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MONITOR


mer 13 luglio 2016

LA «LEZIONE» BREXIT PER GLI USA

Nazionalismo nostalgico, retorica anti-immigrati, protezionismo e avversione per la globalizzazione: la formula è praticamente speculare da una parte all’altra dell’Atlantico

“Se c’è una cosa che Derek ha capito dalla finanza è che bisogna combattere solo le guerre che si è certi di vincere. Anche quella che c’è da combattere adesso – USA, anno 2016 – è una guerra. In gioco c’è la Casa Bianca. La posta è altissima, come sempre quando si vota dopo un doppio mandato. Come sempre quando può verificarsi una discontinuità per i mercati e per gli equilibri geopolitici. Come sempre… ma stavolta di più”. Da: Elezioni Usa, il male minore – Il Tredicesimo Piano
Nazionalismo nostalgico, retorica anti-immigrati, protezionismo e avversione per la globalizzazione: la formula è praticamente speculare da una parte all’altra dell’Atlantico. A stabilire le prime connessioni con il versante Usa e con il repubblicano Donald Trump è Nigel Farage, ex leader Ukip e incarnazione politica delle frustrazioni anti-Europa in Gran Bretagna. Dopo aver incassato la vittoria del Leave e lasciato il caos dei negoziati agli altri, adesso apre un fronte Brexit dall’altra parte dell’oceano. Stando a quanto scrive “Usa Today”, Farage andrà, infatti, alla Convention Repubblicana di Cleveland la prossima settimana. Perché – sostiene l’ex leader Ukip – il referendum che ha decretato l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea serba una «lezione» per gli Stati Uniti. Su appoggi e alleanze internazionali preferisce mantenersi vago, ma non perde occasione per lanciare una frecciata al presidente uscente, Barack Obama: «Avendo già criticato Obama per essersi intromesso negli affari britannici, io non intendo sostenere nessuno», ha detto Farage. «Ma conosco parecchie persone nel partito repubblicano e voglio sentire che cosa ha da dire Donald Trump nel suo gran discorso». Quale sia precisamente l’insegnamento che la Brexit ha da dare all’America o chi abbia invitato Farage resta un mistero. Di certo, «non è stato Trump».
Obama durante un viaggio a Londra ad aprile aveva avvertito la Gran Bretagna che se il Paese fosse uscito dall’Ue sarebbe finito «in coda alla lista» in caso di accordi commerciali con gli Stati Uniti. L’era Obama, però, è finita.
Adesso il rischio è un rovescio totale dello status quo. E, come tutte le volte che si vota per un doppio mandato, le elezioni di novembre sono dirimenti per il cambio di passo, su entrambe le sponde dell’Atlantico. Secondo Farage, il discorso di Obama è stato «controproduccente», visto che «stare all’interno dell’Ue avrebbe «danneggiato sul lungo periodo anche le relazioni Usa-Gb». In un panorama in cui l’Europa sta affinando sempre più la sua «politica estera», continua «questo riduce l’abilità britannica di prendere decisioni indipendentemente da Bruxelles e quindi di essere l’alleato più vicino agli Usa, in particolare attraverso la NATO». Di certo l’interlocutore preferito di Farage e dei suoi sarebbe Trump. E se il tycoon repubblicano, islamofobo, anti-globalizzazione e protezionista in tema di commerci dovesse scalzare la sua rivale democratica, Hillary Clinton, lo smottamento geopolitico e la discontinuità sui mercati sarebbero pressoché scontati. Ora, però, tutto questo resta confinato nel campo delle ipotesi. Sul breve periodo di certo Londra e Bruxelles dovranno trovare un accordo e stabilire le condizioni di uscita dall’Unione europea. Per Farage «la rinegoziazione non avverrà a Bruxelles. Sarà negli impianti di produzione auto in Germania, o durante la stagione della vendemmia a Bordeaux. È da lì che arriva la pressione dei governi nazionali ed è da lì che verrà un trattato commerciale sensibile».
Sovranità nazionale, accordi commerciali, interscambi: in queste ultime parole di Farage c’è la chiave di lettura della sua storia politica e, probabilmente, anche della sua prossima traversata oceanica. È la nostalgia di un nazionalismo d’altri tempi, che reclama maggiore autodeterminazione interna rispetto all’egemonia della globalizzazione. E qui sta l’inghippo, qui si nasconde la vera posta della partita che si muove sull’asse Londra-Washington. La determinazione nazionale deve prevalere sul mito del mercato unico globale? In che termini? I populismi sceneggiati nelle piazze da Farage e da Trump sono probabilmente personificazioni (per alcuni un po’ grottesche) di una malattia che attraversa l’Occidente e il suo benessere, fatta di diseguaglianze sociali e disagi economici. Il protezionismo sbandierato da Trump negli Usa, però, non è l’alternativa migliore agli svantaggi della globalizzazione. La strada imboccata dal repubblicano potrebbe creare uno shock mondiale, senza portare benefici in termini democratici.
È questo il grande trilemma della globalizzazione, teorizzato dall’economista turco Dani Rodrik. Autodeterminazione nazionale,democrazia e globalizzazione faticano a convivere insieme e contemporaneamente. E se l’accostamento tra i primi due termini secondo alcuni potrebbe inaugurare una nuova stagione di protagonismo e determinazione dei popoli, per altri la sfida per una «globalizzazione intelligente» rimane ineludibile. Il voto della Brexit, così come le sparate isolazioniste di Trump sembrano indicare la scorciatoia di un ripiegamento che elude la questione di una riforma radicale degli assetti globali, mentre i linguaggi “populisti” si somigliano sempre più e accorciano distanze oceaniche.
Eppure, i sondaggi post-Brexit non premiano Trump. Anzi, guadagna terreno Hillary Clinton, la donna che incara la rassicurante continuità con il passato. Evidentemente per molti americani è meglio un’incarnazione del sistema che non il suo opposto. Resta da capire se questa volta i sondaggi ci prenderanno. E nel dubbio ci si interroga se qualcuno a Wall Street non abbia un piano B che preveda la vittoria dei conservatori di Donald Trump.
“Secondo l’economista Dani Rodrik” dice Phil, in piedi davanti alla cattedra, “nella globalizzazione non possono coesistere sovranità nazionale, democrazia e mercati globali: uno dei tre deve decadere. La coperta è corta, su uno dei tre lati bisogna cedere”. Fa una pausa, studia la reazione degli studenti. Poi prosegue: “La libera circolazione di prodotti, la democrazia e la libertà per uno Stato di legiferare in autonomia, vanno scelti a coppie di due. Questo è il trilemma di Rodri”. Da: L’Unione europea tra il cinema di Sergio Leone e il teatro di Molière – Il Tredicesimo Piano.

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