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MONITOR


mar 27 settembre 2016

L’UOMO CHE ODIAVA I MIGRANTI

#iDiavoliLongForm Barriere, ordine, controllo, identificazione e rimpatrio: la retorica di Viktor Orbán segue questo schema. Leader della destra populista ungherese, al secondo mandato da premier, propone i rastrellamenti per i migranti irregolari ed etichetta l’arrivo dei richiedenti asilo come «un veleno». Siamo nel 2016 e tutto questo accade nella democratica Europa, dove il 2 ottobre con un referendum gli ungheresi decideranno sul ricollocamento dei migranti.

Sfacciata ipocrisia, dopo che per anni e anni i migranti sono stati trattati come armi nelle campagne elettorali: si scrive sicurezza, si legge guerra alle donne e agli uomini in transito. Quasi ogni partito sventola la bandiera securitaria, quando le consultazioni sono imminenti, e l’equazione migranti-terrorismo è la formula magica del consenso. Da Muri di terra e muri di mare, la partita dei migranti – Il Tredicesimo Piano
Anno 2016, Europa unita e democratica. C’è un uomo che – dicono– «ha sempre una risposta a tutto». Il suo motto è «ripristinare l’ordine», il suo diktat «controllo, identificazione e rimpatrio». Il refrain ha la voce di Viktor Orbán, al secondo mandato da premier in Ungheria. Probabilmente la maggior parte degli europei sente parlare di lui sistematicamente da poco più di un anno. Le cronache, infatti, associano da mesi il suo nome alle immagini dei profughi fermati e arrestati, lasciati da soli oltre una barriera di filo spinato ai confini ungheresi. Per Orbán gli arrivi dei richiedenti asilo in Europa non sono altro che un «veleno», perché l’Ungheria – le parole sono del luglio scorso – «non ha bisogno di un singolo migrante per l’economia o per il suo futuro». L’equazione è sempre la stessa: migranti uguale pericolo, terrorismo, combattenti (intesi come integralisti islamici). È questa la narrazione che da mesi il leader della destra populista di Fidesz instilla nel dibattito ungherese ed europeo. Ma è andato ben oltre. A maggio scorso è riuscito a fare approvare dal Parlamento un referendum sulle quote di distribuzione dei migranti. Il 2 ottobre l’Ungheria è il primo Paese europeo ad andare alle urne per valutare le politiche Ue sulla questione. Viste le ultime proposte di Orbán annunciate al giornale online ungherese “Origo” – ovvero «rastrellare i migranti irregolari» e deportarli «su un’isola» africana – il futuro non promette bene. [Al referendum non è stato comunque raggiunto il quorum, ma il dato politico resta: leggi qui, ndr]

La parabola di un anti-comunista che voleva chiudere con il passato

Sul sito ufficiale del primo ministro campeggiano le foto di Viktor Orbán sorridente, circondato dalla moglie e dai cinque figli. C’è addirittura una sezione specifica chiamata “la famiglia”. Il curriculum racconta la vita di un (apparente) uomo modello: prima studente, sportivo, poi politico impegnato e padre. Nato il 31 maggio del 1963 in un villaggio di nome Alcsútdoboz, Orbán si sposta a Budapest per studiare legge e poi a Oxford per approfondire la storia della filosofia politica liberale inglese. Nel 1988 è membro fondatore della Federazione dei Giovani Democratici, Fidesz. Un anno dopo arriva l’episodio che segna l’inizio effettivo della storia di Orbán come politico. È il 16 giugno1989, il giovane Viktor pronuncia un discorso in occasione della cerimonia funebre dell’ex primo ministro Imre Nagy, ucciso dopo la rivoluzione del 1956. «Chiede il ritiro di tutte le truppe sovietiche presenti in Ungheria, invoca elezioni libere», si legge nella biografia che lo incensa come oppositore. Entra il parlamento nel 1990 e tre anni dopo diventa leader del suo partito. Nel 1998 conquista la poltrona da primo ministro di un governo di coalizione di centro-destra, che durerà fino al 2002. Il CV non menziona gli scandali legati alla corruzione e i periodi bui che portano il premier all’opposizione. Quando vince le elezioni nel 2010 e diventa di nuovo premier, Orbán dice che la sua vittoria rappresenta per gli ungheresi la voglia di «chiudere il capitolo del post-comunismo». Le accuse di soffocatore del dissenso – è soprannominato “Viktator” – si affiancano a quelle di corruzione. Nel 2014 prima cede alla piazza che protesta (migliaia di persone in strada a Budapest per tre giorni consecutivi a ottobre) contro la tassa sul web e ritira la misura, poi però a dicembre fa infuriare gli ungheresi perché taglia i sussidi di disoccupazione e i contributi sociali per gli alloggi in nome di una «società basata sul lavoro». A febbraio 2015 in migliaia scendono ancora in piazza contro il governo. A questo si aggiunge la paura che il partito neonazista Jobbik acquisti consensi. Così i migranti diventano il capro espiatorio nella partita per il potere di un leader tanto «carismatico» quanto «spietato» secondo il “Times” di Londra, pronto a perpetrare quella che il “New York Times” ha definito una «politica di odio». Alzando barriere alle frontiere con Serbia e Croazia, invocandone altre ancora nella stessa area e un muro in Grecia, propagandando xenofobia e paura allarmanti anche per l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati (UNHCR) e Strasburgo, Orbán a dicembre 2015 raggiunge un consenso record nei sondaggi. L’istituto Medianlo dà al 51 per cento, seguito al 21 per cento da Jobbik. Nel 2016 inizia la sua lunga e costante battaglia contro le politiche dell’Unione europea e le quote di distribuzione dei migranti. Il discorso sullo Stato dell’Unione del presidente della Commissione Jean-Claude Juncker a metà settembre (qui l’analisi de “i Diavoli”) dimostra che, in parte, Orbán ha ottenuto quello che voleva. Ecco come sono andate le cose e come si è arrivati al referendum del 2 ottobre.

Spinte nazionaliste nella fortezza Schengen: verso il referendum 2016

«Bisogna fermare l’immigrazione di massa, e finché i dirigenti dell’Ue non saranno in grado di farlo, la crisi sarà presente e si approfondirà», tuona Orbán dopo un incontro con la sua omologa polacca Beata Szydlo. È inizio febbraio 2016 e i due, che fanno parte del gruppo di Visegrad insieme ai colleghi della Repubblica Ceca e della Slovacchia, invocano la chiusura delle frontiere meridionali della zona Schengen. Scalpita Orbán, come fremono gli altri: vuole maggiore potere decisionale, svincolato dalle imposizioni europee. La rotta balcanica viene sbarrata ai profughi. Dieci giorni dopo il premier alza ancora i toni, aumenta il senso di urgenza che trasmettono le sue parole: «La chiusura dei confini è giusta e noi continueremo a tenere chiuse le nostre frontiere con Serbia e Croazia e se necessario chiuderemo anche quello con la Romania». E ancora: «Bisogna difendere i confini esterni dell’Europa e i migranti devono essere fermati. L’Ungheria contribuirà alla chiusura del confine sud della Macedonia e la Bulgaria». Il leit motiv è: «Controllo, identificazione, e rimpatrio», «siamo contro il ricollocamento», «accoglienza zero in Ungheria». Il 9 marzo il governo proclama lo stato di emergenza. Altri mille e cinquecento soldati vengono spediti al confine con la Serbia. Lo annuncia il ministro dell’Interno Sandor Pinter che rivendica il diritto dell’Ungheria a difendere le proprie frontiere «se necessario». Ad aprile Orbán scrive una lettera alla Commissione Ue, presentando il suo piano per risolvere la crisi: uno Schengen rivisitato che propone il rafforzamento della «difesa» alle frontiere, con le guardie di confine, ma ribadisce la bocciatura di qualsiasi proposta di redistribuzione dei migranti in territorio ungherese. Lascia intendere che ci sia margine di dialogo con la tedesca Angela Merkel, la donna che ha aperto le porte ai migranti e ne ha pagato le spese un anno dopo alle urne (qui il focus de “i Diavoli”). Orbán smorza il suo storico anti-europeismo, ma tiene le fila di una trattativa con Bruxelles per cambiare (o, meglio, snaturare) l’Unione dall’interno. Raggiunto il picco di gradimento in patria, gioca contemporaneamente la migliore carta populista: il referendum. Il 10 maggio il parlamento approva la proposta referendaria avanzata dal governo: chiedere agli ungheresi se vogliono che l’Europa imponga o meno, senza autorizzazione parlamentare, il ricollocamento dei migranti nel Paese. Il 5 luglio il presidente della Repubblica, János Áder, indice ufficialmente il referendum. Ilquesito che gli ungheresi si troveranno alle urne il 2 ottobre è il seguente: «Volete o no che l’Ue possa obbligarci ad accogliere in Ungheria, senza l’autorizzazione del Parlamento ungherese, il ricollocamento forzato di cittadini non ungheresi?» Il numero di persone da reinsediare sarebbe pari a 1300 persone, ma la lotta di Orbán ha una portata molto più ampia. Per il premier ungherese il referendum rappresenta consenso in patria, potere di negoziato con l’Ue anche per il futuro, ma soprattutto «indipendenza» da Bruxelles. E proprio da Bruxelles – sotto pressioni della cancelliera tedesca Angela Merkel – il 20 marzo 2016 veniva siglato l’accordo con Ankara per la gestione dei flussi di profughi verso l’Europa. Il patto stabilisce che la Turchia faccia da “diga” migranti (qui il focus de “i Diavoli”): gli irregolari arrivati in Grecia devono essere rispediti in Turchia. Prevede anche il ricollocamento dei richiedenti asilo. È questo il trait d’union politico tra la retorica «dell’accoglienza zero» di Orbán, che insinua sospetto e paura dell’altro nell’elettorato, e il referendum. È questo il passaggio storico in cui, con un atto politico, uno Stato nazione si ribella de facto alle politiche comunitarie in materia di immigrazione. E lo fa chiedendo direttamente al popolo.
«L’alleanza con la Repubblica di Turchia, cruciale tassello di stabilizzazione nel quadrante orientale del Mediterraneo, ha lasciato mano libera ad Ankara nella gestione dei flussi di migranti. Così la nuova porta per l’Europa si è spalancata a Sudest, creando una pressione in costante aumento sulla frontiera greca e sui Balcani. Il risultato è coinciso con l’isolamento del governo di Atene, col blocco delle frontiere dalla Macedonia all’Austria e con la messa in discussione di Schengen» Da Muri di terra e muri di mare, la partita dei migranti – Il Tredicesimo Piano

«Difendere i confini», «rastrellare i migranti», proteggere l’identità

I binari della ferrovia, lungo il confine meridionale con la Serbia, rappresentano la porta d’ingresso all’Ungheria. Proprio lì a ridosso di un varco finanziario, poco più di un anno fa, a metà settembre 2015, la polizia ungherese cacciava i migranti. La pressione interna dei neonazisti di Jobbik era altissima e Orbán decideva di giocare la partita praticamente sulla pelle dei migranti. Nella notte tra il 14 e il 15 settembre 2015 l’Ungheria chiude anche l’ultimo passaggio ancora attraversabile della barriera anti-migranti. Filo spinato, reticolato, lunghe travi: è una costruzione che sigilla il confine per 175 chilometri, una recinzione eretta con il lavoro dei carcerati ungheresi. Dall’alba del giorno successivo viene arrestato chiunque tenta di attraversare illegalmente la frontiera. Respinta ogni domanda d’asilo. Schengen viene sospeso, ritornano i controlli alle frontiere. Austria, Slovacchia e Olanda seguono a ruota la decisione. Qualche giorno dopo, a fine settembre 2015, durante un incontro con la Csu Bavarese in Germania Orbán annuncia un’altra barriera. È ormai pronto a erigerla alla frontiera con la Croazia, perché – sostiene – Budapest è da sola e «non può contare sull’aiuto da sud, né della Serbia né della Croazia, né dell’Europa occidentale» e l’obiettivo numero uno è: «ripristinare l’ordine in Europa». Si scaglia contro quello che definisce «l’imperialismo morale» della Germania. In un’intervista a “Die Welt” snocciola anche numeri allarmanti sugli arrivi di migranti nel prossimo futuro: «Frontexparla di milioni, io credo sia plausibile che arrivino a 100 milioni». Un mese dopo l’ennesimo schermo anti-profughi è inaugurato.

Equazione migrazione uguale terrorismo

La cornice concettuale in cui Orbán inscrive i flussi migratori è banale, diretta alla pancia dell’elettorato, d’immediata comprensione. A ottobre 2015 sciorina nuovi slogan. Riferendosi ai profughi, dice: «Sembrano più guerrieri che richiedenti asilo», praticamente «un esercito». In trasferta, davanti al Congresso Ppe a Madrid, insinua il dubbioche nella massa dei migranti si nascondono anche «combattenti stranieri». Esordisce affermando: «Abbiamo un grosso problema». Poi continua: «Il problema migratorio è pericoloso: facciamo i conti con i rifugiati e i profughi, ma anche con migranti economici [si riferisce soprattutto ai cittadini afgani, ndr] e combattenti stranieri. È un processo fuori controllo». L’ultimo avvertimento suona quasi come una minaccia: «Questo problema potrà destabilizzare Paesi e governi in tutta Europa: abbiamo bisogno di una risposta chiara e ferma, di un piano di azione».A fine gennaio 2016, quando ormai è tronfio del successo interno e quasi certo che potrà negoziare maggior potere con Bruxelles, prosegue a passo svelto spingendo sul tasto sicurezza. Sempre cercando appoggio all’estero, questa volta a colloquio con il premier bulgaro Bojko Borissov, afferma: «Finora abbiamo considerato la migrazione di massa una questione umanitaria, economica e culturale, ma nelle ultime settimane abbiamo visto che ormai si tratta della nostra sicurezza nazionale, perché crescono le minacce terroristiche. Non è giusto che Bruxelles applichi doppi standard nei confronti della Bulgaria e non la faccia entrare nell’area Schengen dopo che il paese ha soddisfatto tutti i requisiti necessari».

L’identità da difendere

In patria Orbán conquista voti e popolarità, vendendo il muro come un simbolo di protezione dell’identità ungherese. I suoi discorsi identificano un nemico, un “noi Cristiani” versus un immaginario “loro musulmani”. Dice: «La polizia e l’esercito devono difendere l’Ungheria e l’Europa», devono «proteggere il nostro modo di vita», perché l’Ungheria è «un Paese con un migliaio di anni di cultura Cristiana». Aggiunge: «Noi ungheresi non vogliamo che il movimento mondiale di persone cambi l’Ungheria», «non vogliamo ancora musulmani». È recente un’intervista del suo portavoce, Zoltán Kovács, al quotidiano “La Stampa” dove il tema dell’identità ritorna al centro della narrazione anti-migranti: «Non siamo certo i primi e non saremo gli ultimi a costruire muri. Lo hanno fatto in Spagna, negli Stati Uniti, in Israele. Non ci piacciono, ma dobbiamo difenderci, non solo dai migranti: dal terrorismo e dalla dissoluzione della nostra cultura. Ogni Nazione ha un’identità. L’Europa ce l’ha nelle radici cristiane, romane ed ebraiche. L’Islam qui non c’entra niente».

Nuovi muri, vecchie barriere e un esercito europeo

È di febbraio 2016 l’annuncio di un ennesimo muro da costruire nella fortezza Europa. Secondo Orbán se Atene non è in grado di difendere i confini Schengen, allora serve un piano b. Dove c’è muro c’è sicurezza, almeno a detta sua. Sapendo di avere l’appoggio dei suoi omologhi in Slovacchia e Polonia, Robert Fico e Beata Szydlo, e del presidente ceco Bohuslav Sobotka, Orbán irrita ancora Bruxelles proponendo un «muro sul confine sud di Bulgaria e Macedonia». Pochi giorni dopo si dice pronto a sigillare anche la frontiera con la Romania. Ripete come un mantra: «Bisogna difendere i confini esterni dell’Europa e i migranti devono essere fermati». I muri sono nuovi, ma le barriere culturali contro chi è percepito come diverso sono vecchie e rievocano un periodo buio della storia continentale. Se arroccarsi per difendersi è la strategia, Orbán preme perché sia istituito un esercito europeo: «Dobbiamo dare priorità alla sicurezza e quindi iniziamo a fondare un esercito comune europeo» e dislocare la difesa Ue più a Sud possibile.

«Migranti da deportare su un’isola»

In ordine di tempo, l’ultima idea di Orbán contro i migranti arriva in piena campagna elettorale pre-referendum. Pochi giorni fa racconta al giornale online “Origo”: «Raccogliere tutti gli immigrati clandestini arrivati nell’Ue e deportarli su un’isola o da qualche parte in Nord Africa, sotto sorveglianza armata», tutto a spese Ue. Ripete che Budapest è contraria «all’insediamento obbligatorio di cittadini non ungheresi in Ungheria, anche senza il consenso del parlamento». Il futuro ungherese al momento sembra essere nelle mani di un leader di un Paese formalmente democratico che si augura la vittoria alla Casa Bianca di Donald Trump perché considerato in grado di «difendere la sovranità contro gli immigrati».

Il ricatto all’Europa e le pressioni su Juncker

«Più ampio sarà l’appoggio popolare al referendum e più facile sarà per noi difendere i nostri interessi a Bruxelles». Mentre è a Belgrado, a un mese dal referendum del 2 ottobre, Orbán lancia l’ennesimo avvertimento alla Commissione europea. Spiega ancora: «Noi vogliamo correggere le nostre mancanze e le nostre insufficienze ma non siamo disposti a cambiare il nostro carattere, vogliamo che l’Ungheria resti Ungheria sotto l’aspetto etnico e religioso, ma nella Ue tutto questo oggi non è importante, e noi abbiamo il diritto di difenderci con misure che non danneggino altri Paesi». Come già ripetuto allo sfinimento, Orbán è pronto ad agitare nazionalismo e xenofobia se l’Europa non recepisce il suo messaggio: proteggere i confini dall’«immigrazione incontrollata» intervenendo «il più a sud possibile». Semina tensione e instabilità: «Considerando la debolezza dell’accordo tra Ue, Turchia e Germania non possiamo escludere la possibilità di trovarci di fronte a una situazione simile a quella dello scorso anno».
Storicamente anti-europeista, nell’ultimo anno Orbán ha alternato critiche all’Unione, lasciando intendere che la possibilità di un’uscita dall’Europa fosse tra le opzioni, salvo poi rimangiarsi tutto e chiarire che l’intenzione è di cambiare l’Ue, sì, ma dall’interno. L’avvertimento è per Juncker, presidente della Commissione Ue, che a giugno scorso ha graziato quando i suoi vicini ne chiedevano le dimissioni: «Non sarebbe molto pertinente attaccare uno dei leader delle istituzioni europee in questo momento. Anche se abbiamo le nostre opinioni non saremo uno degli Stati membri che solleciteranno conseguenze personali», diceva. Forse non è un caso che a settembre, al discorso sullo Stato dell’Unione, il presidente della Commissione abbia parlato di esercito Ue, difesa dei confini, protezione delle frontiere e rafforzamento della sorveglianza, riferendosi sempre al pericolo dei nazionalismi e al rischio di altri divorzi da Bruxelles dopo la Brexit(qui tutti gli approfondimenti de “i Diavoli”).
Anno 2016, l’Europa unita e (sempre meno) democratica si arrocca ancora di più.
La xenofobia, l’intolleranza, il razzismo ormai dettano le agende di governo. Lo vedi ovunque… E allora bisogna spiegare che l’immigrazione non è niente in confronto al vero problema: cioè, alla libera circolazione internazionale dei capitali. È questo che genera gli squilibri e le speculazioni, muovendosi in cerca di bassi salari, bassa pressione fiscale e scarsi vincoli contrattuali. Questo è il vero nemico del progresso. Da Keynes: “È la Germania che ha rotto i trattati europei” Il Tredicesimo Piano

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