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MONITOR


ven 23 novembre 2018

INDOSSARE O NO I GILET GIALLI?

Indossare o meno i gilet gialli? In Francia nessuno sembra avere dubbi. I politici, dall’estrema destra di Marine Le Pen all’estrema sinistra di Jean-Luc Mélenchon, fanno a gara a sostenere i manifestanti. I cittadini, lo stesso. E una somiglianza a noi più prossima sembra essere, sia esteticamente sia in termini di rivendicazioni, al Movimento dei Forconi apparso in Italia nel 2013. Una similitudine che racconta di un terreno dell’esistenza, quello del politico, lasciato drammaticamente vuoto e alla mercé di un populismo dilagante in cui la figura dell’oppresso e dell’oppressore rischiano di coincidere.

Indossare o meno i gilet gialli? In Francia nessuno sembra avere dubbi. I politici, dall’estrema destra del Rassemblement National di Marine Le Pen all’estrema sinistra del La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon, attraverso Socialisti e Repubblicani, fanno a gara a sostenere i manifestanti. I cittadini lo stesso, secondo un sondaggiocitato dal «Guardian», il 73% della popolazione francese appoggia la protesta.
In Italia, uguale. Se la destra non vede l’ora di avere un pretesto per attaccare Macron, la sinistra movimentista si aggrappa oramai da tempo a ogni forma di vita che scende nelle strade, cercando di comprenderne, se non cavalcarne a prescindere, le motivazioni.
Detta così, sembrerebbe che tutti vogliano indossare i gilet gialli della protesta che ha paralizzato la Francia nell’ultimo fine settimana.
Eppure, a guardare bene, sotto quei giubbotti retro-riflettenti obbligatori per gli automobilisti che scendono dal veicolo fuori dai centri abitati, c’è una fortissima componente reazionaria. E allora, piuttosto che chiedersi se è giusto o meno indossare i gilets jaunes, la vera domanda diventa: perché tutti, da destra e da sinistra, hanno impellente il desiderio di vestirli?
I fatti sono noti. Sabato 17 novembre quasi 400 mila persone sono scese nelle strade di oltre duemila comuni francesi e hanno paralizzato il paese. A Parigi sono arrivati addirittura davanti all’Eliseo.
Il bilancio racconta di un morto in Savoia, investito da una donna che cercava di sfondare uno dei blocchi stradali, e di centinaia di feriti e arrestati. La protesta è stata contro gli aumenti delle accise sul carburante: +23% il gasolio e +15% la benzina nell’ultimo anno, e da gennaio 2019  sono previsti nuovi rincari.
Il presidente Macron ha ribattuto che preferisce tassare la benzina piuttosto che il lavoro, e che comunque sono previsti forti incentivi per rottamare le vecchie auto. Mentre diversi ecologisti hanno fatto notare come parte delle tasse aumentate sia destinata alla transizione energetica del paese verso politiche più green.
In realtà, la protesta si è diffusa in maniera così ampia perché ha incluso anche l’aumento del prezzo del gas, del tabacco, o l’inserimento della detrazione per il Csg (il contributo sociale generalizzato) nelle pensioni.
Più che una fantascientifica rivolta della classe sociale degli automobilisti, è una ballardiana rivolta del ceto medio consumatore. E come ammoniva il visionario scrittore inglese, in quanto tale è una rivolta profondamente reazionaria.
Oggi è facile definirla populista, presentarla come una protesta della gente contro le élite. Come si definiscono loro stessi sulla pagina Facebook, chi indossa il gilet giallo «è una persona come te e me, che manifesta nel giorno di riposo: un ragazzo, un pensionato, un artigiano, uno studente, un disoccupato, un imprenditore, qualcuno che è a favore o contro tutto. Ma è soprattutto una persona che ha paura di non arrivare alla fine del mese. […] Ed è qualcuno che si è stufato di dover fare costantemente attenzione alle tasse, di preoccuparsi per l’età del pensionamento, e di lesinare su cibo e altre spese.»
O addirittura cercare di darle una spruzzata di lotta di classe, tirando in ballo la difficoltà di raggiungere i centri cittadini dalle periferie con l’auto, contrapposta a chi può permettersi di muoversi lungo rive “gauche” della Senna in bicicletta. O come dicono i manifestanti, «in carrozza». Così l’ha presentata per esempio Laurent Joffrin, direttore di «Liberation». «Alla tradizionale lotta di classe si è aggiunta una lotta degli spazi: la banlieue contro i centri storici; le periferie contro i bòbò; la campagna contro le metropoli; i piccoli comuni contro le grandi città», ha scritto in un editoriale.
In realtà, sebbene con molte differenze, la protesta dei gilets jaunes s’inserisce in quella lunga tradizione di rivolte dall’alto che hanno caratterizzato la storia francese all’ombra della Grande Rivoluzione Progressista.
In molti hanno trovato similitudini con le rivolte dei berretti rossi bretoni – da quelle del diciassettesimo a quelle del ventunesimo secolo – o, per restare più vicini, con il movimento poujadista, presentato in tutti i manuali di politologia come il vero antesignano del populismo conservatore.
Una somiglianza a noi più prossima la propone Leonardo Bianchi su Vice quando accosta i gilet gialli, sia esteticamente sia in termini di rivendicazioni, al Movimento dei Forconi apparso in Italia nel 2013.
Non si tratta di una diminutio del valore della protesta e della sua geometrica potenza. E nemmeno non si tratta di trasferire tutto nell’ambito del grottesco: ma come erano improbabili e assurdi i leader italiani del 2013, così ora tra i promotori della protesta francese del 2018 appaiono cartomanti e visionari delle scie chimiche.
C’è stato un momento in Italia in cui sembrava che chiunque volesse imbarcare i Forconi nel proprio programma, culturale e/o politico. È questo il punto.
La folle corsa da destra a sinistra a inseguire su terreni sconosciuti alla politica tradizionale questo tipo di rivolte popolari esplose all’improvviso. All’epoca dei Forconi una buona parte della sinistra militante italiana decise di interloquire con quel movimento, chi per comprenderne e sfruttarne le proficue ambivalenze. Chi addirittura per fare proprie alcune loro rivendicazioni, prese per buone in quanto popolari. Finì malissimo. Oggi in molti ci riprovano con i gilets jaunes.
La similitudine principale racconta allora di un terreno dell’esistenza, quello del politico, lasciato drammaticamente vuoto.
In questo deserto si muovono forze carsiche eterogenee, la cui spinta ribellistica si esaurisce spesso nel momento stesso in cui è proposta.
Perché oggi in Occidente la figura dell’oppressore e dell’oppresso coincidono in maniera drammatica, come mai prima d’ora. La classe media impoverita sfruttatrice è diventata la classe media impoverita sfruttata (da se medesima).
Come la maggior parte delle proteste populiste reazionarie, pur dicendosi in lotta contro l’1% che detiene la ricchezza e il potere mondiale in nome del restante 99% della popolazione, anche questa battaglia non chiede una redistribuzione (più) equa delle risorse; una giustizia sociale per tutti; il diritto globale e inalienabile all’acqua, al cibo, alla salute e all’istruzione. Si limita invece alla difesa di alcuni privilegi che sono messi in discussione.
O alla lamentela per chi quei privilegi ancora li detiene. Senza che sia mai messa in discussione la struttura che determina a monte la sperequazione dei diritti (o anche dei privilegi), ovvero il sistema economico e valoriale nel quale ci muoviamo: il tardo capitalismo.
La domanda non può essere quindi se dobbiamo o meno indossare i gilet gialli.
Ma come riempire quel vuoto del politico, quel deserto del reale, nel quale si forma il bisogno di indossare dei giubbotti retro-riflettenti, brandire dei forconi o qualcos’altro.

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