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MONITOR


lun 14 marzo 2016

NON È VERO CHE WALL STREET PREMIA I PRESIDENTI REPUBBLICANI

In diverse occasioni, nel pieno della campagna elettorale, sono scoppiate scintille tra i due maggiori contenenti democratici proprio a proposito dei rapporti tra potere e denaro

14 MARZO 2016 – Ogni quattro anni New York e Washington sono più vicine del solito e girato l’angolo della Pennsylvania Avenue ci si affaccia magicamente su Wall Street. Come in una specie di eclissi, il potere politico viene assorbito nel cono d’ombra del distretto finanziario, o viceversa. La Borsa valori statunitense e le elezioni presidenziali si allineano, in opposizione oppure in congiunzione, producendo un fenomeno che gli astronomi definirebbero di “occultazione”. Non visibile ad occhio nudo. O almeno non in tutte le sue fasi
Occorre prima di tutto sfatare un mito: non è vero che i presidenti repubblicani sono i preferiti dai mercati. Secondo quanto riportato dallo Stock Trader’s Almanac, dal 1900 ad oggi il Dow Jones ha beneficiato di rendimenti medi maggiori sotto presidenti democratici (+7%) rispetto a quanto avvenuto con i repubblicani (+3%). Basti pensare che durante gli otto anni del mandato Clinton si è registrato il record dal dopoguerra con un +226,6%. Ma le dinamiche che regolano il rapporto tra la Casa Bianca e Wall Street sono molto più complesse di così. Nel rapporto “Election 2008,” Jeffrey Kleintop – strategist di LPL Financial – sostiene infatti che le scorte tendono a rendere maggiormente nei periodi di stallo legislativo, ovvero quando il potere presidenziale è compensato dal partito di opposizione al Congresso.
In linea generale vale la regola che se Washington è particolarmente immersa nello scontro politico, il mercato azionario è libero di fare quello che gli riesce meglio: money, money, money. Sempre però che l’impasse non diventi ingestibile. Secondo uno studio del Bespoke Investment Group, infatti, nel corso degli “ingorghi” istituzionali materializzatisi nel corso del Novecento, il Dow ha guadagnato solo il 4,06% su base annua e dunque, in breve, gli stalli sarebbero stati di ostacolo per il benessere generale del mercato azionario. Di visione solo apparentemente opposta è Edward Yardeni che intervistato dal New York Times nel 2014, sosteneva che il “gridlock” era stato invece rialzista. Con una precisazione però: occorre distinguere tra due tipi di stallo istituzionale, «l’inazione benigna risultante dal bilanciamento tra maggioranza e opposizione garantita dalla Costituzione e la crisi auto-indotta, che invece sconvolge i mercati».
Al netto degli andamenti azionari, quest’anno più che in passato Wall Street ha fatto capolino nel dibattito pubblico che accompagna il percorso ad ostacoli delle primarie. Nella corsa democratica il termine è comparso innumerevoli volte, rivelandosi particolarmente caratterizzante.
Da una parte Hillary Clinton ha formato una squadra di 200 economisti guidata dal professor Alan Blinder, ordinario alla Princeton University, che ha messo a punto una piattaforma economica che verte su quattro pilastri: lotta all’ineguaglianza (la senatrice riconosce che la diseguaglianza di reddito deprime la domanda e rallenta la crescita economica, sostiene inoltre che non sia più possibile che i gestori di fondi speculativi paghino meno tasse della maggior parte della middle class americana), sostegno alle famiglie, accordi di libero scambio (più importanti delle strategie del Dipartimento della Difesa per stabilire una leadership globale) e riforma del sistema di finanziamento elettorale. Per promuovere lo sviluppo economico, l’ex first Lady ha sostenuto il “social impact bond”, un programma da 4.6 milioni di dollari ideato dal gruppo Goldman Sachs che sul proprio sito lo descrive come «uno strumento finanziario innovativo ed emergente che sfrutta gli investimenti privati per sostenere i programmi sociali di grande impatto». Dall’altra parte Bernie Sanders ha più volte dichiarato di voler contrastare il super potere di Wall Street proponendo come misura l’introduzione di un welfare state di stampo europeo (ma i dubbi sulla copertura finanziaria del suo programma sono numerosi).
PRESSIONI E DUBBI PER I RAPPORTI CHIACCHIERATI TRA HILLARY E L’ALTA FINANZA
In diverse occasioni, nel pieno della campagna elettorale, sono scoppiate scintille tra i due maggiori contenenti democratici proprio a proposito dei rapporti tra potere e denaro. In particolare il senatore del Vermont ha preso più volte di mira i discorsi dell’ex Segretario di Stato a favore di Wall Street e delle compagnie finanziarie. Ma non si è trattato delle uniche occasioni in cui Hillay Clinton si è trovata ad affrontare pressioni riguardo le orazioni tenute di fronte al gotha della finanza americana, che le hanno reso centinaia di migliaia di dollari nel corso degli anni. Il Wall Street Journal, citando fonti anonime, ha riferito che durante un intervento alla Goldman Sachs, la Clinton in qualche modo assolse i banchieri rispetto al big crash del 2008, dicendo che non si era trattato degli unici responsabili ed anzi «Siamo tutti nella stessa barca e ora dobbiamo trovare il modo di uscirne tutti insieme». Diverse persone che hanno assistito ai suoi discorsi hanno descritto la senatrice come “gushy”, troppo espansiva e accomodante. In generale l’impressione dei partecipanti è che l’atteggiamento della Clinton fosse particolarmente “amichevole” nei confronti della platea.
A partire dal 2013, tra le dimissioni da Segretario di Stato e il lancio della campagna presidenziale, l’ex first Lady avrebbe ricevuto 4.1 milioni di dollari dalle principali istituzioni finanziarie americane per colloqui a porte chiuse con i vertici di Wall Street. Avrebbe presenziato a tre conferenze organizzate da Goldman Sachs e a due della Deutsche Bank; sarebbe inoltre intervenuta alla Morgan Stanley, Bank of America Corp. e UBS.
UNA VITTORIA DELLA DESTRA POTREBBE PESARE SULLA CRESCITA. E GLI INVESTITORI HANNO GIÀ INIZIATO A RIDURRE L’ESPOSIZIONE AZIONARIA
Ma fermo restando il rapporto ultra chiacchierato tra la Clinton e l’alta finanza, a preoccupare davvero i mercati è l’incognita Trump. Più si fa strada l’ipotesi che sia proprio l’imprenditore immobiliare a vincere la nomination repubblicana, più gli investitori vendono gli stock U.S.A. I mercati raramente beneficiano della mancanza di prevedibilità e Trump, in questo senso, rappresenta un  vero e proprio incubo. L’agenzia di stampa britannica Reuters agli inizi del mese di marzo ha raccolto alcune testimonianze di operatori finanziari come quella di Phil Orlando, senior portfolio manager e chief equity strategist alla Federated Investors di New York che ha iniziato a ridurre la sua esposizione azionaria già a partire da gennaio a causa delle forti preoccupazioni di natura politica impersonificate da Donald Trump capofila del Grand Old Party. I fattori che contribuiscono ad agitare i mercati sono ovviamente molteplici ma in questo momento è alto il numero di investitori che si dicono allarmati per l’ascesa del miliardario: la sua retorica nazionalista e le tendenze isolazioniste potrebbero essere potenzialmente distruttive per un’economia già in affanno. In altre parole, la paventata “Grande Muraglia americana” potrebbe anche significare una riduzione dei flussi commerciali e ostacolare quindi la crescita globale. Ed è ovvio che i Diavoli di Wall Street non potranno mai concedere la loro benedizione.
Dato il quadro generale, la finanza non si limita a osservare dall’esterno ma in alcuni casi entra in partita attraverso i Super Pac (Super political action committees), organizzazioni di raccolta fondi che contribuiscono in maniera privata, indipendente e spesso massiccia, a finanziare le campagne presidenziali degli Stati Uniti. Secondo quanto riportato dal Corriere della Sera dei 290 milioni  di dollari raccolti dai Super Pac agli inizi di febbraio, 115 – ovvero quasi un terzo – provengono dal mondo della finanza. Tra le sponsorizzazioni più imponenti quella di George Soros – che a dicembre 2015 aveva già donato 8 milioni a sostegno della campagna di Hillary Clinton – e di Robert Mercer – 11 milioni di bigliettoni ai comitati pro Cruz. Il vincitore dei Super Pac rimane comunque Jeb Bush che nonostante sia  ormai fuori dai giochi ha raccolto in suo favore 118 milioni mentre la Clinton è ferma al palo dei 52, Sanders accetta solo donazioni individuali e Trump si autofinanzia. Segno evidente che nella “Race for the White House” l’unico primato che conta sarà quello ottenuto il prossimo 8 novembre

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