sulle quali teoricamente lo stato potrebbe accampare una qualche autorità, ma in cui il vero potere è detenuto da signori della guerra, gangster e altri tipi di criminali organizzati.
In questi territori, le emanazioni di autorità e fiducia e l’applicazione della forza bruta tendono a quello che si potrebbe definire un “neo-tribalismo” – in cui con il prefisso “neo” si intende che il principio di fedeltà gerarchica si applica non solo a coloro che condividono (evidenti) legami di antica parentela, ma piuttosto in un contesto di intense e ritualizzate connessioni interpersonali tra giovani maschi specialisti nell’uso della violenza.
In breve, mentre la globalizzazione sta indebolendo le istituzioni politiche nazionali e quindi il senso di identità e fiducia da esse discendente, ciò che sembra stia rimpiazzando le nazioni non è tanto quell’identità politica “globale” cui hanno a lungo aspirato i sognatori “cosmopolitici”, ma piuttosto un ritorno alle identità locali radicate nei clan, in sette, etnie, corporazioni e gang[9]. In termini letterari, questo tipo di futuro ha più a che fare con Snow Crash di Neal Stephenson, che con l’utopia della Federazione di Gene Rodenberry in Star Trek.
L’ostacolo principale che devono affrontare sia i plutocrati sia i criminali è l’interrogativo sulla reale stabilità delle governance create con il perseguimento dei propri obiettivi. Ci sono almeno due ragioni per essere scettici su questo punto.
Primo, la frantumazione delle sovranità omogenee accresce i costi delle transazioni commerciali da una zona all’altra; richiede un costante dispendio di tempo ed energia per determinare in quale amministrazione ci si trova e a chi bisogna rendere rispetto e riverenza. Questo vale allo stesso modo per gli spazi separati dei plutocrati e quelli dei criminali: nel primo caso, si pagano gli avvocati, nel secondo i gangster.
Secondo, il caleidoscopio moltiplica le opportunità di conflitto di competenze e il rischio di defezione da parte di clienti e milizie a vantaggio di altri spazi autonomi. Chi ha tutto da perdere in questo processo è, ovviamente, la middle-class – i cittadini che “seguono le regole”: vanno a scuola, si trovano un lavoro tradizionale il cui maggior pregio dovrebbe essere la stabilità. Queste persone, prive della necessaria spregiudicatezza per agire da criminali, e delle risorse per comportarsi come plutocrati, possono solo constatare come le istituzioni costruite nel corso del XX secolo per garantire un buon tenore di vita alla grande maggioranza dei cittadini siano state progressivamente smantellate. Mentre le basi sociali dell’azione collettiva si sbriciolano, gli individui appartenenti alle classi medie devono sempre più urgentemente affrontare una scelta radicale: accettare una costante perdita di sicurezza e la degradazione sociale de facto, oppure unirsi a una delle due insurrezioni.
NOTE
[1]   Ciò detto, le relazioni industriali e sindacali in Occidente (e in particolare negli Stati Uniti) furono dure anche nel pieno fulgore postbellico dello stato sociale. La reazione plutocratica contro i lavoratori organizzati, le tutele e le politiche fiscali dello stato liberale data dall’inizio del New Deal, e divenne una strategia politica esplicita a metà degli anni ’40. Nonostante ciò, il vero spartiacque fu la fine della Guerra Fredda. Non si può fare a meno di notare il contrasto tra la mentalità public-oriented di statisti postbellici come Jean Monnet, Dwight Eisenhower e Willy Brandt e il modo vergognoso con cui presidenti post-crollo del Muro (Bush senior, Clinton), cancellieri (Schroeder) e primi ministri (Blair) furono ben felici di ricevere enormi compensi dagli hedge fund e dai governi stranieri una volta lasciata la carica.
[2]   Si veda: Ajay Kapur, Niall Macleod, Narendra Singh, Plutonomy: Buying Luxury, Explaining Global Imbalances, Citigroup Research, 16 ottobre 2005.
[3]   Rodrik, Goodbye Washington Consensus, Hello Washington Confusion?, Journal of Economic Literature, dicembre 2006.
[4]   Si veda Chrystia Freeland, The Rise of the New Global Elite, The Atlantic, Gennaio/febbraio 2011.
[5]   Monbiot, A Manifesto for Psychopaths, Guardian, 6 marzo 2012. Nella versione originale in inglese i termini usati sono maker e taker.
[6]   Le sorti dei plutocrati ribelli nei paesi del BRIC sono state ambivalenti. La Russia ha sperimentato un’enorme offensiva plutocratica negli anni ’90, ma l’arrivo di Putin e la defenestrazione della prima generazione di oligarchi ha rappresentato la riaffermazione delle prerogative dello stato – ovvero, una controinsurrezione plutocratica coronata da successo. Mentre in India si sono evidenziati molti dei sintomi classici dell’offensiva, in Brasile i governi socialdemocratici fin dal 2000 sono riusciti a diminuire le diseguaglianze e a espandere i benefici dello stato sociale. In Cina l’ascesa dei super-ricchi ha potuto verificarsi soprattutto attraverso le imprese sostenute dallo stato (e non necessariamente da esso possedute), il che significa che i plutocrati rimangono dipendenti dallo stato e dal Partito Comunista e, quindi, relativamente timidi a livello politico. Lì, e nel resto dell’Asia, la ricerca di rendite più che l’attacco vero e proprio rimane il metodo preferito tra i plutocrati.
[7] Nell’originale in inglese adverse selection, fenomeno riguardante un disequilibrio di mercato.  Il riferimento è alla capacita’ dei plutocrati di selezionare preventivamente i servizi di cui non vogliono usufruire tramite una analisi costi-benefici fatta a monte e tesa a svalutare dal paniere di servizi per la collettività tutti quei servizi che loro comprano privatamente.
[8]   McKenzie, Privatopia: Homeowner Associations and the Rise of Residential Private Government, Yale University Press, 2006.
[9]   “Cosmopolitico” è neologismo dovuto a Pheng Cheah e Bruce Robbins in Cosmopolitics: Thinking and Feeling Beyond the Nation, University of Minnesota Press, 1998.

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