Decodificare il presente, raccontare il futuro

MONITOR


mar 23 maggio 2017

INDIA: CORSA AL RIBASSO PER I LAVORATORI

Oltre il 90 per cento dei lavoratori in India è impiegato nel cosiddetto «unorganized sector» (settore informale), una vera e propria economia parallela a quella «regolare» che prospera sull’assenza di qualsivoglia tutela contrattuale. Una realtà lavorativa capace di perpetrare e diffondere gli orrori degli «sweatshop» in svariati settori produttivi, dove la forza-lavoro deumanizzata viene retrocessa al ruolo di macchina.

A pochi giorni dal 26 maggio 2017, terzo anniversario del governo guidato da Narendra Modi in India, la stampa indiana sta rilanciando con forza un tema fino a questo momento affrontato tangenzialmente sia dai media mainstream sia, soprattutto, dall’amministrazione in carica.
È il problema della jobless growth, che avevamo definito come «la patologia sistemica che registra un incremento del Pil da sogno senza un corrispettivo aumento dei posti di lavoro e malgrado la significativa crescita della forza lavoro disponibile».
Già qualche tempo fa rilevavamo, dunque, come la gig economy non possa rappresentare una valida alternativa alla preoccupante carenza di posti di lavoro in India, e recentemente il macigno della «crescita senza lavoro» sembra destinata a diventare la delusione più cocente del governo Modi.

La crisi dell’impiego in numeri

Secondo un sondaggio condotto da LocalCircles in più di 200 città indiane, ripreso da India Today, il 63 per cento degli intervistati ritiene che l’attuale governo in carica abbia fallito nella sfida di aumentare sensibilmente i posti di lavoro offerti dal mercato nazionale.
La stampa nazionale ricorda le dichiarazioni altisonanti fatte da Narendra Modi durante la campagna elettorale, quando dal palco di un comizio tenutosi ad Agra, Uttar Pradesh, nel novembre del 2013 prometteva «10 milioni di nuovi posti di lavoro all’anno» se il Bharatiya Janata Party (Bjp) fosse riuscito a salire al potere.
Secondo le statistiche del Labour Bureau indiano, nel 2014 (con Modi al governo solo negli ultimi sette mesi) sono stati creati 421mila posti di lavoro; per il 2015 la cifra è scesa a 155mila, risalendo a 231mila nell’anno solare 2016. Come termine di paragone, nel 2009 l’allora governo guidato da Manmohan Singh (Indian National Congress) fissò il record positivo dell’ultimo decennio con oltre un milione di nuovi posti di lavoro.
Attenzione: stiamo parlando di posti di lavoro creati in categorie specifiche del cosiddetto «organised sector» (settore formale), ossia l’insieme delle attività produttive del mercato indiano con contratti di lavoro regolari – salario fisso, otto ore di lavoro, pensione, vacanze, malattia, assicurazione – tipiche dei grandi gruppi industriali locali.

La narrazione (falsata) dei nuovi posti di lavoro

M.K. Venu, sul quotidiano online The Wire, ha ricordato come nel 2015 il governo Modi abbia deciso di includere nei dati relativi al settore formale anche il comparto dei servizi, aggiungendo le voci di salute, educazione e hotel/ristorazione alle tradizionali categorie di manifatturiero, costruzioni, commercio, trasporto e IT/BPO (Information Technology e Business Process Outsourcing).
Grazie al cambio metodologico, il totale dei nuovi posti di lavoro creati nel 2016 (231mila) risulterebbe quindi gonfiato, a copertura di un ben più misero incremento dei posti di lavoro nelle categorie tradizionali del settore formale che, secondo le stime, assorbirebbero meno del 10 per cento della forza-lavoro nazionale.

Uomini-macchina: la forza-lavoro deumanizzata

Da tutto ciò deriva il fatto, ben noto agli analisti ed economisti indiani, che oltre il 90 per cento dei lavoratori in India è impiegato nel cosiddetto «unorganized sector» (settore informale), una vera e propria economia parallela a quella «regolare» che prospera sull’assenza di qualsivoglia tutela contrattuale.
Una realtà lavorativa capace di perpetrare e diffondere gli orrori degli «sweatshop» in svariati settori produttivi, dove la forza-lavoro deumanizzata viene retrocessa al ruolo di macchina.
«Machines» si intitola infatti il nuovo documentario di Rahul Jain, recensito da Alessandra Mezzadri su The Conversation, girato in una fabbrica tessile a Surat, nello stato indiano del Gujarat.
Mezzadri, senior lecturer presso la School of Oriental and African Studies della University of London ed esperta di mercato del lavoro nel subcontinente indiano, scrive: «Jain cattura perfettamente il tenore e l’immagine dell’intensità lavorativa con primi piani di lavoratori esausti soggetti a turni di dodici ore […]. Si tratta di lavoratori migranti maschi – nessuna donna è rappresentata nel documentario – che per sopravvivere sono costretti ad abbandonare i propri villaggi e le proprie fattorie. Nel nostro ultimo progetto accademico sull’industria del tessile, completato lo scorso anno, abbiamo rilevato come turni da 12 fino a 16 ore rappresentino assolutamente la norma per questo tipo di lavoratori».
Nell’ultimo Economic Survey del ministero delle finanze indiano, proprio il settore del tessile, quasi interamente alimentato da condizioni lavorative disumane, assieme a quello del pellame sono considerati i due campi in cui è necessario concentrare gli sforzi governativi per l’aumento dell’impiego nel settore formale, cioè quello regolamentato.
L’analisi fatta dai tecnici del ministero, rilevando uno spostamento dei processi produttivi dalla Cina verso Vietnam e Bangladesh come conseguenza dell’aumento dei salari nella Repubblica popolare, indica che «per non cedere questo spazio a competitor come Vietnam e Bangladesh sarà necessario alleggerire le restrizioni e le regolamentazioni del lavoro e negoziare Free Trade Agreements coi principali partner commerciali come Unione Europea e Regno Unito […]».
Il timore è che, per accaparrarsi segmenti di produttività in uscita dalla Cina, l’India prediliga una rincorsa al ribasso sui temi della sicurezza sul lavoro e sulle tutele contrattuali, cercando di arginare una crisi dell’impiego che, con 15 milioni di indiani in più che si affacciano sul mercato del lavoro ogni anno, rischia di destabilizzare l’irresistibile galoppata del Pil indiano, che a +7,5 per cento previsto per il 2017 correrà come nessun altro al mondo.
L’emorragia dell’impiego potrebbe presto abbattersi anche sui settori simbolo della crescita indiana, l’IT e il BPO, che al momento danno lavoro a poco più di quattro milioni di persone.
Un rapporto di McKinsey and Company ritiene infatti che nei prossimi tre anni i tagli nel solo IT indiano potrebbero attestarsi tra i 175mila e i 200mila posti di lavoro all’anno, a causa della scarsa preparazione del settore nell’adattarsi alle tecnologie più moderne.

NEWSLETTER


Autorizzo trattamento dati (D.Lgs.196/2003). Dichiaro di aver letto l’Informativa sulla privacy.



LEGGI ANCHE: