Decodificare il presente, raccontare il futuro

MONITOR


mar 14 marzo 2017

INDIA, IL GRANDE BLUFF DELLA GIG ECONOMY

Con una crescita record del Pil, ma in assenza di un corrispettivo aumento dei posti di lavoro, l’India è affetta dalla patologia sistemica chiamata “jobless growth”. Davanti alla sfida titanica di un’espansione galoppante, basata su fondamenta incerte, il paese asiatico ha scommesso su settori come hi-tech ed e-commerce, diventando un gigantesco laboratorio della cosiddetta “gig economy”. Tra crisi patrimoniali e folli azzardi, scontri senza esclusione di colpi per il controllo del mercato, ondate di licenziamenti e scioperi durissimi, l’economia indiana delle app e delle startup ha svelato il suo vero volto. La medicina per la jobless growth non è la gig economy.

L’India della crescita record del Pil, l’India che con un più 7 per cento annuo galoppa più forte della Cina, è affetta da una malattia grave. Il termine tecnico è jobless growth, la patologia sistemica che registra un incremento del Pil da sogno senza un corrispettivo aumento dei posti di lavoro e malgrado la significativa crescita della forza lavoro disponibile. Secondo l’ultimo Economic Survey, la cartina di tornasole dell’economia nazionale redatta annualmente dal ministero delle finanze indiano, nel 2015 gli otto settori produttivi principali «labour intensive» indiani hanno generato solo 135mila nuovi posti di lavoro; per contro, nello stesso periodo, dieci milioni di persone si sono aggiunte alla forza lavoro complessiva del Paese. Un numero destinato a crescere esponenzialmente, considerando che oggi quasi un indiano su due ha meno di 25 anni.
Il governo indiano ha ben presente la sfida titanica che si para davanti a un’economia aritmeticamente in espansione, ma poggiata su basi sempre più pericolanti che, in mancanza di infrastrutture e condizioni di mercato tali da attirare in massa gli investitori stranieri, le casse di New Delhi da sole non sono in grado di puntellare. Anche per questo, ricalcando una scelta di campo già fatta all’indomani delle riforme economiche degli anni Novanta, l’India sembra ancora affidarsi a settori d’élite come hi-tech, e-commerce e avventurieri autoctoni della new economy, facendo del secondo Paese più popoloso al mondo un gigantesco laboratorio umano degli effetti della cosiddetta gig economy. Si parla di nomi più o meno noti a livello internazionale – Uber e Amazon tra i primi, Olacabs, Flipkart e Snapdeal tra i secondi – impegnati da alcuni anni in una guerra intestina per primeggiare in un mercato relativamente esiguo, per le scale di grandezza indiane, ma dalle prospettive di crescita entusiasmanti.
Questo tipo di servizi, dal retailing online ai servizi di taxi via app, si rivolgono quasi esclusivamente a quel 10-15 per cento di indiani dalla middle class in su che, però, detengono oltre l’85 per cento della ricchezza nazionale: un segmento che, complice la spinta modernizzatrice dell’immaginario collettivo propagandata dal primo ministro Narendra Modi, si sta sempre più allineando a usi e costumi del primo mondo digitalizzato.
Prendiamo come esempio il settore dell’online retailing, dove le indiane Flipkart e Snapdeal da tre anni stanno combattendo per tutelarsi dall’entrata nel mercato del gigante statunitense Amazon: secondo le analisi di mercato di RedSeer, riprese dal portale economico indiano LiveMint, nel 2015 il volume dell’«e-tailing» in India è cresciuto del 180 per cento rispetto all’anno precedente. Ma, solo un anno dopo, il giro d’affari del settore si è fermato a 14,5 miliardi di dollari, crescendo in un anno «solo» del 12 per cento.
In quei 365 giorni, costrette a rafforzarsi per far fronte alla competizione d’oltremare, Flipkart e Snapdeal hanno giocato una gara al rialzo degli stipendi per accaparrarsi le migliori menti dell’imprenditoria smart indiana, pagando mensilità stellari in aggiunta a un allargamento costante dell’organico di basso livello (facchini e trasportatori). Il tutto confidando nella continua iniezione di capitali da parte dei grandi investitori indiani e stranieri, che ripianavano conti sistematicamente in rosso considerati «fisiologici» nello scontro per il predominio del mercato. Ma senza alcun segnale di profittabilità all’orizzonte, i rubinetti delle banche hanno iniziato a chiudersi, costringendo Flipkart e Snapdeal a fare i conti con perdite che doppiavano le entrate: Flipkart, ad esempio, nel 2016 ha ricavato 293 milioni di dollari, ma ne ha spesi 346; Snapdeal ne ha ricavati 218, spendendone 498, mentre Amazon a fronte di 341 milioni di ricavi nelle proprie operazioni in India ne ha spesi 525. Se la compagnia di Jezz Bezos ha le spalle coperte e ha confermato un investimento in Amazon India del valore di 5 miliardi di dollari, per le compagnie indiane tenere questi ritmi rasenta la missione impossibile, tanto che Snapdeal all’inizio dell’anno ha annunciato centinaia di licenziamenti nelle divisioni di logistica e pagamenti. I fondatori di Snapdeal, Kunal Bahl e Rohit Bansal, in una lettera aperta ai propri dipendenti hanno ammesso di aver sbagliato clamorosamente business model, ingrandendosi e diversificando eccessivamente i servizi sulla base di iniezioni di capitali che hanno fatto perdere di vista quello che dovrebbe essere l’obiettivo primario di un imprenditore: creare un’azienda sana e stabile. Un mea culpa inedito nel panorama indiano che, nonostante il plauso degli editorialisti progressisti, pare abbia lasciato indifferente il Pirro della situazione: Flipkart, avendo fatto fuori il diretto concorrente indiano, è pronta a continuare la battaglia con Amazon annunciando di voler assumere almeno altre mille persone nel 2017, mentre secondo la stampa nazionale sarebbe alla ricerca di altri 800 milioni di dollari di fondi per mantenersi a galla.
Lo stesso identico paradigma ha segnato il fenomeno delle app per taxi, con Olacabs e Uber che prima, fino al 2015, promettono agli autisti stipendi di dieci volte superiori alla media – si arrivava a guadagnare tremila euro al mese – e contestualmente lanciano promozioni eccezionali per i nuovi utenti, come tariffa flat a 1,5 euro per una corsa a New Delhi; poi, col mercato saturo e i conti che non tornano, nel 2016 iniziano a tagliare i benefit, lasciando centinaia di migliaia di novelli tassisti 2.0, che avevano rinunciato a lavori magari più stabili, ma decisamente meno remunerativi, con un investimento scoperto a quattro ruote dal quale rientrare facendo turni sfiancanti da 16 ore al giorno: senza malattia, senza pensione, senza assicurazione coperta dall’azienda.
Risultato: nel febbraio del 2017 le principali sigle sindacali dei tassisti indiani hanno indetto uno sciopero totale del servizio, ritirato dopo tredici giorni con la promessa di sedersi a un tavolo per ridiscutere le condizioni di lavoro. Una trattativa che si preannuncia durissima e che, se non si troverà la mediazione delle istituzioni, rischia di esplodere nelle mani di centinaia di migliaia di lavoratori.
Condizione, per assurdo, ben più rosea del resto degli impiegati freelance della gig economy, falcidiati da licenziamenti in tronco ai quali non è stata opposta alcuna resistenza sindacale. Secondo Techcircle, in un anno le startup indiane hanno licenziato più di diecimila lavoratori. Un bagno di sangue ancora in corso che conferma una pessima notizia per l’economia indiana: la medicina per la jobless growth, purtroppo, non è la gig economy.

NEWSLETTER


Autorizzo trattamento dati (D.Lgs.196/2003). Dichiaro di aver letto l’Informativa sulla privacy.



LEGGI ANCHE: