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MONITOR


ven 16 dicembre 2016

NEW YORK, TRA TERRITORIO E PSICHE

Il filo è l'eccedenza di vita di questa città, che racchiude in sé tutte le contraddizioni e ha saputo raccontarle tutte. E per questo è sopravvissuta. Sì, la capacità di raccontarsi è il segreto della città. E allora eccolo, il filo delle storie. Si dipana dal Settantasette del punk in lotta con la nascente discomusic e poi ancora più in là, il filo raggiunge quel 1997 che, in un’indimenticabile pellicola di John Carpenter, mette in scena la distopia di una Manhattan trasformata in un gigantesco carcere di massima sicurezza. Eppure, c’è qualcosa che non torna in questa deriva tra territorio e psiche, immaginario e ricordo, lungo le vie della Grande Mela. Come un inciampo lungo il cammino, una brusca cesura del filo, un vuoto che è difficile rappresentare

Parlano sempre i muri delle città. A New York City urlano.
La città sul fiume Hudson è un potentissimo dispositivo mitopoietico: un generatore esponenziale di storie, miti e leggende metropolitane. Un gigantesco set cinematografico che dà corpo alle rappresentazioni collettive. È come se New York fosse lì apposta per essere raccontata. Film, romanzi, serie tv ne compongono la narrazione lunga e interrotta. Un mantra cui è impossibile resistere.
Vagare a Soho non significa girare per negozi di lusso e ristoranti patinati. No, Soho è ancora la casa di Andy Warhol e Basquiat. E non ti spingi sulla Bowery e nel Lower East Side per i caffè trendy e le gallerie d’arte, ma per il sogno d’incontrare Joey Ramone e tutti i punk reietti che suonavano al CBGB. E ad Est fino ad Alphabet City ci arrivi per la Wild Side di Prince e Lou Reed, le feste selvagge e le rivolte di Tompkins Park. E il murales di Joe Strummer su un palazzo ristrutturato non è quello originale, ma sta lì per incendiare l’immaginazione.
Lo stesso succede con la letteratura e col cinema.
Se attraverso l’East River, a Bed Stuy cerco la pizzeria di Fa’ la cosa giusta, il caldo torrido e le radio enormi che suonano i Public Enemy. Bed Stuy è un quartiere elegante, adesso, anche se il fascino rimane. Poi mi sposto a Prospect Park e raggiungo Boerum Hill nella terra di Paul Auster, tra donne meravigliose e librerie incantate. E quando arrivo a Dean Street, quasi mi sembra di vedere il povero Dylan Ebdus de La fortezza della solitudine, col suo anello magico in un quartiere dov’era un miracolo sopravvivere, specie se eri un geek.
Romanzi e film, a ogni passo. Scoprire è riconoscere. Conoscere è quasi ricordare.
Nell’orribile Times Square, invasa da giganteschi schermi pubblicitari e da milioni di turisti che camminano in fila per vedere chissà cosa, chiudi gli occhi e sei nel taxi, in quel taxi, con Robert De Niro e Jodie Foster. Attraverso le strade del vecchio quartiere a luci rosse, stai andando ad affrontare il pappone Matthew “Sport” (Harvey Keitel) nell’East Village. Oppure, se qualcuno per caso t’invita a casa, cerchi gli interni dei film di Woody Allen, quelle case che hai sognato per anni: senza lusso ma con uno stile che sembra dire “è proprio questa New York”.
Nella deriva continuo a camminare e vedo un campo di basket e penso White man, can’t jump, non è vero, Spike? Sì, lo so che non è un tuo film, ma You got game, man, e – se trovo un biglietto per il Madison Square Garden, cerco i tuoi occhialoni durante tutta la partita, anche perché i Knicks non vincono mai.
Questa deriva potrebbe durare giorni e intanto prendo una bici, su per il Brooklyn Bridge arrivo a Brooklyn Heights. E vado a omaggiare Adam Yauch nel suo parco. Adam, ci hai lasciato troppo presto: Fight for the right to party and Fuck the trump nazis, che ti hanno oltraggiato con scritte orribili.
Non mi fermo, passo per Red Hook e arrivo a Sunset Park. Non ci sono più gli squatter di Paul Auster, ma questo parco sconosciuto è un gioiello. E sulla costa opposta, il sole al tramonto incendia proprio i grattacieli di Wall Street. Ma l’astro è ancora alto e devo arrivare al mare, alla spiaggia, al luna park, a Coney Island nelle scene di Stardust Memories, la pellicola più odiata di Allen, ma anche il suo omaggio a Federico Fellini. È a Coney Island che tornano i Warriors, nel leggendario film di Walter Hill, dopo una lunga notte da prede nelle strade di New Work. Ed è lì che monta il piano sovversivo della fsociety nella serie Tv Mr. Robot.
Forse siamo fortunati noi, ultimi turisti di un passato recente. Noi della generazione contemporanea ai film di Woody Allen e Spike Lee, ai romanzi di Lethem e Chabon. Noi che abbiamo ascoltato in diretta il racconto di una città viva, piena di conflitti. Tremendamente viva. Una città capace di plasmare i nostri sogni, la nostra vita.
Discendo Downtown, passo la Canal Street di Chinatown, arrivo a Wall Street e alzo la testa. Perché a Wall Street si alza la testa al cielo. Immagino il 1973, Philippe Petit che attraversa lo spazio fra le altissime torri camminando su un filo, immagino quello che hanno raccontato in tanti, compreso De Lillo in Underworld, e penso alla pallina da baseball in quel libro, e mi chiedo quale sia il filo conduttore che mi guida in questa deriva.
I Subway Drawings di Keith Haring a Travis Bickle in Taxi Driver, da Blondie a Michael Stipe che canta Leavin’ New York, Never Easy, a Broadway di Hamilton dove contestano Trump e fanno le rap battlecon gli articoli della Costituzione. Questo è il filo. Il monologo di Montgomery Brogan davanti allo specchio di un bar del Queens: Fuck the all city and everybody in it.
E se Central Park è un immenso «prato sintetico», io ci cammino come fosse l’ultimo pezzo di verde sul pianeta Terra, e corro, e ricordo le maratone che ho fatto, i pianti al traguardo, le gambe sostenute dall’emozione di correre dentro il mio immaginario.
Il filo è l’eccedenza di vita di questa città, che racchiude in sé tutte le contraddizioni e ha saputo raccontarle tutte. E per questo è sopravvissuta. Sì, la capacità di raccontarsi è il segreto della città.
E allora eccolo, il filo delle storie. Si dipana dal Settantasette del punk in lotta con la nascente discomusic, quel Settantasette del blackout narrato da Garth Risk Hallberg in Città in fiamme, agli anni Ottanta de Le mille luci di New York e di Gordon Gekko, il Signore dell’insider trading, gli Eighties di Bret Easton Ellis e dello yuppismo omicida di Patrick Bateman in American Psycho. E poi ancora più in là, il filo raggiunge quel 1997 che, in un’indimenticabile pellicola di John Carpenter, mette in scena la distopia di una Manhattan trasformata in un gigantesco carcere di massima sicurezza.
Eppure, c’è qualcosa che non torna in questa deriva tra territorio e psiche, immaginario e ricordo, lungo le vie della Grande Mela. Come un inciampo lungo il cammino, una brusca cesura del filo, un vuoto che è difficile rappresentare.
La sensazione di disagio cresce, contenuta a malapena dal frame che, all’inizio de La 25ª ora, ritrae – per la prima volta al cinema – Ground Zero. Poi la sensazione si traduce in una domanda: quale New York continuiamo a raccontare e immaginare? Quella del passato? Quella di un futuro prossimo o di un presente alternativo popolato dagli hacker di Mr. Robot
E perché non la città di 9/11 o quella di Donald Trump?
Non bastano i rimandi di serie tv come CSI New York. E nemmeno le soluzioni fantascientifiche adoperate in The Fringe, in cui si racconta un transito multidimensionale e un punto del multiverso dove le torri del World Trade Center sono ancora in piedi. Una soluzione simile è adottata anche da Paul Auster in Uomo nel buio, nelle cui pagine figura un’America alternativa, devastata dalla guerra civile al tempo della prima elezione di Bush il Giovane: le Twin Towers, però, disegnano ancora lo skyline di Manhattan. E non è sufficiente la rappresentazione delle violente contraddizioni razziali e della sordida islamofobia che agitano New York nella fiction The Night Of. E la vertigine del vuoto non è esorcizzata neanche dal gesto narrativo tracciato da Don DeLillo nel romanzoL’uomo che cadde.
All’altezza del settembre nero del 2001, qualcosa si inceppa nella macchina mitopoietica e narrativa di New York City, e dell’America. Perché 9/11 interrompe il racconto della città.
E al contrario di quanto accade per altri tragici momenti della storia americana (dalla Seconda guerra mondiale alla paranoia atomica, da Dallas al Vietnam), 9/11 rimane la Gorgone che pietrifica lo sguardo del narratore, come se l’eccesso di immagini della catastrofe inibisse il racconto. Ma fino a quando il rimosso non diventerà parola, continueremo a essere ultimi fortunati turisti di un passato recente, flâneur nelle strade dei miti metropolitani. E New York resterà l’indimenticabile scena di un vecchio film.
Indimenticabile, la scena, sì. Ma vecchio, il film.
Soundtrack

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