Decodificare il presente, raccontare il futuro

MONITOR


mer 30 novembre 2016

LA VITA COME UN ALGORITMO

Benvenuto nel mondo dove un agente sociale ha deciso chi sei e comprato il tuo tempo, dove il lavoro è automazione e l’intelligenza è praticamente solo artificiale. Il paradigma è l’algoritmo del capitale. La percezione di una minaccia è il nuovo progresso. Sono i bot, i profili fake sui social network, è la “gig economy” di Uber dove il boss è un algoritmo e i lavoratori sono gestiti attraverso il loro stesso smartphone. Sono le società che studiano i trend attraverso i dati internet. È la "sentiment analysis", bellezza. Ma sono le storie che ci raccontiamo a determinare le nostre percezioni, molto più di tante inascoltate analisi scientifiche. E guidare questo storytelling è la nuova faccia del capitalismo.

Risuona l’eco del Marx dei Grundrisse, e di quanti hanno ragionato sul ruolo della conoscenza accumulata nel capitale fisso, nelle macchine. Da “Il capitalismo è morto. Anzi no”
È il giorno del tuo ritorno al futuro. Ti alzi, scrivi decine di e-mail, invii messaggi su Facebook, Whatsapp, Twitter, Telegram etc. Un algoritmo li filtra, determina cosa ti piace, sceglie per te cosa desideri, sa già dove e come dirottare il tuo voto. Alla fine ti presenta il conto. Il tuo datore di lavoro è un lungo codice algoritmico, il tuo tempo è gestito da una serie di numeri. L’ auto che ti porta in giro non ha guidatore. In fabbrica ci sono più macchine che lavoratori. A Wall Street i traders non hanno più emozioni. Il rischio “fat finger”, il cosiddetto errore di tastiera del “dito grasso”, è ormai stato soppiantato da una reazione a catena: in testa al processo c’è ancora un algoritmo. Il progresso è diventato mera terra di conquista dei robot e dell’intelligenza artificiale.
Benvenuto nel mondo dove un agente sociale ha deciso chi sei e comprato il tuo tempo, dove il lavoro è automazione e l’intelligenza è praticamente solo artificiale.
Il paradigma è l’algoritmo del capitale. La percezione di una minaccia è il nuovo progresso.
Nel futuro dove la tecnologia diventa croce dei lavoratori e delizia del capitale, dell’idea stessa di progresso si appropriano in pochi.
Siamo all’alba di quella che è stata definita “Quarta rivoluzione industriale” o “rivoluzione industriale 4.0”. Oggi è la porta d’accesso a quella dimensione.
E l’unico modo per non rifiutare la tecnologia ed evitare nel contempo che manipoli i nostri giorni a venire, è guardare in faccia i meccanismi che qui e ora alterano già le nostre percezioni.
Le profezie che si auto-avverano, la riflessività dei mercati… Come prevedere il turning point, il momento in cui i mercati invertono il trend e aprono la strada ai veri profitti? Proprio il Palindromo ci insegna che il turning point non si prevede. Si costruisce. Non è qualcosa che sta lì, nel futuro, come un terremoto che prima o poi accadrà […] La questione è diversa, riguarda la performatività dei mercati. L’impiego di un modello modifica il comportamento di coloro che lo usano. Il mercato realizza il modello Da “Gli Spiriti di Friedman pt. 6”
Sono i bot, i profili fake sui social network, è la “sharing economy” di Uber, dove il boss è un algoritmo e i lavoratori sono gestiti attraverso il loro stesso smartphone (leggi qui il focus de “I diavoli”). Sono le società che studiano i trend attraverso i dati internet.
È la sentiment analysis, bellezza.
«È possibile che le prossime elezioni siano decise e manipolate dal popolo dei Bot. Non parlo dei detentori di titoli pubblici italiani, ma dei bot: applicazioni software che creano profili finti (fake) e contenuti sui social network e nelle chat (chat bot) simulando persone vere», ha scritto Andrea Mazziotti sul “Sole 24 Ore”.
Il meccanismo è il seguente: profili fittizi generano una notizia falsa, questa diventa virale. È l’algoritmo stesso di Facebook a promuoverla. I reporter di “Mother Jones” hanno ripercorso le tappe di una bufala, dalla sua genesi fino alla sua potentissima diffusione sulla piattaforma fondata da Mark Zuckerberg.  Lo stesso processo è (in parte) avvenuto durante le elezioni Usa, anche se questo non significa che siano stati i social network a dominare tout court le scelte di voto di milioni di americani.
Anno 2016, è già realtà anche la codificazione delle tue emozioni.
Il tuo capo forse sa già cosa pensi. E non succede solo a Wall Street. Immagina quanti messaggi di posta elettronica vengono inviati in tutto il mondo. Poi ci sono i tweet, gli scambi su Whatsapp. Ecco, ci sono diverse start-up che raccolgono tutte queste informazioni, le canalizzano, le trasformano in tendenze “sicure” da vendere alle aziende.
Stiamo assistendo al rapido affossamento dei sondaggi per mano della sentiment analysis. Il campione è smisuratamente più ampio. Come ha spiegato a “The Atlantic” Bing Liu, dell’Università dell’Illinois, Chicago, in questo momento ci sono «decine di start-up che si concentrano esclusivamente sulla fornitura di questi servizi ad altre società e molte aziende hi-tech più grandi hanno sviluppato il loro proprio software». Ma c’è di più, perché ultimamente questi meccanismi sono stati spostati verso l’uso interno. «Grandi aziende come Accenture, Intel, IBM, e Twitter hanno iniziato a utilizzare il software per capire come i propri dipendenti si sentono riguardo al loro lavoro». Ergo: quello che sfugge alla mente umana non può sfuggire a un algoritmo. Siamo sicuri?
I posti di lavoro, i redditi, le abitudini sociali: l’intelligenza artificiale può davvero rivoluzionare la nostra vita. E non è detto che sia necessariamente in peggio. Il problema è che non ne conosciamo ancora il vero impatto, il pericolo è che si sostituisca all’autodeterminazione umana.
Un gruppo di studiosi dell’Università di Stanford ha sviluppato un progetto che monitora gli effetti delle nuove tecnologie e dei robot. Per i prossimi cento anni, ogni cinque verrà prodotto un rapporto dettagliato sull’impiego dell’intelligenza artificiale in diversi settori della società: dalle macchine senza guidatore all’assistenza di malati e anziani, come già sta facendo il governo giapponese.
Dunque, ricapitoliamo.
Controllare le emozioni dei lavoratori, migliorare le prestazioni, gestire il rischio: anche a Wall Street c’è chi pensa che questo è il futuro. Senza tenere conto dei rischi. «Immaginate se tutti i traderfossero tenuti a indossare orologi da polso che monitorano la loro fisiologia, e se si avesse un dispositivo che ti dice in tempo reale chi sta andando fuori di testa. La tecnologia esiste, ma si tratta di una reale intrusione nella privacy» delle persone, ha raccontato Andrew Lo del MIT di Boston a “Bloomberg BusinessWeek”.
Il management algoritmico è la nuova zona grigia della deregolamentazione del lavoro. 
Prendiamo come esempio Uber, l’azienda che tanto preoccupa i tassisti. Il suo motto è «rendere il trasporto affidabile come l’acqua corrente». La formazione e il monitoring del lavoro è derubricato alla gestione algoritmica, mentre è praticamente certo che una selva di lavoratori occasionali non verranno mai assunti (leggi qui il focus de “I diavoli” contro l’uberizzazione del lavoro e per un nuovo mutualismo).
«I sindacati potranno funzionare anche quando il lavoro sarà definitivamente consegnato alle macchine?», si è chiesto recentemente “Forbes”. La questione è complessa tanto quanto la gestione collettiva delle istanze della working class e non solo. Il punto è che l’automazione è di sicuro più conveniente in termini di denaro, ma senza operai in carne ed ossa non esiste de facto un futuro per chi dei diritti del lavoro ha fatto motivo di vita e di lotta.
La soluzione sta nel rovesciamento di una narrazione distorta del concetto di progresso.
Lo aveva raccontato Zygmunt Bauman a “I diavoli”: «La prima cosa che balza alla mente quando viene menzionato il “progresso” è la prospettiva che sempre più posti di lavoro per gli esseri umani siano destinati a scomparire per essere sostituiti da computer e robot; come se si trattasse dell’ennesima collina ripida da oltrepassare nel corso di una battaglia per la sopravvivenza che ha necessariamente bisogno di essere combattuta. La maggior parte dei Millennials si aspetta che il futuro porti un peggioramento delle loro condizioni di vita, invece di aprire la strada a ulteriori miglioramenti, così come accaduto ai loro padri, che gli hanno insegnato a esigere e lavorare in questa direzione. Una tale visione di un “progresso” vissuto come inarrestabile fa presagire la minaccia di una perdita, invece di auspicare nuove conquiste; ed esso ora viene associato più ad una dislocazione sociale e ad una degradazione delle proprie condizioni, che alla possibilità di un avanzamento e di una evoluzione».
Dunque, sono le storie che ci raccontiamo a determinare le nostre percezioni, molto più di tante inascoltate analisi scientifiche. E a guidare questo storytelling è la nuova versione del capitalismo.
Ma come in ogni tumultuosa fase di passaggio, se è certo ciò che ci si lascia alle spalle, non è altrettanto certo ciò che si ha davanti. E quando l’immagine dell’avvenire pare troppo nitida, sorge il dubbio che a renderla tale provveda un inganno prospettico. Ovvero, quel “reincantamento del mondo”, figlio di un certo feticismo tecnologico, di uno storytelling intriso d’ottimismo e di una concezione “mitico-utopica” dei paradigmi scientifici, che può ottenebrare persino il pensiero critico. Gli approdi, infatti, non sono mai perfettamente visibili all’orizzonte, anche se lo sguardo lungo e la lettura tendenziale paiono accorciare le distanze. Da “Il capitalismo è morto. Anzi no”

NEWSLETTER


Autorizzo trattamento dati (D.Lgs.196/2003). Dichiaro di aver letto l’Informativa sulla privacy.



LEGGI ANCHE: