Decodificare il presente, raccontare il futuro

MONITOR


mer 12 luglio 2017

IL SUMMIT G20, UN CONTENITORE VUOTO

I miseri risultati dell'incontro di Amburgo impongono una riflessione rispetto al perdurare del "sistema" G20. Oltre al salvataggio dello status quo neoliberista, unica crisi capace di riunire efficacemente gli Avengers del libero mercato, rispetto al resto dei temi affrontati di anno in anno ai summit dei 20 "Grandi", l’incidenza del gruppo sulla realtà è stata del tutto risibile. L'appuntamento è così diventato a uso e consumo delle rispettive propagande nazionali e happening per rinverdire rapporti bilaterali, con pompose dichiarazioni d’intenti globali pronte a cedere sistematicamente il passo alle ragioni delle rispettive «realpolitik» nazionali.

Mai come oggi, in un contemporaneo dove le divergenze in seno alla comunità internazionale emergono evidenti nel discorso globale, la ritualità stanca del G20 mostra crepe di un costrutto non solo dannoso ma probabilmente inutile e obsoleto.

Riuniti per 48 ore ad Amburgo, assediati dalle proteste di diverse migliaia di manifestanti e protetti alacremente dalle divise della repressione tedesca, i leader dei 20 «Grandi» hanno inscenato il tradizionale teatrino annuale intorno all’immagine di un’élite mondiale – autocertificatasi come tale – che vuole raccontarsi responsabile nelle divergenze e compatta di fronte alle varie declinazioni di sempre nuove «crisi».
Complice l’ormai usuale effetto dirompente di Donald Trump, capace di far esplodere contraddizioni in ogni consesso internazionale in cui metta piede proprio grazie alla mancanza di qualsiasi cognizione di internazionalità, il G20 di Amburgo è da considerarsi uno dei meeting più fallimentari di sempre, come se la presenza di un presidente degli Stati Uniti così «inadeguato» fosse la causa del deragliamento di trattative altrimenti ben più fruttuose.
Se l’irresponsabilità e l’inadeguatezza di Trump sono dati di fatto difficilmente contestabili – e le foto del meeting sulle note dell’inno “Make America Great Again” twittato da The Donald ne sono l’ultima grottesca riprova – i miseri risultati in termine di consenso elencati nella dichiarazione finale dei leader impongono una riflessione decisamente più radicale circa il perdurare del sistema G20 in sé.
In 12 mila al corteo di protesta “Welcome to Hell”
Ne sono esempio lampante, tra le altre:
1) la conferma dell’uscita degli Usa dal trattato di Parigi sul clima – segnata per la prima volta nella storia del G20 in un’apposita postilla nel «Climate and Energy Action Plan for Growth»; 2) l’enfasi posta sul «diritto sovrano degli stati di gestire e controllare i propri confini e formulare politiche proprie che rispondano all’interesse nazionale e alla sicurezza nazionale», in risposta ai fenomeni migratori globali; 3) l’ammissione delle «sfide» poste dalla globalizzazione, in uno scarto notevole rispetto alla narrazione della globalizzazione in chiave neoliberista come panacea di tutti i mali, a cui però si contrappongono soluzioni di carattere nazionale, non collettivo.
Il filosofo Srećko Horvat, in un intervento pubblicato sul Guardianalla vigilia del summit, prima elenca alcune tra le divergenze tra i vari leader del G20 – Trump vs tutti; Merkel vs Erdogan; Merkel vs Trump; Theresa May vs Ue. Poi, evidenzia la presenza di leader controversi come Putin, Erdogan, Xi e i sauditi a fare la passerella tra i rappresentanti del «free world». Infine, suggerisce:
«Il vero problema è il sonno [di fronte alle emergenze mondiali] dei leader del mondo libero, rappresentati al G20 da Merkel, May e altri, che è all’origine dell’attuale incubo distopico in cui viviamo (guerre, terrorismo, crisi dei rifugiati e dei cambiamenti climatici). In questo senso, l’attuale G20 non è solo una dimostrazione del disaccordo su tutti i fronti ma – dopo Amburgo – se il G20 può proprio continuare a esistere in assoluto».
Una sfilata di zombie contro il G20 per gli attivisti del gruppo “1000 Gestalten”
A porsi la stessa questione già nel 2014 è stato Anthony Payne, condirettore dello Sheffield Political Economy Research Institute(SPERI) presso la University of Sheffield, in un articolo accademico intitolato «Governing Global Crisis: Why the G20 Summit Was Created and What We Still Need It To», cercando di andare alla radice di una diffusa incomprensione generale.

Ancora oggi perdura la convinzione che il G20 possa fare le veci di un idealistico «governo globale» – parafrasando la difesa d’ufficio del summit firmata da Christiane Hoffmann per Der Spiegel – un Dream Team di potenti che, ricalcando le movenze dei blockbuster apocalittici hollywoodiani di inizio millennio, sia pronto a far fronte comune contro le grandi crisi accidentali della Terra.

Payne, ricordando le ragioni originarie che portarono alla nascita del G20 per capi di stato nel 2008, scrive:
«Il neoliberismo è stato spesso erroneamente interpretato come un crudo rifiuto dello stato e un sostegno a tutto tondo dei metodi e dei costumi del mercato. In realtà, rappresenta molto di più l’uso creativo del potere statale per la costruzione dell’ordine del libero mercato. Da questa prospettiva, l’adozione degli stimoli per la crescita dei G20 di Washington, Londra e Pittsburgh nel bel mezzo della crisi finanziaria del 2008-09 fu esattamente la reazione che ci si aspettava dai leader neoliberisti di fronte al crollo finanziario. In circostanze d’emergenza, hanno usato gli stati per salvare il mercato globale, non per riformarlo».
Oltre al salvataggio dello status quo neoliberista, unica crisi capace di riunire efficacemente gli Avengers del libero mercato, rispetto al resto dei temi affrontati di anno in anno ai summit dei 20 “Grandi”, l’incidenza del gruppo sulla realtà è stata del tutto risibile. L’appuntamento è così diventato a uso e consumo delle rispettive propagande nazionali e happening per rinverdire rapporti bilaterali, con pompose dichiarazioni d’intenti globali pronte a cedere sistematicamente il passo alle ragioni delle rispettive «realpolitik» nazionali.
Secondo Payne, si tratta di un malfunzionamento strutturale non casuale:
«Il problema più profondo è che il G20, secondo la struttura attuale, è un contenitore vuoto in attesa di essere riempito. O, adottando una metafora forse più esaustiva, è un’automobile parcheggiata, ferma in parcheggio (tra un meeting e l’altro) in attesa di un nuovo autista che di volta in volta arrivi e si sieda alla guida. Il presidente russo Vladimir Putin se la noleggia per un po’ e poi la riconsegna (senza che nessuno controlli né chieda rimborsi per eventuali danni); l’auto se ne sta ferma per un po’ nel parcheggio e finché a un certo punto si presenta Tony Abbot (ex premier australiano, ndr), prende le chiavi e la porta a fare un giro in strada di nuovo».
Nella realtà multipolare della governance globale, è lecito chiedersi se la sopravvivenza del G20 abbia qualche ragion d’essere che vada oltre la strenua difesa dell’ordine neoliberista e l’autocompiacimento di una classe dirigente non all’altezza delle conseguenze della globalizzazione. E se queste due ragioni non siano già abbastanza per reclamarne a gran voce la dismissione.

NEWSLETTER


Autorizzo trattamento dati (D.Lgs.196/2003). Dichiaro di aver letto l’Informativa sulla privacy.



LEGGI ANCHE: