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sab 1 aprile 2017

IL DESTINO DI HONG KONG: SEMPRE PIÙ CINESE

A distanza di tre anni dai moti del 2014, Pechino non ha dimenticato ed è determinata a chiudere definitivamente la pratica Hong Kong. In questi tre mesi di interregno fino a luglio (quando si insedierà la nuova governatrice Carrie Lam), attraverso la giustizia di Hong Kong, vuole assicurarsi una volta per tutte che il messaggio di fondo arrivi forte e chiaro: le insubordinazioni saranno punite, il dissenso non sarà contemplato. Hong Kong, volente o nolente, è destinata a diventare sempre più cinese. Finché i sistemi, come il Paese, diventeranno uno solo.

I “cinesi” a metà

Uno dei “vantaggi” dei sistemi autoritari è il lusso della progettualità, concepire il passare del tempo come una variabile a proprio favore per raddrizzare le storture della gestione del potere. E Pechino, negli ultimi anni, ha dovuto fare i conti con la fastidiosa insubordinazione della popolazione di Hong Kong, condannata a uno status di “cinesi a metà” da quel principio di uno Stato-due sistemi, sancito col passaggio dell’ex-colonia britannica a Pechino nel 1997.
Secondo l’accordo, Hong Kong avrebbe mantenuto un’indipendenza tangibile negli affari politici, giudiziari ed economici rispetto alla Cina continentale, in particolare con una vaga promessa di garanzia democratica formulata nell’articolo 45 della Basic Law locale:
«L’obiettivo ultimo è la selezione del Chief Executive (il “primo ministro” di Hong Kong, ndt) attraverso suffragio universale previa nomina da parte di un comitato di ampia rappresentanza in accordo con le procedure democratiche».

Hong Kong 2017

L’ampia rappresentanza democratica, nella Hong Kong del 2017, si riduce a un comitato-elettore formato da 1200 persone, espressione in gran parte dell’élite commerciale e finanziaria cittadina, che l’ultima settimana di marzo ha nominato a futura Chief Executive la burocrate Carrie Lam: il prossimo primo luglio, quando sarà portato a conclusione il passaggio di poteri con l’attuale Chief Executive Leung Chun-ying, sarà la prima donna a ricoprire tale carica nella storia di Hong Kong.
Lam, considerata “pro-Pechino”, ha ricevuto immediatamente le felicitazioni del presidente cinese Xi Jinping, il grande manovratore, impegnato dal 2014 in uno scontro a distanza con la società civile di Hong Kong che ha animato il cosiddetto Umbrella Movement.

Umbrella Movement

Durante quella stagione politica, oceaniche proteste di piazza paralizzarono Hong Kong per oltre due mesi, opponendosi a una proposta di elezioni che negava – di nuovo – l’agognato suffragio universale dell’articolo 45. L’aritmetica è semplice: se si allargasse la base del voto e si permettesse alla popolazione di esprimere i propri candidati senza quella pre-selezione informale imposta da Pechino, la cosa pubblica hongkonghina sarebbe gestita con maggiore autonomia dai diktat cinesi che, forti di una compenetrazione economico-finanziaria sempre più asfissiante, finiscono per soffocare anche la libertà di espressione considerata dagli isolani un vanto, un tesoro da salvaguardare.
Attraverso le forze di polizia di Hong Kong, Pechino riuscii a reprimere il movimento spontaneo, allungando ancora di più la propria ombra sulle vicende dell’isola attraverso arresti illegali di librai e businessmen rei di levare voci dissonanti rispetto all’“armonia repubblicana” che vige nel continente. Un pugno di ferro che, a poche ore dalla vittoria di Lam, si è manifestato in tutta la sua limpidezza con l’arresto di nove leader dell’Umbrella Movement.
Si tratta di politici, parlamentari, leader studenteschi e, soprattutto, del trio responsabile della campagna di disobbedienza civile Occupy Central: gli accademici Benny Tai Yu-Ting e Chan Kin-man e il reverendo Chu Yiu-ming.

La repressione e le ragioni di Pechino

Per tutti sono state formulate accuse di disturbo della quiete pubblica, incitamento al disturbo della quiete pubblica e associazione a delinquere: capi d’imputazione che, secondo la legge di Hong Kong, sono punibili fino a sette anni di detenzione.
I nove, immediatamente liberati su cauzione, giovedì 30 marzo si sono presentati in tribunale per sbrigare le formalità di apertura del processo, prima udienza fissata per il prossimo 25 maggio.
La tempistica delle autorità non è nemmeno sospetta: è chiaro che Pechino aveva tutto l’interesse a tenere bassa la tensione fino alla nomina di Carrie Lam. Assicurata una reggenza di Hong Kong allineata alla visione della Cina continentale, ora si passa all’incasso.

«Riunificare la società»: appuntamento a luglio

Le accuse mosse contro i nove sono considerate platealmente in disaccordo proprio con quelle tutele democratiche garantite dal principio un Paese-due sistemi del 1997 e rappresentano, secondo Amnesty International, una minaccia alla libertà d’espressione e al diritto di assemblea nella città.
Carrie Lam, fresca di nomina, ha subito dichiarato di non saperne nulla, riaffermando il proprio impegno nel «riunificare la società e colmare il divario che ha causato così tante preoccupazioni nel passato». Un programma politico che dovrebbe concretizzarsi appunto dal primo luglio, e chissà in che modalità e forme.

Prospettive future

A distanza di tre anni dai moti del 2014, Pechino non ha dimenticato ed è determinata a chiudere definitivamente la pratica Hong Kong.
In questi tre mesi di interregno, attraverso la giustizia di Hong Kong, vuole assicurarsi una volta per tutte che il messaggio di fondo arrivi forte e chiaro: le insubordinazioni saranno punite, il dissenso non sarà contemplato. Hong Kong, volente o nolente, è destinata a diventare sempre più cinese. Finché i sistemi, come il Paese, diventeranno uno solo.

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