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MONITOR


lun 18 aprile 2016

L’ARREMBAGGIO DEL FLASH-CAPITALISMO

Sei millesimi di secondo possono fare la differenza fra un profitto e una perdita

18 APRILE 2016 – Qualcuno ha investito 300 milioni di dollari per posare un cavo sottomarino che consente di guadagnare sei millisecondi di velocità nella trasmissione dei dati fra Londra e New York. Basta questo per comprendere come la rivoluzione tecnologica stia mutando le regole del gioco dei mercati finanziari. Qui ed ora, nel mondo meraviglioso dell’hi-tech applicato alla finanza, la latenza – ossia il tempo di risposta fra un input e un output nella trasmissione dei dati – è l’autentica variabile indipendente dalla quale finiscono col dipendere i prezzi di ciò che si scambia.
Questi ultimi finiscono con l’essere in gran parte determinati da orde di robot automatici che processano migliaia di operazioni al secondo seguendo algoritmi predittivi pseudo-intelligenti. E questo spiega perché l’ordine di grandezza del millisecondo, al di fuori della portata gnoseologica degli umani, sia ormai la misura standard dell’efficacia di un sistema di trasmissione dati e, per conseguenza, di un trading system.
Questa mutazione sintetica del vecchio turbo-capitalismo nel neonato flash-capitalismo vive all’ombra delle cronache che solo di recente hanno preso a interessarsene, mentre viene osservato con preoccupata costernazione da diversi regolatori. Di recente la Bce ha presentato un paper che analizza gli effetti economici del viluppo di cavi che, sotto gli oceani o le montagne, costituisce il sistema nervoso del flash-capitalismo. Questa sorta di Undernet rappresenta i binari sui quali terabyte di informazioni viaggiano a velocità impensabili da un capo all’altro del mondo, finendo col concentrarsi in pochi centri finanziari – Londra, New York e Tokyo – e così consolidando il dominio di queste piazze sul circuito finanziario globale.
Una volta arrivate a destinazione, queste informazioni vengono digerite da sistemi di trading complessi, per lo più piattaforme proprietarie di poche entità, e da lì indirizzati verso i desk di utilizzatori più o meno grandi che trasformano questi bit in ordini di acquisto e vendita. Il tutto accade altrettanto istantaneamente, 24 ore al giorno, sotto l’egida di tecnici iper specializzati dove un master in fisica, statistica o in matematica vale assai di più di uno in finanza, materia ormai obsoleta nell’universo dei big data. E in questa differenza di skill risiede forse l’unica differenza fra il flash-capitalismo e quello che l’ha preceduto. Perché per il resto si somigliano. Entrambi sono basati su un oligopolio di giganti che vede, relativamente alla Undernet, grandi aziende di telecomunicazioni accanto alle quali nel tempo hanno iniziato a sorgere entità private che nessuno ha mai sentito nominare fuori dai circuiti specializzati, come la Hibernia la società che nel 2015 ha battezzato il cavo da 300 milioni fra Londra e New York per guadagnare frammenti infinitesimali di istanti che nel capitalismo hi-tech fanno la differenza fra un profitto e una perdita. E, soprattutto, il flash-capitalismo, pur favorendo l’emersione di nuovi corsari, consolida vecchie posizioni di potere, ottenendo così il risultato di favorire un inusitato matrimonio fra il nuovo e il vecchio che fa di questa evoluzione un fatto pacifico. E ciò spiega pure perché sia così poco osservato.
Il caso della piazza di Londra, che grazie alla Undernet ha consolidato il suo dominio sul mercato dei cambi è icastico. L’analisi della Bce, che proprio su tale mercato è focalizzata, (“Cables, Sharks and Servers – Technology and the Geography of the Foreign Exchange Market”) ci fa capire  sostanzialmente due cose. La prima è che la liberalizzazione dei capitali, che la vulgate annovera fra le cause principali dell’esplosione di ineguaglianza nella distribuzione della ricchezza registrata negli ultimi trent’anni, difficilmente avrebbe potuto essere così invasiva se nel frattempo la tecnologia non le avesse fornito un’infrastruttura via via più efficace per compiersi. “”Il mercato dei cambi – dice il paper – è stato trasformato sin dal finire degli anni ’80 con l’avvento del broking e del trading elettronici, potendo contare su tecnologie dell’informazione meno costose e più efficienti. Oggi il trading elettronico domina i mercati dei cambi”.
Oggi il trading elettronico domina i mercati dei cambi
La seconda evidenza è che la tecnologia, “ha importanti implicazioni economiche, riduce le frizioni spaziali fino all’80% e aumenta, in termini netti, la quota di trading offshore del 21%”. E non solo: “La tecnologia ha anche effetti economici importanti per la distribuzione delle transazioni finanziarie nel mercato dei cambi fra i vari centri finanziari, facendo crescere la quota del turnover globale nel mercato di Londra, la più grande sede di negoziazione, di quasi un terzo”. Questo vantaggio competitivo, ipotizzano gli studiosi, dipende parecchio anche dalla posizione geografica. Le città che sorgono accanto al mare sono candidate naturali all’interconnessione sottomarina. Una volta le città sorgevano lungo i fiumi, oggi serve l’oceano per essere candidate al ruolo di centro finanziario. Zurigo e Singapore, ad esempio. Negli anni ’90 le transazioni off shore di Singapore erano circa il 60% in più di quelle di Zurigo. Oggi il mercato asiatico è quasi due volte più grande di quello svizzero. Cosa è successo nel frattempo? Singapore è diventato un hub di cavi sottomarini, mentre la Svizzera, che è lontana dal mare, no. Tutto ciò mentre sin dal 1990 a Londra, Tokyo e New York trovavano ospitalità i server dell’Electronic Broking Services (EBS) e della Thomson Reuters. “Ne segue che la connessione di un paese con l’UK, gli Usa e il Giappone, riduce i tempi di latenza e aumenta la larghezza di banda”. Ecco i luoghi di residenza del flash capitalismo.
Sappiamo più o meno chi siano i nuovi padroni delle ferriere, conosciamo per grandi linee chi siano i provider dei dati, e chi siano i proprietari di molte delle piattaforme di negoziazione che materializzano questi flussi istantanei in azioni di trading. Conosciamo meno la fisionomia degli “utilizzatori finali”. Anche se sappiamo come agiscono.
Sull’HFT (High frequency trading) sta fiorendo tutta una letteratura insieme a studi degli osservatori internazionali che ci consentono di sbirciare dal buco della serratura nel cuore della macchina. Qualche tempo fa se ne è occupato il Fmi, in uno dei suoi ultimi rapporti sulla stabilità finanziaria. Ma soprattutto se ne sono occupati alcuni regolatori prendendo a pretesto alcuni eventi, denominati flash crash – anche i crash in questo nuovo capitalismo sono fulminei e violenti – accaduti nel 2010 e, più di recente, il 15 ottobre 2014, che vide come protagonista il mercato obbligazionario americano, un ecosistema finanziario fra i più delicati, visto che sottostà come collaterale alle transazioni finanziarie di mezzo mondo.
Il 15 ottobre 2014 lo yield sul benchmark dei titoli a dieci anni, che influenza significativamente i prezzi di altri asset, sperimentò un trading range di 37 punti base, per poi chiudere a 6 punti base dal suo prezzo di apertura. Fino ad allora un livello così elevato di oscillazione intraday si era registrato solo in tre occasioni, a partire dal 1998. Ma a differenza di quanto accaduto il 15 ottobre, tale oscillazione trovava giustificazione in significanti annunci di politica economica. L’evento fu talmente traumatico che le autorità americane giudicarono necessario organizzare una indagine che coinvolgesse tutte le autorità di regolazione e controllo, dalla Fed alla Sec, passando per il Dipartimento del Tesoro, la Fed di New York e la Commodity futures trading commission (CFTC). L’analisi condusse alla conclusione che fra le 8.50 e le 9.33 A.M. il book di negoziazione si fosse assottigliato drammaticamente. Nello stesso arco di tempo si scatenavano le armate algoritmiche. Si registrò un’impennata delle attività di HFT. Nell’arco di 12 minuti la liquidità evaporò e pochissime negoziazioni, ma molto ampie, generarono un flash-event, ossia un picco. Il picco spinse le compagnie di HFT a un trading molto aggressivo per ridurre i rischi a cui si erano esposte, ma poiché la liquidità era evaporata, i prezzi divennero estremamente volatili, conducendo a ulteriori trade di copertura, veloci e microistantanei. Come infiniti robot, gli algoritmi massimizzavano i profitti sconvolgendo il mercato dei titoli di stato americani, che per loro (ma non per noi) erano semplici numeri di codice.
Risultò pure che nel flash-event la quota di trading svolta dagli HFT avesse raggiunto l’80% del totale, a fronte di una media storica del 50%. E che gli HFT avessero comprato aggressivamente durante la salita dei prezzi e venduto furiosamente durante il crollo. Il rapporto sottolineò la predominanza delle armate HFT su quelle umane. Mentre i vecchi broker-dealers si ritiravano dal campo, le armate automatiche avanzavano veloci e compatte.
Non è un film dell’orrore. E’ solo l’alba di Skynet sui mercati finanziari.

SCHEDA – I PADRONI DELLE FERROVIE DIGITALI

Era il 1842 quando Samuel Morse, il papà che ha intitolato il codice usato nelle telecomunicazioni, interrò il suo primo cavo nel porto di New York. Il cavo era ricoperto di canapa e gomma e, incredibilmente, funzionò. Otto anni dopo, nel 1850, si iniziò a posare il primo cavo ricoperto di guttaperca che doveva connettere il Regno Unito con il continente europeo. Ma servirono altri 16 anni per avere il primo cavo transatlantico per collegare Londra con New York. Da lì la ragnatela di Undernet iniziò a dipanarsi. L’evoluzione si interruppe nei decenni fra le due guerre per riprendere solo nel 1955, quando fu posato il primo cavo sottomarino moderno, il TAT-1 (transatlantic 1), costruito con materiali e tecniche moderne. TAT-1 connesse le propaggini del Regno Unito con quelle del Nord America. All’impresa parteciparono la At&T, la Canadian overseas telecommunications corporation e l’UK general Post office. Fu inaugurato a settembre del 1956 e consentiva di gestire simultaneamente 35 telefonate. Nel 1960 si iniziarono a posare cavi di maggiore portata e affidabilità e questo processo durò fino agli albori del 1980, quando la tecnologia coassiale fu sostituita da quella della fibra ottica. Il primo cavo in fibra, il TAT-8, entrò in servizio nel 1988, finanziato da un consorzio con dentro AT&T, France Telecom (l’attuale Orange) e British Telecom. Il cavo collegava Regno Unito, Francia e Usa. Gli alfieri di questa rivoluzione furono le compagnie telefoniche, più o meno pubbliche a quel tempo. Tat-T 8 consentiva di gestire simultaneamente 40 mila telefonate. Il problema era che questi cavi attiravano gli squali. I predatori erano attratti dalla corrente elettrica che correva nei cavi, e tendevano a distruggerli. Ciò originò un’altra generazione di cavi. Il PTAT-1 fu schermato per evitare di attrarre gli squali. PTAT-1 fu il primo cavo ottico interamente finanziato dai privati. Nella fattispecie, una compagnia americana, la TelOptik, e da una inglese, la Clabe&Wireless plc, che si proposero niente meno di generare traffico telefonico in concorrenza con i vecchi padroni delle nuove ferrovie, ossia AT&T e British Telecom. Fu l’inizio dello sviluppo furioso di Undernet.  Fiutando l’affare, molti si avventarono sui fondali per piazzarvi i loro cavi. Questo boom si verificò fra il 1989 e il 2002. Qui trovate l’elenco dei cavi posati fino ad oggi oltre a chi ne siano i proprietari: i nuovi padroni delle ferrovie digitali. E tuttavia, all’inizio, questi collegamenti non erano pensati per facilitare il trading elettronico. Servivano a telefonare, mandare fax e, più tardi, le e-mail. L’anno di svolta fu il 2010. Un’altra società, la Spread Networks, svelò di essere proprietaria di un cavo terrestre lungo 827 miglia che percorreva le viscere delle montagne e sotto il fiume di Chicago (a Chicago ha sede il mercantile exchange, dove si smerciano derivati) fino ad arrivare nel New Jersey. Questo cavo riduceva la latenza da 17 a 13 millisecondi. Fu allora che gli altri squali, quelli della finanza, fiutarono la preda. Utilizzare l’accelerazione dei dati sulla fibra per “arrivare prima degli altri” – il verbo eterno degli speculatori, parve irrinunciabile. Ciò condusse a uno sviluppo esponenziale del trading automatico, che esaltò le potenzialità offerte dal trading elettronico, ormai sviluppatissimo nei mercati finanziari. Anche questo processo fu il frutto di una lunga preparazione. “Il trading elettronico – spiega la Bce in un suo paper – si è sviluppato anche perché le infrastrutture di mercato (i servers di EBS e della Thomson Reuters) potevano finalmente gestire (grazie alla velocità di connessione, ndr) un grande numero simultaneo di ordini e questa possibilità non era disponibile prima del 1990 perché richiedeva grande capacità di deposito di dati di elaborazione”. Sicché nel 1992 EBS e Thomson Reuters divennero “padroni” dell’infrastruttura di mercato, spiazzando tutti i sistemi concorrenti ancora basati su traffico voce. Il computer divenne lo strumento dell’inter-dealer market. Fuori dall’inter-dealer market i normali partecipanti del mercato continuarono ad usare il telefono per tutti gli anni ’90. La spaccatura si sanò progressivamente. Nel 1999 fu lanciato Currenex, una piattaforma multibancaria associata a un trading system che consentiva ai clienti di consultare le quotazioni dei cambi su una singola pagina. Quindi seguirono altre due piattaforme: FXall e Hotspot. Ma gli squali più grossi si fecero avanti fra il 2001 e il 2006, quando grandi dealer lanciarono i loro sistemi proprietari di bank trading system. Fra questi colossi si annoverano Barclays’BARX, Deutsche Bank’s Autobahn and Citigroup’s Velocity. Ciò convinse anche EBS e Thomson Reuters, a partire dal 2005, ad aprire i propri sistemi di brokeraggio non più soltanto ai dealer, ma anche agli hedge fund e agli altri trader. Sicché anche le loro piattaforme evolsero in modo tale da adattarsi alle esigenze delle compagnie di High frequency trading che, incoraggiati dall’accelerazione di Undernet, fiorivano come funghi lungo l’ultimo lustro del primo decennio del XXI secolo e ancor di più dal lustro successivo. Oggi attorno a cavi sempre più “portanti” ci sono torme di squali sempre più affamati. Noi siamo la loro bistecca.

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