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gio 25 maggio 2017

MOODY’S TAGLIA IL RATING CINESE. PERCHÉ PECHINO SI SENTE SOTTO ATTACCO

Prima Moody's taglia il rating del debito sovrano cinese a A1 («rischio basso») e poi, per la prima volta da quando alla presidenza Usa c'è Donald Trump, una nave da guerra americana si avvicina «senza permesso» alle isole che Pechino rivendica come proprie nel mar cinese meridionale. Cosa sta succedendo?

Nel giro di due giorni la Cina si è nuovamente sentita sotto attacco: il 24 maggio Moody’s ha abbassato il rating del debito sovrano cinese a A1 («rischio basso») e il giorno dopo, per la prima volta da quando alla presidenza Usa c’è Donald Trump, una nave da guerra americana si sarebbe avvicinata «senza permesso» alle isole che Pechino rivendica come proprie nel mar cinese meridionale.
Per quanto riguarda il gesto di Moody’s, qualcosa che non avveniva dal 1989 quando la Cina a seguito dei fatti di Tiananmen si ritrovò completamente isolata e sottoposta a sanzioni, le orse asiatiche hanno reagito positivamente ignorando l’avviso di Moody’s (la cui decisione ha affiancato quelle prese già in precedenza da S&P e Fitch) che adesso, dopo Pechino, ha declassato anche Hong Kong; nonostante questo Tokyo ha chiuso in rialzo dello 0,38%, così come l’ex colonia britannica (0, 88%) e Shanghai all’1,56%.
Pechino ha definito la decisione di Moody «senza fondamento e inappropriata», mentre i media nazionali hanno segnalato che, se è vero che il debito cinese è salito al 253% del Pil, rispetto al 149% del 2008, è altrettanto vero che il debito di Pechino è totalmente nelle tasche delle banche statali, mentre quello estero è solo del 12% del Pil, secondo quanto dichiarato nei suoi documenti dal Fondo Monetario Internazionale.
Pechino ha vissuto questo evento come un attacco alla propria nuova «postura globale», sottolineata da Xi Jinping sia a Davos, sia al recente forum per il lancio del «Belt and Road Initiative» (BRI), la vera strategia globale cinese; non solo, perché la decisione di Moody’s è stata letta anche come un attacco diretto alla leadership di Xi Jinping impegnato nei preparativi del diciannovesimo congresso in autunno (non è ancora stata comunicata una data ufficiale), al quale punta di arrivare in una posizione di forza e senza alcuna smagliatura internazionale.
Quanto alle manovre militari americane nelle acque che la Cina rivendica come proprie, la reazione di Pechino è stata nervosa, come ci si poteva aspettare: il ministero della Difesa, attraverso un suo portavoce, ha fatto sapere che «la Cina ha una sovranità indiscussa» su quelle zone di mare e che «l’azione dell’esercito americano esibendo un’azione di forza e promuovendo la militarizzazione regionale, avrebbe potuto facilmente portare ad un incidente marittimo o aereo. L’esercito cinese ha espresso una solida opposizione e ha presentato una protesta ufficiale agli Stati Uniti».
Questo gesto della marina militare americana conferma lo scetticismo che regna in molti ambienti cinesi riguardo l’affidabilità di Trump: dopo la strategia «pivot to Asia» l’amministrazione di Washington non sembra aver abbandonato l’idea di circondare la Cina nella regione che Pechino considera «casa propria».
Dopo la recente accelerazione dell’installazione del sistema Thaad in Corea del Sud, questo gesto viene letto come un’ennesima provocazione da parte di Washington, proprio dopo l’incontro di inizio aprile tra i due presidenti in Florida cui erano seguiti importanti accordi commerciali, annunciati proprio una decina di giorni fa, nel pieno della «crisi coreana».

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