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MONITOR


mar 5 luglio 2016

LEAVE: VINCO E ME NE VADO

Prima Boris Johnson, adesso Nigel Farage. Dopo avere incassato la vittoria, semplicemente vanno via.

“I leader della scena politica britannica si aspettavano la vittoria del Remain in modo da continuare a recitare ciascuno il proprio ruolo. Come in una commedia di Shakespeare, Cameron sarebbe rimasto sul trono, Boris Johnson sarebbe stato il suo delfino e successore, Farage avrebbe continuato a rumoreggiare contro gli immigrati e Berlino, e Corbyn avrebbe resistito dietro la trincea del suo europeismo poco convinto”Tabula Rasa in UK. Il reset oltre il Leave – Il Tredicesimo Piano
Prima Boris Johnson, adesso Nigel Farage. Dopo avere incassato la vittoria, semplicemente vanno via. Il fardello Brexit, quello della sua gestione e dei negoziati per definire le condizioni di uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, non vuole portarlo nessuno dei politici e frontmen del Leave. Senza contare le dimissioni del premier David Cameron, artefice di un errore politico in cui è rimasto incastrato, che ha portato gli elettori britannici alle urne davanti al dilemma: leave or remain, lasciare o restare, dentro o fuori.
A dieci giorni dal referendum, il populista Farage, leader dell’Ukip, agitatore dell’euroscetticismo oltremanica, annuncia di volere lasciare la guida del partito da lui stesso fondato. «La mia ambizione politica è stata raggiunta», ha detto ieri. E ancora: «Ho deciso di farmi da parte come leader dell’Ukip. Ho riavuto indietro il mio Paese, ora rivoglio la mia vita». Come già successo nel 2015, Farage fa un passo indietro nel partito, ma non lo molla. Non lascia nemmeno la sua poltrona da europarlamentare, né la presidenza del gruppo euroscettico Efdd.
La lettura di queste dimissioni è tutta strategica. Delle responsabilità specifiche del cambiamento storico post-Brexit e dell’impatto sull’esercito degli invisibili che regge l’economia britannica Farage preferisce non occuparsene, come d’altronde ha fatto già in campagna elettorale. Per questo motivo il “Guardian” gli riserva un attacco frontale: «Dov’è almeno una goccia di serietà morale o un briciolo di responsabilità pubblica in tutto questo?». Il quotidiano continua: «Fino a due settimane fa sia il signor Johnson che il signor Farage erano disposti a dire e a fare qualsiasi cosa, a buttare via chiunque non fosse d’accordo con loro sull’abbondono dell’Unione europea. Mai una volta che abbiano detto come sarebbe stata effettivamente. Hanno preso in giro tutti coloro che esprimevano preoccupazione. Eppure, dopo avere vinto, semplicemente vanno via».
Perché scappano tutti proprio ora? I leader del fronte del Leaveescono vittoriosi e, almeno come frontmen, sul dopo-Brexit preferiscono non metterci la faccia. Lo scenario più plausibile è che i populisti che hanno cavalcato l’uscita dall’Ue, dopo aver creato una profonda spaccatura fra i conservatori dei Tories, vogliano allargare ancora di più il loro elettorato. Guardano al nord del paese, a strappare al Labour anche le ultime roccaforti operaie che hanno optato per il divorzio dall’Europa contro la posizione ufficiale di Corbyn. In vista dei negoziati Londra-Bruxelles sulle condizioni del Leave, l’Ukip punta a diventare interlocutore fondamentale nel futuro governo inglese. Perché – ha detto Farage – «il prossimo premier deve essere pro-Brexit», questo è sicuro. Ma, salvo ripensamenti, non sarà lui alla guida dell’Ukip.
Dell’andamento della sterlina, precipitata ai minimi dal 1985 contro il dollaro e oscurata dall’ombra lunga della Brexit dopo che i mercati avevano invece scommesso sul Remain, Farage non sembra preoccuparsene troppo. Il rischio per la valuta inglese, però, non è da poco. Come aveva scritto qualche giorno fa il “Wall Street Journal”, la sterlina potrebbe perdere lo status di valuta di riserva: «Non si tratterebbe solo di una perdita di prestigio internazionale per la Gran Bretagna. Ma si potrebbe tradurre in un aumento dei costi di capitale per le aziende, con gli investitori che scelgono di tenere in tasca meno asset inglesi».
L’intenzione dell’Ukip, per ora, sembra essere solo quella di intestarsi il mandato di 17 milioni e mezzo di elettori, insinuandosi tra le divisioni dei conservatori, come già successo. I Tories, infatti, sono alle prese con la difficile scelta del successore di Cameron che il 12 luglio prossimo porterà al ballottaggio due contendenti davanti a 150 mila iscritti.
In questo panorama nero per la Gran Bretagna bastione del neoliberismo, che disprezza i “turisti del welfare” e che lascia invece campo libero al “turismo del capitale”, il rischio è un impatto duro sulla società, sugli investimenti, sul lavoro.
“Un gioco delle parti, il teatro inglese. Roba da buffoni. La politica ridotta a parodia, come questa ‘battaglia navale’ sul Tamigi, che è farsa e tragedia insieme. La caricatura della storia britannica, delle scorrerie di Francis Drake intorno al globo e del trionfo sull’Armada Invencible. Uno scontro che ha cambiato il verso alla storia dell’Europa, e del mondo. Adesso resta solo questa caricatura di naumachia. Un gioco delle parti, sì. Europeisti e anti-europeisti, avversari di ieri diventati alleati di oggi, convertiti e apostati, qualche traditore, molti buffoni. Sulla scena della politica britannica i ruoli vengono assegnati dalle dinamiche di una geometria variabile, che muta di continuo assecondando polarizzazioni nuove.” Brexit battaglia navale – Il Tredicesimo Piano

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