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ven 12 maggio 2017

MOON L’EQUILIBRISTA: LA NUOVA COREA DEL SUD TRA USA, CINA E KIM

Usa, Corea del Nord, Terza guerra mondiale paventata (e scampata). E la Corea del Sud? Ecco chi è il nuovo presidente che da Seul vuole riaprire il dialogo bilaterale con Pyongyang per arrivare a una soluzione pacifica della questione nordcoreana, riacquistare voce ai tavoli internazionali, destreggiarsi nella regione rispetto al gigante cinese e soprattutto capire cosa vogliono gli Usa di Trump.

In tutte queste settimane di terza guerra mondiale paventata – e scampata – dai media occidentali, nell’elenco dei protagonisti della vicenda coreana è mancato sistematicamente un esponente della Corea del Sud. Fatto quantomeno curioso, visto che a sud del 38esimo parallelo ci sono più di 50 milioni di persone di fatto esposte in prima linea alle intemperanze politico-emotive di Kim Jong-un, o di Donald Trump, o di entrambi.
L’impressione è che la Corea del Sud, tecnicamente ancora in guerra con la Corea del Nord dal 1953, venga data per scontata: un avamposto democratico e filo-occidentale in Asia Orientale talmente allineato alla politica estera statunitense nell’area da non dover essere nemmeno interpellato; una sicurezza.

Moon Jae-in e il leader nordcoreano Kim Jong-un

Il ruolo di Moon, lo stabilizzatore

Moon Jae-in, il nuovo presidente sudcoreano eletto col 41 per cento delle preferenze lo scorso 9 maggio, non intenderà certo stravolgere l’assetto geopolitico dell’estremo oriente ma, candidamente, qualcosa potrebbe cambiare.
La vittoria di Moon, ampiamente annunciata dai sondaggi e dal polso dell’opinione pubblica sudcoreana, è arrivata in seguito a uno scandalo di mazzette, pseudospiritualismo e manovre alla Rasputin che, nel giro di qualche mese, ha spazzato via la precedente amministrazione Park assieme ai vertici del gotha industriale sudcoreano.

Il voto del 2013: la Lady di Ferro e gli scandali

Park Geun-hye, prima presidentessa della Corea del Sud e figlia del dittatore Park Chung-hee, aveva vinto le elezioni del 2013 – battendo proprio Moon – con la promessa di imbrigliare lo strapotere dei chaebol, i conglomerati sudcoreani gestiti a livello dinastico ciclicamente al centro di scandali di corruzione ed evasione fiscale.
La fama di Lady di Ferro del Partito conservatore sudcoreano (Saenuri) franò rovinosamente alla fine del 2016, quando la stampa nazionale iniziò a dare conto dell’accesso a informazioni confidenziali da parte di Choi Soon-sil, amica di Park senza alcun ruolo istituzionale o politico. Choi, figlia di uno pseudosciamano molto vicino al padre di Park, approfittando del suo ruolo di “amica” e “consigliera” della presidentessa, secondo l’accusa fu in grado di estorcere decine di milioni di dollari ai chaebol nazionali in cambio di favori politici “consigliati” alla stessa Park.
Nel giro di tre mesi la politica sudcoreana fu travolta da proteste oceaniche, arresti ai vertici del governo e dei conglomerati (tra cui Samsung) e, lo scorso 10 marzo, dalla conferma di impeachment per Park Geun-hye, lasciando il paese nelle mani di un governo ad interim in attesa di elezioni.

Il presidente sudcoreano saluta i sostenitori a Seul

La cavalcata (e le sfide) di Moon verso la presidenza

La campagna elettorale lampo sudcoreana, di conseguenza, è stata condotta come riflesso dell’ultimo scandalo, andando incontro alle principali preoccupazioni degli elettori sudcoreani che, parrà strano, con Kim Jong-un a pochi chilometri da casa risultano più in apprensione per le minacce interne al quieto vivere.
Corruzione, far ripartire l’economia, creare posti di lavoro e “ripulire” la politica locale sono state le parole d’ordine della cavalcata di Moon verso la presidenza, forte di una storia personale finora a prova di scandali.
Figlio di immigrati nordcoreani, attivista studentesco sbattuto in galera da Park padre, Moon è un avvocato per i diritti umani “prestato” alla politica dagli inizi degli anni Duemila, quando accettò di affiancare il presidente Roh Moo-hyun in veste di “tecnico” nell’ultima esperienza di governo del Partito democratico sudcoreano.
Nonostante il suicidio di Roh in seguito ad accuse di corruzione, nel 2009, Moon è considerato un politico “pulito” e moderatamente “di rottura”, chiamato a raddrizzare le storture interne della precedente amministrazione conservatrice. Un uomo, insomma, che i sudcoreani hanno scelto principalmente in ottica nazionale ma che, incidentalmente, si ritrova presidente in un passaggio storico dove l’attenzione della comunità internazionale sull’area è altissima, e non per un improvviso interesse globale alle trame politiche sudcoreane.

L’apertura alla Corea del Nord e l’equilibrio con gli Stati Uniti

Oggi Moon è chiamato a destreggiarsi nella geopolitica dell’area tra la Cina di Xi Jinping, gli Stati Uniti di Donald Trump e la Corea del Nord di Kim Jong-un. Un contesto dove l’approccio di Moon alla “minaccia nordcoreana” potrebbe davvero cambiare le carte in tavola.
Il neo presidente sudcoreano è stato infatti tra gli artefici della cosiddetta “Sunshine Politics” sudcoreana nei confronti di Pyongyang: una dottrina che, nei primi anni Duemila, alle sanzioni economiche e allo sfoggio di muscoli militare preferiva l’aiuto economico e la cooperazione con l’obiettivo di una “coesistenza pacifica” nella penisola.
Simbolo di tale politica fu l’apertura del polo industriale di Kaesong nel 2005, l’area ad amministrazione speciale in territorio nordcoreano dove si stabilirono oltre un centinaio di fabbriche sudcoreane, impiegando e pagando decine di migliaia di operai specializzati nordcoreani fino al febbraio del 2016, quando Park Geun-hye ne decretò la chiusura “temporanea” in risposta alle provocazioni di Kim Jong-un.
Il 10 maggio, primo giorno della presidenza Moon, la situazione era la seguente: Kaesong chiuso; Stati Uniti decisi a “risolvere” la questione nordcoreana con o senza l’aiuto cinese; Xi Jinping in difficoltà nel gestire contemporaneamente l’avanzata statunitense nell’area e le continue provocazioni nordcoreane; il sistema antimissile Thaad, americano, già installato e parzialmente operativo in territorio sudcoreano, in barba alle proteste locali e cinesi, che lo considerano uno stratagemma statunitense per spiare entro i confini della Repubblica popolare.
Un panorama frutto, anche, del non-governo sudcoreano degli ultimi mesi, puntualmente bypassato in processi decisionali dal respiro internazionale (la minaccia nordcoreana è “globale”, per gli Stati Uniti) ma dagli effetti decisamente locali.

Donald Trump e Xi Jinping

La Corea del Sud di Moon alza la testa

Se per anni la Corea del Sud è rimasta tecnicamente senza diritto di parola nelle questioni “dei grandi”, Moon ora sembra voler iniziare quantomeno a dare una voce a Seul nei tavoli che contano, con una ricetta audace e di buon senso:
riaprire il dialogo bilaterale con Pyongyang, ridiscutere l’installazione e l’operatività del Thaad in Corea del Sud, fare tutto il possibile per arrivare a una soluzione pacifica della questione nordcoreana, anche “andare subito in visita a Pyongyang”, come dichiarato in settimana.
Oltre alle provocazioni statunitensi e nordcoreane e alla mediazione cinese, la speranza di una voce sudcoreana chiara, nuova e quanto più autonoma possibile dalle ingerenze straniere non può che essere una buona notizia.

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