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MONITOR


gio 15 marzo 2018

IL PALLONE NELL’OCEANO DEL DEBITO PT2

Il pallone naufraga nell’oceano del debito. Intanto, uno spettro si aggira per l’Europa calcistica. È il fantasma di Yonghong Li. In principio il Milan e le sue vittorie sono serviti a Silvio Berlusconi per entrare nel salotto buono della finanza milanese. È andata avanti così per un ventennio. L’elicottero che atterra all’Arena di Milano mentre gli altoparlanti sparano la Cavalcata delle Valchirie sono il preludio di un'estetica totalizzante wagneriana che si dispiega nel feroce pressing di Arrigo Sacchi. E trova il suo culmine nella finale del 1994, quando la vittoria della Coppa dei Campioni suggella la discesa politica in campo del padrone. Dopo, con Mondadori e Mediaset che passano in gestione ai figli, il Milan non serve più. E in qualche modo andava messo su piazza, anche se indebitato fino all’osso.

Uno spettro si aggira per l’Europa calcistica. È il fantasma di Yonghong Li.
Il Milan e le sue vittorie sono serviti a Silvio Berlusconi per entrare nel salotto buono della finanza milanese, poi per imporsi sulla scena politica. È andata avanti così per un ventennio. L’elicottero che atterra all’Arena di Milano mentre gli altoparlanti sparano la Cavalcata delle Valchirie sono il preludio di un’estetica totalizzante wagneriana che si dispiega nel feroce pressing di Arrigo Sacchi.
E trova il suo culmine nella finale del 1994, quando ad Atene il Milan distrugge 4-0 il Barcellona e la Coppa dei Campioni suggella la discesa politica in campo del padrone.
Nesta, Shevchenko, Rui Costa, Kakà, vanno e vengono a seconda dei sondaggi elettorali. Poi, nel 2008 arriva la crisi, nel 2009 la prima sentenza della causa civile sul Lodo Mondadori con il risarcimento che Fininvest deve pagare alla Cir di De Benedetti. Nel 2011 lo spread lo disarciona dal Governo.
Intanto Mondadori e Mediaset passano in gestione ai figli, poi anche Fininvest. Il Milan non serve più.
Per un paese che fatica ad arrivare a fine mese, per una casa madre che deve ripianare bilanci in rosso ogni anno per decine di milioni, è controproducente. I debiti del club rossonero crescono in maniera esponenziale, si sforano i duecento milioni. Si eccedono i trecento. I trofei sono un lontano ricordo, i campioni anche. Rimangono solo strane operazioni di contorno: calciatori ipervalutati che entrano ed escono dalla rosa senza lasciare traccia. Ma è poca cosa, così fan tutti.
Si comincia a parlare di vendita. Da anni. Questo è il punto.
Sui giornali escono nomi di sceicchi arabi, oligarchi russi, imprenditori americani, latifondisti messicani, faccendieri albanesi. Fino al Partito Comunista Cinese in persona: un mitologico golem dalla forma antropomorfa e dalle radici marxiste che sarebbe interessato alla squadra rossonera. È tutto assurdo. È tutto vero, a guardare gli archivi della stampa sportiva e non solo.
Fino a che, nel giugno del 2015, il Milan è ufficialmente venduto a Bee Taechaubol, oscuro finanziere thailandese, che acquista il 48% delle quote del club per 480 milioni, dandone quindi una valutazione di un miliardo esatto.
Lo scrivono tutti, lo certifica anche Fininvest con un comunicato ufficiale. Ma c’è qualcosa di strano, di molto strano.
Non solo sul misterioso personaggio di Bee Taechaubol e sull’insolita lungaggine della trattativa. Quello che non torna è l’ipervalutazione del club.
All’epoca della presunta vendita del club a Bee Taechaubol, l’ultimo bilancio disponibile del Milan, quello del 2014, segnava una perdita record di 90 milioni, l’ultimo calciomercato un passivo di 80, i debiti erano a oltre 200 milioni.
Il Milan aveva una rosa del valore di un centinaio di milioni scarso, e non possedeva beni immobili altri dal centro sportivo di Milanello. La nuova sede di via Aldo Rossi è in affitto, a prezzi esorbitanti. E lo stadio di proprietà al Portello non solo non è mai stato costruito ma è in corso una vertenza di risarcimento con la Fiera di Milano.
Se il valore di club calcistici sani, proprietari di immobili, si aggira intorno ai 300 milioni – il Liverpool è stato da poco venduto per 400 milioni con lo stadio di Anfield annesso, l’Inter da Thohir è stata valutata meno di 250 milioni – com’è possibile valutare il disastrato Milan 1 miliardo?
Inoltre, la stessa Fininvest, che detiene il 99,9% delle azioni del Milan, lo iscrive a bilancio del 2014 per un valore di 425 milioni. E Bee Taechaubol lo valuta un miliardo. Come è possibile che un acquirente decida di pagare X (il doppio) una merce che il venditore valuta Y (la metà)?
Senza troppe spiegazioni, la vendita del Milan all’oscuro finanziere thailandese Bee Taechaubol salta. Tra le varie scuse, l’amore, la malattia, il cielo, non è mai menzionato il vil denaro. Nel frattempo, però, succede che Vivendi comincia una scalata ostile a Mediaset. Fininvest trema. Bisogna affrettarsi.
E così, esattamente un anno dopo, nell’agosto del 2016, Fininvest cede in tutta fretta il 99,93% del capitale azionario del Milan per una cifra pari a 740 milioni, compresi debiti per circa 220 milioni, alla Sino-Europe Investment Management Changxing, società cui fa capo un certo Yonghong Li, personaggio che in Cina non conosce nessuno.
Fininvest si è intanto premurata di investire 150 milioni a fondo perduto nel Milan, e così a bilancio 2015, l’ultimo disponibile, lo può iscrivere per un valore di 494 milioni, facendo in modo che con i debiti, 330 milioni poi scesi fino a 220, il prezzo di vendita corrisponda ai 740 milioni pagati dalla Sino-Europe Investment Management Changxing: la misteriosa società creata apposta per acquistare il Milan, che nel giro di un anno racimola (340 milioni), prende in prestito (303 milioni) e versa l’intera somma a Fininvest. O meglio, versa a Fininvest dei soldi presi a credito impegnando il Milan stesso.
Il Milan è diventato un subprime.
Sino-Europe Investment Management Changxing ovviamente è una scatola vuota, usata per far transitare i fondi a Fininvest. Anche perché ad aprile 2017, quando è pagata l’ultima tranche da 520 milioni dell’acquisto del Milan, i soldi arrivano in Italia da una ancora più misteriosa holding costituita in Lussemburgo: Rossoneri Champion Investment Lux Sarl. L’unico socio della holding, capitale da 12 mila euro (!), è la Rossoneri Sport Investment Co. Limited, creata qualche settimana prima a Hong Kong. E non è finita qui, nasce anche la Project RedBlack sarl, un veicolo finanziario utilizzato per ricevere i prestiti necessari all’acquisto del Milan.
Dentro Project RedBlack sarl confluiscono infatti Elliott Management e il fondo londinese Blue Sky, che versano un totale di 303 milioni così suddivisi: 180 milioni a Rossoneri Sport Investment Lux Sarl (controllata al 100% da Rossoneri Champion Investment Lux Sarl) per garantire il closingdella trattativa di acquisto; 123 milioni al Milan, di cui 73 per ripianare i vecchi debiti con le banche creditrici; e 50 per lo sviluppo del club.
Gli interessi sono dell’11,5% sui 180 milioni in carico a Rossoneri Lux e il 7,7% sui 123 in carico al Milan, attraverso due distinte obbligazioni. Con l’aggiunta di una clausola di default. Nel caso non fossero restituiti i 180 milioni al fondo Elliott, il prossimo autunno il Milan, con tutti i suoi marchi registrati, le proprietà, i conti correnti, i pegni e le società controllate passerebbe alla società creditrice. Tutto il Milan è in mano a Elliott, in pratica.
Ecco perché, la disperata ricerca per rifinanziare il debito con Elliott ha portato l’amministratore delegato Marco Fassone a Londra, dalla BGB Weston – quella “piccola società di consulenza (780mila sterline di giro d’affari e 137mila di utile)” nella quale lavora Antonio Giraudo e che fa parte di un più ampio network che gestisce il factoring del pallone.
Ma la questione del debito si fa ancora più ingarbugliata.
Se con 303 milioni Elliott si può prendere il Milan, e 303 milioni come abbiamo visto dai bilanci Fininvest sarebbe più o meno il valore dal club al netto dei debiti, altra coincidenza – meravigliosa dopo quella di Giraudo – è che anche il resto non è rintracciabile.
Sono fondi offshore che si perdono nei passaggi tra Hong Kong e i paradisi fiscali dei caraibi.
Ma chi li ha messi? Non certo il misterioso Yonghong Li. Personaggio sconosciuto, le cui millantate ricchezze non trovano alcun riscontro in alcun ambiente né tantomeno in alcun registro ufficiale.
Lo ha scritto lo scorso novembre il «New York Times», mostrando come le miniere di fosforo da lui millantate come epicentro della sua ricchezza apparterrebbero in realtà ad altri personaggi poco raccomandabili, di cui uno a lui collegato indirettamente. Lo hanno ribadito la scorsa settimana Milena Gabbanelli e Mario Gerevini sul «Corriere della Sera», arrivando a scrivere che i pochi beni di questo Mister Li sarebbero stati messi all’asta su Taobao, l’ebay cinese.
Poche cose sono certe in questa faccenda. La valutazione del Milan, del suo marchio e dei suoi asset, è di 303 milioni, quanto avrebbe sborsato il fondo Elliott in caso non siano restituiti i prestiti. Una valutazione equa e consona al valore del club.
In qualche modo, da qualche parte del mondo, sono partiti dei soldi – per un totale di 580 milioni – che sono finiti nelle casse di Fininvest, in un momento durissimo di crisi editoriale per Mondadori e di battaglia campale con i francesi di Vivendi per Mediaset.
La Uefa per ora ha respinto ogni piano di rifinanziamentopresentato dalla dirigenza rossonera, non è detto che a breve non possa respingere l’iscrizione del club alle sue competizioni.
In Italia invece, come sappiamo, si può iscrivere chiunque. Tanto poi quando un club fallisce – una media di dieci l’anno – non lo sapeva mai nessuno.
Anzi, in alcuni casi, vedi quello del Parma, il club era addirittura portato ad esempio di società modello per la buona gestione.
Fin dai primi giorni della trattativa, e durante l’ultimo anno, ogni settimana in qualche modo collegati alla proprietà del Milan spuntano i nomi di Doyen, Jorge Mendez e Alisher Usmanov, gli esploratori delle nuove frontiere del pallone di cui ci siamo occupati nella prima parte. Basta una minima ricerca su Google e appaiono centinaia di articoli che collegano il Milan a questi nomi.
Se i movimenti virtuali di denaro rimbalzano nei quattro angoli del globo, il tavolo dove sedersi per partecipare al gioco è nelle sedi delle società finanziarie londinesi. Lì dove lavora anche Antonio Giraudo.
Il bello è che sono tutte coincidenze. Non c’è nulla di male. Forse solo che il Milan somiglia sempre più a un derivato, a un titolo tossico finanziario.
Il pallone ha superato il punto di non ritorno, l’orizzonte degli eventi.
La prima parte, qui.

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