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MONITOR


mar 13 marzo 2018

IL PALLONE NELL’OCEANO DEL DEBITO PT1

Il pallone da anni galleggia nell’oceano del debito. Da qualche tempo, però, si è arenato sugli scogli dei subprime. Il rischio è di sgonfiarsi, di esplodere, con la creazione di una bolla come quella dei mutui americani sulle case. Lo sanno tutti, non lo dice nessuno. I debiti della Serie A ammontano a oltre 3 miliardi, superando di gran lunga il valore della produzione. E di questi 3 miliardi di debiti si stima che almeno 1 miliardo sia dovuto al factoring, la cessione di crediti, o futuri introiti. La Serie A è un campionato di calcio fondato sui subprime.

Il pallone da anni galleggia nell’oceano del debito. Da qualche tempo, però, si è arenato sugli scogli dei subprime.
Il rischio è di sgonfiarsi, di esplodere, con la creazione di una bolla come quella dei mutui americani sulle case.
Lo sanno tutti, non lo dice nessuno.
C’è una società, sede legale alle Isole Vergine Britanniche. Si chiama Vibrac Corporation.  Presta soldi alle squadre di calcio, in cambio dei futuri introiti dei diritti tv o della vendita di calciatori. In gergo tecnico si chiama factoring. Nella Premier League ha intrattenuto rapporti a vario titolo con Everton, Fulham, Southampton, West Ham.
Finché la questione è anticipare i soldi delle televisioni, il rischio è basso: solo se una squadra retrocede rischia di non riuscire a ripagare il debito.
Quando invece si tratta di future sul calciomercato, la questione è un po’ più spinosa, perché in pratica su quella squadra corre l’obbligo di vendere un calciatore, e di farlo a un determinato prezzo. Forse anche e soprattutto per questo i prezzi dei cartellini si stanno inflazionando fino ai clamorosi 222 milioni pagati dal PSG per Neymar, o ai 75 milioni pagati dal Liverpool per il discreto centrale difensivo Virgil van Dijk.
Non è un caso che all’interno del sistema appaia anche il nome di Doyen, il fondo di private equity gestito da Nelio Lucas, che ha movimentato la stagione delle Tpo (Third party ownership), ovvero le proprietà dei cartellini dei calciatori in mano a società terze, messe da poco fuori legge dalla Uefa ma tuttora molto in voga.
Muovendosi in questa intricata ragnatela di interessi privati e passaggi di denaro si incontra spesso il potentissimo procuratore Jorge Mendes – José Mourinho e Cristiano Ronaldo i suoi assistiti più famosi –, fondatore della società Gestifute, dal 2016 in partnership con il fondo cinese Fosun, e buon amico di Doyen e Vibrac.
Così come un altro nome interessante, almeno per la parte relativa al Milan, è quello dell’uzbeko Alisher Usmanov, attuale proprietario del 30% delle quote dell’Arsenal e controllore indiretto, attraverso ingenti finanziamenti, dell’Everton. Ma per adesso, Usmanov lo lasciamo qui.
C’è un’altra società, sede legale al 33 di Welbeck Street, Londra. Si chiama 23 Capital Limited. Presta soldi alle squadre di calcio. Benfica, Monaco, Atletico Madrid, Watford.
Il suo nome esce nei documenti pubblicati da Football Leaks in merito ai trasferimenti di Bernardo Silva dal Benfica al Monaco – oggi al Manchester City – e di Giannelli Imbula dal Marsiglia al Porto. Si è visto come i soldi del cartellino non siano stati pagati alle società ma alla 23 Capital, che ne deteneva l’ipoteca. La previsione di vendita.
Alla 23 Capital si sarebbe rivolta la BGB Weston, “piccola società di consulenza (780mila sterline di giro d’affari e 137mila di utile) di un certo Lorenzo Gallucci”, incaricata dal Milan per rifinanziare il debito monstre con il fondo Elliott. Lo scrive Mario Gerevini sul «Corriere della Sera Economia», l’11 dicembre 2017.
La BGB Weston ha sede sempre a Londra, al 15-17 Grosvenor Gardens, SW1W 0B, lo stesso indirizzo a cui, secondo il registro britannico, dal 16 giugno 2016 ha spostato la sua sede anche la Quint Limited, dove lavora Antonio Giraudo.
Il Milan si rivolge quindi a una piccolissima società per rifinanziare un debito monstre di 303 milioni: il cuore di una delle trattative più strane del calcio contemporaneo, il passaggio del 99,93% delle quote del Milan da Fininvest a una scatola cinese con sede in Lussemburgo, per 740 milioni di euro.
Sulle misteriose holding rossonere torneremo dopo. Per adesso abbiamo una piccola società incaricata di rifinanziare il debito, “piccola società” nella quale lavora l’ex amministratore delegato della Juventus, radiato per Calciopoli. Ma sicuramente è solo una coincidenza.
La BGB Weston si è infatti affrettata a specificare che Antonio Giraudo si occupa solo del ramo edilizio, e non di quello sportivo.
È diversi anni che il nome di Giraudo torna puntualmente nelle cronache relative alle faccende del Milan, ma si sa, le coincidenze sono stringhe impazzite, le puoi trovare ovunque. Anche qui.
Ma anche il Milan lo mettiamo un attimo da parte, ne parleremo dopo.
Rimaniamo sul factoring. E sul debito, vero motore del pallone, finché regge.
In Gran Bretagna la questione delle società che prestano soldi al pallone in cambio di futuri ipotetici proventi è stata presa abbastanza seriamente dalla stampa. E anche dalla politica, visto che è stata fatta un’interrogazione parlamentare in merito. In Italia no. L’unico a essersene mai occupato, prima dei recenti articoli del «Corriere della Sera», è Pippo Russo.
Del resto, la Covisoc, organismo preposto al controllo dei bilanci delle società di Serie A, pena il mancato permesso di iscrizione al campionato, da anni utilizza il “liberi tutti”. Altrimenti in Serie A si iscriverebbe sì e no una squadra su venti.
Il debito, dicevamo, è la leva che utilizzano quasi tutti nel calcio contemporaneo.
Secondo il Report Calcio 2017, pubblicato lo scorso maggio dalla Figc, il valore di produzione della Serie A al termine della stagione 2015-16 è cresciuto fino a 2,4 miliardi di euro. Il risultato netto è negativo, 250 milioni, ecco che i bilanci conviene sempre chiuderli in rosso.
Ma il dato più impressionante è un altro: i debiti della Serie A ammontano a oltre 3 miliardi, superando di gran lunga il valore della produzione. E di questi 3 miliardi di debiti si stima che almeno 1 miliardo sia dovuto al factoring, la cessione di crediti, o futuri introiti. La Serie A è un campionato di calcio fondato sui subprime.
Anche qui, i maestri sono gli inglesi. Il vero passaggio del pallone dalla dimensione industriale a quella finanziaria avviene tra il 2003 e il 2005, quando una famiglia di speculatori americani, i Glazer, acquistano il Manchester United per una cifra vicina a 800 milioni di sterline senza tirarne fuori nemmeno una di tasca propria.
Il leveraged buyout fa il suo ingresso nel mondo del pallone.
Per rastrellare azioni e partecipazioni dello United e arrivare al suo completo e totale controllo, infatti, i Glazer ottengono i soldi in prestito dalle banche, impegnando gli stessi asset del club che stanno per acquistare.
Oppure grazie all’emissione di obbligazioni pik, ovvero di bond che pagano interessi sui debiti.
Poi i Glazer spostano la proprietà del Manchester United nel paradiso fiscale del Delaware, lo quotano alla borsa di New York e ne fanno il club più ricco del pianeta, valutato da Forbes 3,7 miliardi di dollari nel 2017. Senza ancora aver speso una sterlina, intascano fantastici profitti.
Lo stesso meccanismo, più o meno, lo hanno utilizzato anche altri investitori americani. In particolare, l’acquisto del Liverpool nel 2010 per 300 milioni di sterline da parte del Fenway Sports Group, società di investimenti con sede legale nel paradiso fiscale del Delaware, che detiene anche la proprietà dei Boston Red Sox di baseball.
Al Fenway Sports Group, proprietario anche dello stadio di Anfield, così come i Glazer posseggono lo stadio di Old Trafford, è riconducibile anche James Pallotta e quindi la proprietà della Roma, acquistata anch’essa con il metodo del leveraged buyout. Compreso, quindi, quale può essere l’interesse della Roma nella costruzione di un nuovo stadio, andiamo avanti a occuparci dei debiti del pallone italiano.
I più noti sono quelli di Inter (circa 200 milioni all’euribor a tre mesi più uno spread del 5,5%) e Roma (230 milioni, scadenza 2022, tasso intorno al 7%) con Goldman Sachs. Il più assurdo è quello del Milan: 303 milioni dell’hedge fund Elliott in scadenza nell’ottobre 2018 e con interessi fino all’11%.
Elliott, definito dal «Financial Times» “aggressive activist hedge fund”, ha giocato tra l’altro un ruolo chiave nella crisi finanziaria argentina, obbligando il governo sudamericano in default a versare oltre il 100 per cento della cifra che il fondo aveva investito nelle obbligazioni andate fallite, con un incasso di 2 miliardi di dollari. Scrive «L’Espresso».
In particolare, Elliott ha emesso due distinti prestiti. Uno da 180 milioni (a un tasso dell’11,5%) che fa capo a Rossoneri Sport Investments Lux. Poi due distinti bond per un totale di 123 milioni (tasso 7,7%) che fanno invece capo al Milan.
Ora, dopo che la Uefa ha bocciato il piano di rientro del voluntary agreement – che secondo ricostruzioni giornalistiche si basava sull’assurda convinzione di essere in grado, per il 2022, di ricavare mezzo miliardo dalla Cina, quando squadre già avanti anni luce nel marketing sportivo come Real Madrid e Barcellona dalla Cina ricavano circa 50 milioni l’anno –, il Milan sta cercando disperatamente di rifinanziare il debito.
Rivolgendosi, coincidenza, a una piccola società londinese in cui lavora un certo Antonio Giraudo.
È un’impossibile corsa contro il tempo, perché nel caso del Milan, il problema non è nemmeno il debito. Il problema è che non si sa chi potrà mai ripagarli perché la proprietà è assente. O forse è malata. O forse non esiste.
La seconda parte, qui.

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