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MONITOR


sab 19 agosto 2017

INDIA-PAKISTAN FRATTURA INSANABILE

A settant’anni dalla duplice indipendenza concordata dall’Indian National Congress e dalla Muslim League con i rappresentanti dell’Impero Britannico, dietro ai festeggiamenti per gli anniversari degli stati di India e Pakistan, si celano due paesi ancora alla ricerca di una dimensione pacificante, minata da una frattura insanabile.

A settant’anni dalla duplice indipendenza concordata dall’Indian National Congress e dalla Muslim League con i rappresentanti dell’Impero Britannico, dietro ai festeggiamenti per gli anniversari degli stati di India e Pakistan, si celano due paesi ancora alla ricerca di una dimensione identitaria pacificante.

In seguito alla tragica Partizione del fu Raj Britannico e alle atroci violenze tra la comunità musulmana e quella induista a metà degli anni Quaranta, i due neo-stati entrarono a far parte della comunità internazionale con un pesante bagaglio di conti in sospeso, seppur partendo da una comune aspirazione laica e multiculturale.
Una rivalità mai sopita che, in sette decenni di coesistenza, è rimasto forse l’unico tratto immutabile delle rispettive istituzioni politiche e lo strumento di polarizzazione del sentimento nazionale più letale a disposizione dei rispettivi governi.
India e Pakistan, in rispettivo ordine di espansione territoriale, si estendono su territori di fatto multiculturali, multietnici e multireligiosi: un tesoro di diversità che ha posto, e continua a porre, enormi sfide nella costruzione di un sentimento nazionale unificante.
Le scienze sociali, sviscerando le varie definizioni di «identità», ne distinguono due uguali e contrarie: l’identità «in positivo», cioè costruita su tratti comuni a un determinato gruppo (“noi siamo così”); l’identità in negativo, fondata sul disprezzo o la presa di distanza dalle caratteristiche di un altro gruppo (“loro, a differenza nostra, sono così”).
In mancanza di caratteristiche comunitarie condivisibili su così larga scala – non una lingua, non una religione, non una tradizione letteraria, non una mitologia – le rispettive identità nazionali hanno prima affondato le radici nel mito della fondazione post-coloniale, per poi alimentarsi di una rivalità sempre manifestata negli assetti geopolitici internazionali.
Un’identità in negativo da cui le rispettive amministrazioni hanno sempre tratto linfa vitale.
All’epoca della divisione in blocchi, Islamabad entrò entusiasticamente nel gruppo dei paesi filoamericani, instaurando una relazione quantomeno ambigua con gli Stati Uniti, in chiave antisovietica; per contro l’India, ispirata dalla dottrina socialista della dinastia Nehru-Gandhi, si pose al fianco dell’URSS.

Pur con scossoni di portata rilevante – i dissidi scoppiati verso la fine dei Settanta tra il Pakistan di Zulfikar Bhutto e gli Usa di Jimmy Carter e anche quelli tra l’India governata dalla “destra” del Janata Party e l’URSS – tutti e due i paesi hanno sempre interpretato lo scacchiere internazionale come occasione per minacciare o colpire il vicino avversario, senza che nessun leader abbia mai realmente avanzato l’ipotesi di una riappacificazione. Tra la rispettiva minaccia nucleare e il dossier del Kashmir, aperto praticamente sin dai primi vagiti delle due indipendenze, senza contare le continue spinte indipendentiste interne che minacciano le unità nazionali di India e Pakistan, le condizioni per l’apertura di un tavolo delle trattative, francamente, sembrano non essersi mai presentate.
Col passare degli anni e con la messa in soffitta delle polarizzazioni della Guerra Fredda, il deteriorarsi del contesto politico pachistano non ha fatto che peggiorare la situazione.
Da anni Islamabad soffre un’incertezza amministrativa macroscopica: pur in presenza di cicliche elezioni democratiche, i governi pachistani continuano a cadere come birilli tra colpi di stato, scandali genuini o pilotati ad arte da un’eminenza grigia di difficile individuazione: c’è chi la fa coincidere con l’esercito, chi con i potentissimi servizi segreti interni, chi con apparati deviati di uno o dell’altro, su cui aleggiano responsabilità comprovate di collaborazionismo col peggior terrorismo di matrice islamica dell’area.
Una condizione assolutamente favorevole all’attuale amministrazione indiana, guidata dalla formazione conservatrice induista del Bharatiya Janata Party, che sull’ostilità verso il Pakistan ha costruito molto del proprio consenso popolare.
Il primo ministro indiano Narendra Modi, in qualità di Uomo Forte della Nuova India, aveva lasciato intendere un tentativo di approccio risolutivo al problema pachistano, mandando una serie di segnali distensivi all’allora primo ministro pachistano Nawaz Sharif – compresa una visita a sorpresa a Lahore, in Pakistan, il 25 dicembre 2015. Ma la scia di attacchi terroristici ad avamposti militari indiani in Jammu e Kashmir del 2016 – con ogni probabilità sobillati dall’eminenza grigia di cui sopra – ha fatto deragliare ogni speranza di riavvicinamento, riaccendendo in India la propaganda militarista anti-pachistana tipica dell’estremismo induista.
Di male in peggio, non poteva mancare l’intervento dello spauracchio cinese, impegnato nella tessitura di relazioni economico-strategiche per la realizzazione della One Belt One Road Initative, quella Nuova Via della Seta che prevede uno snodo fondamentale nel China Pakistan Corridor e che è stata ufficialmente boicottata dall’India.
Mentre New Delhi e Pechino continuano ad essere ai ferri corti nell’altopiano di Doklam, alle celebrazioni ufficiali per il settantesimo anno di indipendenza del Pakistan, tenutesi a Islamabad lo scorso 14 agosto, l’ospite d’onore del governo pachistano è stato Wang Yang, vice premier della Repubblica popolare cinese. Wang, secondo Express Tribune, ha evidenziato l’importanza dei rapporti sino-pachistani, «più alti delle montagne, più forti dell’acciaio, più dolci del miele». Nella stessa circostanza, il premier pachistano Shahid Abbasi ha spiegato:
«Il nostro governo si è invariabilmente impegnato per iniziare un processo di dialogo significativo e ha adottato mezzi pacifici per la risoluzione dei problemi, ma sfortunatamente le mire espansionistiche dell’India sono rimaste, in questo senso, l’ostacolo più grande».
La frattura del 1947, settant’anni dopo, continua a sembrare tragicamente insanabile.

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