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MONITOR


mer 13 settembre 2017

L’INDIA NON CRESCE PIÙ COME LA CINA

L'economia di Nuova Delhi galoppa «più di quella di Pechino» è stato per mesi il refrain, ma mentre l’ultimo trimestre cinese si è chiuso al +6,9 per cento, l'India si è ritrovata impantanata. E non solo sembra non aver idea di come uscirne, ma – forse peggio – continua ufficialmente a minimizzare.

Non più di tre mesi fa il Fondo Monetario Internazionale magnificava la galoppata economica dell’India mantenendo una previsione più che ottimistica per il 2017: l’India crescerà del 7,2 per cento, si diceva.

Arun Jaitley, ministro delle finanze del governo guidato da Narendra Modi, durante il G20 finanziario del mese di aprile, aveva alzato l’asticella ancora più in alto, vaticinando una crescita del Pil al 7,5 per cento per il medesimo anno.

Poi, lo scorso 31 agosto, l’Ufficio Centrale delle Statistiche (Cso) indiano – sotto il ministero delle statistiche e dell’implementazione del programma – ha divulgato i dati della crescita relativi al trimestre aprile – giugno 2017, decisamente al di sotto delle aspettative: crescita reale del trimestre ferma al 5,7 per cento, sesto trimestre consecutivo di decelerazione e uno scarto di oltre 2 punti percentuali rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (7,9 per cento).
L’India «cresce più della Cina» – l’ultimo trimestre economico per Pechino, nel frattempo, si è chiuso al +6,9 per cento – si è ritrovata così impantanata in sabbie mobili da cui non solo sembra non aver idea di come uscire ma che, forse peggio, continua ufficialmente a minimizzare.
Amit Shah, presidente del partito di governo Bharatiya Janata Party (Bjp), braccio destro di Narendra Modi e tra i più sfacciati spin doctor del subcontinente indiano, ha cercato di tranquillizzare l’opinione pubblica interna e i potenziali investitori internazionali parlando di un presunto rallentamento frutto solo di «ragioni tecniche» e tessendo le lodi dell’attuale governo in carica, ritenuto molto meglio di quello precedente guidato dall’Indian National Congress con Manmohan Singh.

Lo stesso Singh che, ricordano i più puntigliosi, nel novembre del 2016 aveva messo in guardia lo zelo decisionista dell’attuale governo in carica, prevedendo una perdita di almeno due punti percentuali del Pil: economista di formazione, alla fine si è sbagliato di 0,2 punti.

Il novembre 2016, col senno di poi, è oggi considerato un mese spartiacque per la deludente performance economica indiana. Un periodo nel quale il governo del Bjp ha imposto una delle due misure shock che, aggiungendosi ad atavici deficit strutturali, hanno ulteriormente azzoppato la crescita economica nazionale.

Non andiamo con ordine e partiamo dalla seconda, dalla mega riforma fiscale che pochi mesi fa ha introdotto nella federazione indiana la tanto agognata Good and Service Tax (Gst) [ne avevamo parlato già su i Diavoli qui, ndr].
L’avvento di un’imposta unica equiparabili alla nostra Iva da un lato ha finalmente unificato l’enorme mercato indiano, abbattendo le tasse sull’import-export da stato a stato, ma dall’altro ha posto di fronte a tutte quelle imprese nazionali – in gran parte piccole e medie – un nuovo e caotico regime fiscale cui sottostare, senza un’adeguata preparazione.
L’incertezza per il futuro ha spinto a un cosiddetto «destocking» su scala nazionale: ovvero, i commercianti hanno cercato di svuotare il magazzino svendendo tutto, operazione che si è ripercossa sui profitti, crollati dell’11 per cento rispetto allo stesso periodo del 2016.
La prima ragione del rallentamento economico ha una data di nascita precisa, mezzanotte dell’8 novembre 2016, e un nome di battesimo: demonetizzazione, diminuito a un confidenziale DeMo facendo il verso a NaMo, il soprannome accattivante del premier Narendra Modi. Dalle 00:01 del 9 novembre, per volere insindacabile di NaMo, tutte le banconote da 500 e 1000 rupie (pari all’86 per cento della cartamoneta in circolazione nel paese) venivano messe fuori corso, diventando carta straccia da depositare sul conto corrente o cambiare con nuove banconote presso gli sportelli bancari.
La misura shock ha mandato nel panico centinaia di milioni di persone, con code chilometriche agli sportelli, credit crunch diffuso e paralisi quasi totale delle attività economiche nazionali, per oltre il 90 per cento condotte in un regime informale e, quindi, in contanti.
Una terapia d’urto necessaria, secondo la propaganda governativa di novembre, per stanare gli evasori fiscali e azzerare i fondi illeciti («black money») secondo un sistema tanto elementare quanto doloroso: filtrando tutta la cartamoneta attraverso il setaccio delle banche, dove si poteva depositare cash solo a fronte di documenti che ne accertassero la provenienza (atti di vendita, parcelle, ricevute…), la demonetizzazione avrebbe ripulito il paese dalla piaga del «black money», tagliando le gambe all’evasione fiscale, alla criminalità organizzata e al terrorismo.
Dopo mesi di controlli, lo scorso 30 agosto la Reserve Bank of India (la Banca centrale indiana) ha divulgato l’esito finale della demonetizzazione: di tutte le banconote ritirate dalla circolazione, il 98,96 per cento sono state giudicate lecite e quindi reintrodotte nel sistema bancario.
Un fallimento di dimensioni ciclopiche che si è abbattuto con violenza sull’economia informale, falcidiando milioni di posti di lavoro in particolare tra i «daily wagers» e i contadini e che, di fatto, ha rallentato tragicamente i consumi mantenendo invariata l’evasione fiscale.
Una follia imposta per motivazioni reali ancora oggi imperscrutabili ma che, concretamente, ha compromesso gravemente la crescita del paese e scoraggiato l’arrivo di nuovi investitori di cui l’India ha disperato bisogno. Un bel grattacapo per NaMo che sulla crescita economica e sul «progresso per tutti» ha scommesso molto in termini politici e che tra un anno e mezzo cercherà una rielezione plebiscitaria alle nazionali del 2019.

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