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MONITOR


gio 28 aprile 2016

LA CRISI TERMINALE DEL CAPITALISMO EMERGENTE

28 APRILE 2016 – Il caos istituzionale che in questi giorni agita il Brasile, alle prese con una situazione politica incandescente, è una probabile conseguenza del pasticcio ormai pluriennale nel quale è caduta l’economia brasiliana. Il paese che veniva considerato uno dei migliori esiti del capitalismo emergente – il Brasile era la prima B dei Brics – oggi rivela la sua natura di colosso dai piedi d’argilla. Stato comune a molte di queste economie. Il Brasile potrà giusto consolarsi constatando che il male del suo capitalismo, schiacciato da una montagna di debiti, è assai comune fra i paesi emergenti.
Questi ultimi ormai da mesi vengono additati come una delle fonti di contagio globale potenzialmente più pericolose, per la semplice ragione che la loro crisi sottrae domanda globale a un mondo già astenico e peraltro assai esposto finanziariamente verso queste ex Grandi Speranze. Il Fmi ha calcolato che l’esposizione finanziaria dei paesi ricchi verso gli Emergenti sia raddoppiata dal 2003 al 2015. E poiché a tale esposizione corrisponde un indebitamento, ciò ci dà una misura comprensibile di quanto, nello stesso arco di tempo, queste economie abbiano spinto sul pedale del credito per dar fiato al loro sviluppo. Credito estero, ma non solo. Il capitalismo emergente, specie all’indomani della crisi, ha notevolmente contribuito all’aumento dell’indebitamento globale col proprio. Le emissioni obbligazionarie delle corporation emergenti, sovente denominate in valuta estera, sono state massicce. La Bis ha calcolato che nel mondo circolino circa nove trilioni di debito denominato in dollari da parte di entità non americane, oltre un terzo dei quali è in capo proprio alle economie emergenti. E poi c’è il debito denominato in euro, ovviamente, che è meno rilevante ma comunque sostanzioso. Tutto ciò spiega perché ogni stormir di fronde in Brasile, come anche in Cina, finisca col terrorizzare i mercati. L’ultimo Global financial stability report del Fmi, non a caso, ha dedicato notevole spazio all’approfondimento della Questione Emergenti. Il Brasile è un osservato speciale, seguito a ruota dalla Cina, con la quale condivide una caratteristica ormai strutturale: l’indebitamento del settore corporate rischia di finire fuori controllo. Le imprese, ossia gli alfieri del capitalismo, sono la fonte potenziale del contagio che rischia di fare ammalare l’intera nazione, passando prima dal settore bancario interno e poi, lungo il canale finanziario e soprattutto commerciale, (si calcola che gli scambi fra i paesi emergenti siano aumentati di venti volte dagli anni ’90) trasmettersi al resto del mondo.
Lo stato di salute delle imprese brasiliane, in effetti, si è molto deteriorato. Il Fmi, nella sua ricognizione, rileva una crescente accumulazione di vulnerabilità a causa principalmente del notevole incremento del leverage, e quindi dei debiti, “come è successo in altre economie emergenti”, nota sempre il Fmi. Finora il sistema bancario sembra resiliente. Ma quanto potrà reggere in un contesto prolungato di recessione che vede aumentare la disoccupazione e diminuire i profitti? Il tasso medio dei non performing loan, quindi i crediti incagliati, è ancora basso, al 3,5% dei crediti, ma in alcuni settori, come quello agricolo o delle carte di credito, si sono registrati picchi preoccupanti, mentre sul lato prettamente corporate si assiste a una crescita impetuosa della bankruptcy protection. Degna di nota è anche l’impennata dell’indice che misura il default sui crediti al consumo, praticamente raddoppiato negli ultimi dieci anni. Il deterioramento delle imprese brasiliane è visibile anche da un confronto con le imprese di altri quattro paesi emergenti, Cile, Colombia, Messico e Perù, lungo un arco di tempo compreso fra il 2010 e il 2015. Tutti gli indici considerati (leverage, profitability, interest coverage e liquidity) sono in deciso peggioramento per il Brasile.
Se andiamo a vedere la Cina, la situazione è persino meno rassicurante. Anche la Cina infatti, fra le altre cose, deve affrontare l’incredibile montagna di debiti che le imprese hanno accumulato dall’esplodere della crisi in poi. Il Fmi ha monitorato 2.861 imprese, 2.607 quotate e 264 no, che hanno accumulato prestiti per 2.775 miliardi di dollari, allo scopo di osservare quanta parte di questo debito sia a rischio, laddove per debito a rischio si intende un’obbligazione iscritta nei bilanci di un’azienda che abbia generato un flusso di profitti netti insufficienti a coprire la spesa del servizio del debito. Imprese, insomma, che hanno un Interest coverage ratio (ICR) minore di 1. L’analisi del Fmi si propone di calcolare quanto pesi l’ammontare preso a prestito dalle imprese con un ICR minore di 1 sul totale delle compagnie esaminate, in maniera tale da trarne un indicatore che misuri la quantità di debito a rischio – che corrisponde a crediti a rischio per il settore bancario – per il campione considerato. I risultati sono alquanto ansiogeni. La loro comparazione con l’universo dei prestiti totali concessi dalle banche commerciali al settore corporate cinese, pari a 8,1 trilioni, dice che la perdita potenziale su questi crediti, alla fine del 2015, è stimabile in 1,3 trilioni di dollari. Peraltro, i prestiti bancari al settore corporate non sono stati l’unica fonte di indebitamento per le imprese cinesi. Nell’analisi infatti non vengono considerati i prestiti arrivati dal settore bancario ombra, che in Cina è fiorente. Tantomeno sono considerati i prestiti arrivati dai veicoli governativi garantiti dallo stato.
Ciò spiega perché l’estero guardi alla Cina con sempre maggior preoccupazione a partire da un semplice indicatore: i deflussi finanziari. Il resto del mondo, ormai da tempo, ha iniziato a disinvestire. Le ultime statistiche della Bis, che monitorano l’attività bancaria internazionale, risalenti alla fine del 2015 mostrano un deciso rallentamento dei prestiti alle economie emergenti. I prestiti transfrontalieri sono diminuiti dell’8% l’anno scorso, un calo che non si vedeva dal 2009, l’anno orribile dell’economia internazionale.
A guidare il calo dei prestiti, troviamo proprio la Cina, che ha visto il credito a lei concesso diminuire di 114 miliardi di dollari solo nell’ultimo trimestre su un totale di 160 miliardi registrato per le economie emergenti. Il dato aggregato mostra un notevole calo dei prestiti bancari alla Cina. Dal settembre 2014, quando la montagna di prestiti concessi a Pechino aveva raggiunto i 1.061 miliardi di dollari, la Cina ne ha persi 305. In generale i paesi emergenti hanno ancora debiti bancari per 3,3 trilioni di dollari ed è proprio questa circostanza che li rende così temibili. La sostanza è che i Brics, leggenda inventata da un funzionario di Goldman Sach nei primi anni del 2000, superata malamente la mezzanotte della crisi rischiano di finire come Cenerentola dopo il ballo, scalcagnati sopra una cocchio dorato acquistato a credito, che i debiti stanno lentamente trasformando in zucca. Il problema è che i paesi cosiddetti avanzati rischiano di essere i prossimi.
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