Decodificare il presente, raccontare il futuro

MONITOR


dom 10 febbraio 2019

HAUNTOLOGY, VOLUME 1: SERIE TV

Il concetto di “Hauntology”, coniato dal filosofo decostruttivista Jacques Derrida, rimanda oggi all’uso pervasivo della “nostalgia” come dispositivo politico-culturale sempre più presente dal cinema alle serie tv e, più in generale, nelle narrazioni che modellano l’immaginario collettivo. Dalle opere ormai di culto come “Stranger Things” e “Black Mirror” e passando per tante altre, assistiamo alla sintomatica e pervasiva riproposizione di prodotti culturali nostalgici che delineano un mondo falso, perché restituito privo di contraddizioni.

“Hauntology” (crasi dall’inglese di “haunting” e “onthology”, ovvero “fantasma/ossessione” e “ontologia”) è il concetto coniato dal filosofo decostruttivista Jacques Derrida nel suo libro Spettri di Marx del 1993.
E sta a significare una disgiunzione temporale, storica e ontologica in cui la presenza dell’essere è sostituita da una non-origine rappresentata dalla figura del “fantasma come ciò che non è né presente, né assente, né morto”.
Ed è un concetto che può rimandare, oggi, all’(ab)uso della “nostalgia” come dispositivo politico-culturale sempre più presente nelle narrazioni e rappresentazioni, dal cinema alle serie tv e, più in generale, nell’immaginario collettivo.
«C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo […] Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi».
Così scriveva Walter Benjamin, filosofo che si è occupato dei concetti di “frammentazione” e “ripetizione”, anticipando i tratti caratteristici della postmodernità, o meglio del tardo-capitalismo.
Negli artefatti culturali la frammentazione e la ripetizione hanno trovato il loro apice a conclusione del millennio, con i collage musicali (i campionamenti, la musica sintetica) e visivi (il cinema di Quentin Tarantino).
In molti, riprendendo le note tesi di Fredric Jameson – che nel celebre saggio L’inconscio politico ammoniva come fosse necessario «storicizzare sempre» ogni oggetto culturale – hanno accusato il post-modernismo di produrre solo pastiche, ovvero un citazionismo fine a sé stesso.
Una parodia superficiale del passato dove l’ironia serviva solo a mascherare una mancanza di profondità analitica e, soprattutto, storica.
Il «desiderio acuto di tornare a vivere in un luogo che è stato di soggiorno abituale e che ora è lontano», o l’invenzione di quel luogo stesso, è stato il tratto caratteristico della fine del millennio scorso.
Pellicole come American Graffiti (1973, di George Lucas), Grease(1978, di Randal Kleiser), Body Heat (1981, di Lawrence Kasdan, un remake depotenziato e in tono minore di Double Indemnity di Billy Wilder) sono proprio quelle utilizzate dallo stesso Jameson nel saggio (successivo) Il Postmodernismo o la logica culturale del tardo capitalismo per portare alla luce il tratto ferocemente conservatore e tendente alla ricomposizione dei conflitti di tutta l’operazione politico-culturale della nostalgia.
Qui, infatti, gli anni Cinquanta non sono raccontati come il periodo della Guerra Fredda, della corsa agli armamenti, della feroce repressione dei lavoratori, delle donne e delle minoranze, della caccia alle streghe del maccartismo, ma come un paradiso perduto.
Un eden terrestre senza conflitti e rotture, cui guardare come un angelo della storia di Benjamin incatenato, per non vedere le contraddizioni del presente e poter fingere che non siano figlie di quelle del passato.
E siccome anche il dispositivo nostalgico vuole i sui cicli, produttivi e riproduttivi, ecco che gli anni Dieci vengono segnati dallo struggente ricordo per i mitici anni Ottanta. Oggi Jameson avrebbe l’imbarazzo della scelta tra i nuovi episodi di Guerre Stellari e Super 8(2011, di J. J. Abrams), Donnie Darko (2001, anticipando le tendenze e facendosi piccolo oggetto di culto anni dopo l’uscita nelle sale), Dallas Buyers Club (2013, di Jean-Marc Vallée) e molti altri.
Per non parlare di Blade Runner 2049 (2017, di Denis Villeneuve, remake dell’immortale Blade Runner di Ridley Scott made in 80’) o del capolavoro postmoderno The Wolf of Wall Street (2013, di Martin Scorsese, un quasi remake di Wall Street del 1987, firmato da Oliver Stone e pietra miliare nelle rappresentazioni del decennio della Reaganomics).
Dal cinema alle serie tv. Se ieri la serialità non si spingeva oltre Happy Days(1974, di Garry Marshall), oggi ha soppiantato il cinema, o comunque ne sta mutando drasticamente il modo di fruizione, rimodellando i paradigmi della spettatorialità.
Nel panorama seriale, tra gli artefatti più nostalgici del decennio forse si annoverano Glow (2017) di Liz Flahive e Carly Mensch, alcuni episodi di Black Mirror (di Charlie Brooker) quali il famoso “San Junipero” (2016, seconda stagione) e la puntata “interattiva” Bandersnatch (2018). Ma, soprattutto, l’ormai prodotto di culto Stranger Things (2016) di Matt e Ross Duffer.
In queste opere, tuttavia, la nostalgia ha fatto un passo avanti, trasformandosi in Fernweh, una nostalgia della lontananza o meglio un ricordo di un posto dove non si è mai stati.
In un tripudio citazionistico degli ‘80 – in cui si accavallano E.T., Ghostbusters, The Thing, Stand By Me, Back to The Future e The Goonies  – Stranger Things, serie culto incubatrice di culti, ha avuto un riscontro deflagrante nel pubblico dei giovanissimi: post-millennials neppure nati in quegli anni hanno mostrato di apprezzare e condividere l’immaginario scritto e realizzato da una generazione di quarantenni che giocava con la nostalgia della propria infanzia.
Come accadeva negli anni Ottanta, quando la televisione e il cinema raccontavano ai più giovani del paradiso perduto degli anni Cinquanta, anche davanti al computer per vedere tutti insieme Stranger Things, i figli hanno trovato il punto di contatto con i genitori in un’infanzia inventata.
In un mondo falso, perché restituito privo di contraddizioni.
In questo ormai pervasivo ripescaggio dagli ’80 in forma di loop nostalgico e nichilista, infatti, ogni riferimento al punk o all’eroina, alla nascita del neoliberismo e alla rottura dei patti sociali faticosamente costruiti nel dopoguerra, mentre abbondano oggetti, marchi, e riferimenti commerciali privi di profondità e senso storico.
Manca la controcultura.
Ma non basta. Stranger Things ci manifesta un’altra inclinazione diffusa e sintomatica. Lo spazio della fruizione da spazio sospeso, totalmente normalizzato, privo di contraddizioni e di rapporti deviati e devianti, dà vita a una sorta di narrazione metapsichiatrica: un esperimento da laboratorio in cui i genitori si trasformano in coetanei dei figli, amici immaginari con cui condividere la visione.
È sufficiente guardarsi il trailer della nuova e attesissima terza serie per comprendere come gli sceneggiatori puntino proprio a creare una bolla esperienziale ancorata al dispositivo nostalgico per intrappolare grandi e piccini, in un eterno presente senza conflitto, nuovamente soli e per di più in silenzio.
Muti di fronte ad un leggerissimo e compatto schermo ultrapiatto che è allo stesso tempo un pesantissimo e antico televisore con il tubo catodico, ma senza la fatica di doverlo fisicamente sollevare.
Due anni dopo Stranger Things, arriva “Bandersnatch” (2018): ultima puntata “fuori serie” della saga di Black Mirror, a stabilire che la nostalgia per come l’abbiamo conosciuta negli anni Dieci ha già segnato il passo. È arrivata a un punto di saturazione.
Non solo l’ambientazione, ma la scelta della storia interattiva – impostata a bivi (lo spettatore può scegliere con il cursore quali cereali mangiare a colazione, se accettare o meno l’offerta di lavoro, e così via a determinare quale linea narrativa seguirà l’episodio – è tipica dei libri e video -game di fine ’80 e qui diviene strumento meta-narrativo di marketing per celebrare l’ascesa di Netflix nel panorama delle piattaforme di contenuti audiovisivi.
La celebrazione del grande marchio del presente raccoglitore di brand del passato. Tutta una seria di riferimenti (spesso abusati fastidiosamente) visivi, musicali e architettonici che arrivavano addirittura alla citazione compulsiva di marchi commerciali che hanno segnato il decennio.
Come ha giustamente osservato Francesco Guglieri su Il Tascabile, “Bandersnatch” gioca continuamente con tutti gli stereotipi culturali del tardo capitalismo e della nostalgia, anche alti, fino al punto di rivolgersi allo spettatore per dirgli: «lo so che farai tutte queste riflessioni, l’avevo già previsto nell’infinita ricombinazione delle trame. Possiamo solo darci di gomito a vicenda, io testo e tu fruitore, dirci quanto siamo intelligenti, sorridere e disperarci. Non c’è altro da fare».
Una strizzatina d’occhio disperata: in fondo è una buona sintesi del postmoderno.
È l’autore stesso di Black Mirror, quindi, a rendersi conto del livello di soffocamento raggiunto dalla riproposizione continua della nostalgia di un preciso momento storico.
È il primo, forse, ad avere rigetto della sua stessa opera, o quantomeno a condividerne la nausea con lo spettatore.
D’altronde questo è il decennio del Vaporwave, una nostalgia diversa, dai contorni molto più sfumati e inquieti, per non dire inquietanti.
Anzi, a dirla tutta il Vaporwave è nato all’inizio degli anni Dieci. E oggi è già finito. È già oggetto, a sua volta, di nostalgia.
To be continued…

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