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ven 22 giugno 2018

I MONDIALI COME STRUMENTO DI SOFT POWER

Il grande evento sportivo ha sempre avuto significati politici prima ancora che atletici. Dalle Olimpiadi naziste di Berlino 1936 ai Mondiali di calcio della dittatura di Argentina 1978, quando gli stessi paesi fingevano di non vedere torture, omicidi e deportazioni di massa. Dalle Olimpiadi commerciali di Atlanta 1996, imposte a casa propria dalla nota bevanda gassata alla faccia del centenario che spettava ad Atene, ai Mondiali di Brasile 2014, che segnano la fine del più solido progetto neo-bolivarista sudamericano, quello impostato da Luiz Inácio Lula da Silva e Dilma Rousseff. Non fa quindi eccezione la Coppa del Mondo di Russia 2018, dove si stanno giocando strane partite per il calcio, il cui significante è chiarissimo per il valore della manifestazione: non più avvenimento sportivo, bensì uno strumento di soft power.

Pochi giorni fa. Campetto all’estrema periferia settentrionale di Londra.
Un silos di mattoni con scritto CAFE sovrasta l’unica tribuna, in parte coperta, che ospita a fatica qualche centinaio di spettatori. Halil Turan si avvicina al dischetto, tira, sbaglia. I giocatori di Cipro del Nord – autoproclamatosi stato dopo l’invasione turca degli anni Settanta – si accasciano sconsolati sul terreno di gioco. Hanno perso.
Quelli della Transcarpazia – a essere più precisi quelli della minoranza ungherese della Rutenia Subcapratica – invece festeggiano. Sono loro i Campioni del Mondo. Hanno vinto il Mondiale delle nazioni non riconosciute, affiliate alla CONIFA.
Alcuni giorni dopo. Stadio Lužniki, pieno centro di Mosca.
Nel vecchio Stadio Olimpico russo, il cui restyling mondiale è durato cinque anni e costato approssimativamente 350 milioni di euro, ottantamila spettatori assistono alla partita inaugurale dei Mondiali di Russia 2018. In campo i padroni di casa e l’Arabia Saudita.
Una partita strana per il calcio. Un significante chiarissimo per il valore della manifestazione. Non più avvenimento sportivo, bensì strumento di soft power.
Il grande evento sportivo ha sempre avuto significati politici prima ancora che atletici. Dalle Olimpiadi naziste di Berlino 1936, quando le democrazie occidentali ancora si spellavano le mani per il Führer, ai Mondiali di calcio della dittatura di Argentina 1978, quando gli stessi paesi fingevano di non vedere torture, omicidi e deportazioni di massa.
Dalle Olimpiadi commerciali di Atlanta 1996, imposte a casa propria dalla nota bevanda gassata, alla faccia del centenario che spettava ad Atene, ai Mondiali di Brasile 2014, che segnano la fine del più solido progetto neo bolivarista sudamericano, quello impostato tra mille difficoltà e controversie da Luiz Inácio Lula da Silva e Dilma Rousseff.
Non fa quindi eccezione la Coppa del Mondo 2018. Solo, arriva forse nel momento peggiore per la Russia. Mentre di solito le spese si moltiplicano, tra quanto prospettato all’inizio e i costi finali, in questo caso ci sono stati ingenti tagli. A fronte di un budget previsto di una ventina di miliardi di euro – tra stadi, infrastrutture e trasporti – alla fine ne sono stati spesi poco più di dieci. Equamente divisi tra investimenti pubblici e privati
Dopo una lunga recessione e una perdurante svalutazione del rublo, l’economia russa sta piano piano riprendendo a crescere. E il Mondiale, richiesto nel 2009 e assegnato nel 2010, quando ancora la crisi non sembrava sistemica, può tornare a essere l’ennesimo tributo alla rinnovata grandeur del vecchio impero.
Quello cui guarda l’ultimo zar Vladimir Putin, capace dopo la disgregazione postsovietica di riproporre la Russia come pedina fondamentale dello scacchiere geopolitico internazionale: dall’Europa dell’est al Medioriente, dalle vie artiche commerciali e tecnologiche fino alla supposta influenza negli affari interni americani.
Al di là del gioco di individuare i presenti e gli assenti durante la partita inaugurale, per stabilire chi sono gli amici e i nemici di Putin, è chiaro che per la Russia la Coppa del Mondo di calcio è il dessert giunto alla fine di un lauto pasto.
La Russia, che una volta URSS faceva tremare il mondo con Lev Jašin e Oleh Blochin, vinceva gli Europei del 1960 e giusto un attimo prima di scomparire arrivava alla finale degli Europei del 1988, è precipitata al settantesimo posto del ranking Fifa. Dietro Panama e il Burkina Faso. Poco sopra la povera Siria e il minuscolo Curaçao.
Il timore, della stessa oligarchia che ha finanziato la manifestazione, è che questo dessert possa trasformarsi nella mentina che fa esplodere il signor Creosoto ne Il Senso della Vita dei Monty Python. Un clamoroso autogol.
Per questo in Russia il Mondiale è vissuto in tono minore. La portata principale dell’operazione di soft power sportivo sono state le Olimpiadi Invernali di Sochi 2014, nonostante si siano disputate all’apice della crisi, sono costate oltre 50 miliardi, quasi cinque volte il Mondiale. E hanno ridisegnato la fisionomia del paese. All’interno e all’esterno.
Non a caso, è stato dopo Sochi che dagli Stati Uniti è partita la clamorosa operazione antidoping che ha portato all’esclusione dell’atletica russa dalle Olimpiadi di Rio 2016.
Un’inchiesta di portata epocale che, se da un lato ha messo in luce come il doping sia un affare che coinvolge la politica e l’industria farmaceutica, dall’altra si è scientemente fermata alla sola Russia. E così nella gara più importante di Rio 2016, i 100 metri piani, la medaglia d’argento è andata all’americano Justin Gatlin, due volte squalificato per doping. Tanto per rimettere le cose nella giusta prospettiva.
E così, nella partita inaugurale allo Stadio Lužniki, la Russia affronta l’Arabia Saudita – sessantasettesima nel ranking Fifa, ben tre posti sopra i padroni di casa – in un girone di qualificazione che, escluso l’Uruguay, ha poco di calcistico e molto di politico
Insieme alla Russia nel Girone A c’è l’Egitto del dittatore Al Sisi, con cui Putin è stato tra i primi a congratularsi dopo le ultime “elezioni”. Un paese con cui gli affari sono ottimi, a partire dalle armi fino alla costruzione della prima centrale nucleare in Nord Africa che sarà costruita in territorio egiziano da mani russe.
E poi, appunto, l’Arabia Saudita dell’erede al trono Mohammad bin Salman, già soprannominato il Putin mediorientale, il principe “riformatore” che mentre investe in nuove tecnologie e intelligenza artificiale prosegue la repressione nel suo paese e confini, attraverso le cruente invasioni di Yemen e Bahrain.
In quelle reti a interconnessioni variabili che segnano i flussi delle alleanze nella globalizzazione, si muovono anche le tifoserie.
È noto come per anni le più violente tifoserie dei club russi siano state fedeli cani da guardia del potere. Utili idioti al servizio di Putin, dell’ex ministro dello sport e attuale vicepremier Vitaly Mutko, dei partiti ultranazionalisti e di estrema destra. Gli ultras russi sono stati usati per azioni di sabotaggio e guerriglia, per “pacificare” vicini che disturbavano o interi quartieri cittadini che si risvegliavano. Hanno guidato pogrom contro minoranze etniche e religiose, comandato azioni squadriste durante i gay pride.
Per il Mondiale però l’ordine è stato chiaro, niente casini. Tolleranza zero per i famigerati hooligan, già da mesi controllati e monitorati da un’apposita sezione del FSB (il servizio segreto russo). Non si può disturbare l’ostentazione di potenza.
Ma non è detto che i tifosi ubbidiranno. Come nelle ultime manifestazioni internazionali, e come accaduto anche nelle ultime competizioni europee per club, oggi va di moda la caccia all’inglese. Oramai da tutto il mondo, in una stanca replica di battaglie mai state epiche, si vuole prendere lo scalpo dei vecchi maestri oramai imbolsiti per diventare i nuovi fari dell’hooliganismo globale.
E poi, appunto, alleanze variabili che si basano su antichi accordi rinvigoriti tra russi e argentini contro gli inglesi, che potrebbero allearsi con gli storici avversari della Russia, ovvero Polonia e Croazia. E anche con i francesi dopo le battaglie di Euro 2016. Se i serbi faranno da apripista ai russi, c’è curiosità per i battitori liberi svizzeri. Il tutto, comunque, accadrà lontano dagli stadi. Come oramai succede da anni.
Se il grande evento sportivo è la prosecuzione delle guerre con altre mezzi, tra tifosi, multinazionali e stati, a Russia 2018 si gioca anche a calcio. Gli algoritmi di Goldman Sachs dicono che il Brasile vincerà in finale sulla Germania.
E per quanto il risultato finale sulla sesta brasiliana è il più probabile, l’analisi calcistica matematica basata sugli algoritmi ha sempre lasciato il tempo che trova. A partire proprio dal Girone A, dove analizzando i dati Goldman Sachs classifica all’ultimo posto l’Egitto. La squadra dove però gioca quello che, infortunio permettendo, è il calciatore più forte del momento: Mohamed Salah.
Toccherà a lui dimostrare che il calcio non è né il risultato esatto di un’equazione, e nemmeno uno sport, ma un gioco. E in quanto tale sempre sorprendente e imprevedibile.
Russia 2018 sarà il primo Mondiale con il Var, con un’innovativa resa in 3D per analizzare meglio il fuorigioco. E quello più social di sempre. Con le Big Tech che prevedono un’ulteriore impennata dei guadagni in vista del prossimo, Qatar 2022, che sarà affare esclusivamente loro. Difficilmente lo spettatore umano sarà contemplato nel deserto del Golfo Persico.
Russia 2018 sarà il Mondiale dei brasiliani Neymar, Coutinho, Marcelo, Firminio, e Gabriel Jesus, favoriti a patto di dimenticare il mineiraço di quattro anni fa contro la Germania. Proprio i tedeschi di Kroos, Otzil, Neuer e Muller, sono la principale alternativa, anche perché superata la fase a gironi dovrebbero andare dalla parte opposta del tabellone. Seguono la Francia di Griezmann, Mbappé, Thauvin e Dembelé. L’Argentina di Messi, Aguero, Higuain, Di Maria e Lo Celso. E la Spagna di Iniesta, Ramos, Assensio e David Silva.
Più indietro la giovane Inghilterra di Alli, Kane e Sterling e l’oramai maturo Belgio di De Bruyne e Hazard, il Portogallo di Cristiano Ronaldo e Bernardo Silva e l’Uruguay di Suarez e Cavani. Al Senegal di Mané, all’Egitto di Salah e alla Nigeria di Iheanacho, il compito di provare a traghettare per la prima volta nella storia una squadra africana oltre lo scoglio dei quarti di finale.
Russia 2018 sarà anche il Mondiale senza Italia. Rimasta a casa, a chiudersi ulteriormente in sé stessa, pensando che il problema siano i migranti da abbandonare in mare. Le cause della débâcle mondiale azzurra contro la Svezia sono molteplici. Investono il sistema calcio e il sistema paese.
Per mille ragioni la via per il ritorno dell’Italia al Mondiale, oggi, la può indicare un ragazzo solo. Il suo nome è Mario Balotelli.

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